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La Cultura non può essere neutrale

  • Pubblicato il: 15/07/2018 - 00:01
Autore/i: 
Rubrica: 
MUSEO QUO VADIS?
Articolo a cura di: 
Patrizia Asproni
"Ora che le fonti sono potenzialmente infinite e ciascuno può accedere più o meno direttamente e liberamente (o almeno crede di poterlo fare) ad una moltitudine di informazioni, è legittimo chiedersi se il racconto – anche quello contemporaneo - promosso dalle istituzioni culturali non possa essere discusso, messo in crisi o quantomeno giudicato, e se non debba da ciò mettersi al riparo, richiamando ad un surplus di obiettività coloro - le persone, di fatto – che hanno la responsabilità di costruire l’offerta”. Carta bianca a Patrizia Asproni. “Un passo più in là, ci si potrebbe chiedere se la stessa promozione di contenuti culturali “condizionati” non possa prestarsi a diventare atto politico, ossia strumento di affermazione di questa o quella parte al di là del valore della diffusione dell’attività stessa"
Rubrica di ricerca in collaborazione con il Museo Marino Marini
Sullo sfondo di un appannamento (!) delle ideologie, in cui la narrativa popolare sembra non distinguersi più per appartenenza o riferimento a diversi o contrapposti sistemi di valori, la realtà è fluida e anche la più documentata obiettività è messa in discussione da sfumature di interpretazione che vanno dal fact-checking al complottismo, ha senso chiedersi se la cultura istituzionalmente organizzata, quella custodita e promossa per esempio dai nostri musei, non possa farsi strumento di un racconto che può assumere toni di parte.

In termini molto generali, non è una questione nuova, anzi: storicamente attanaglia il mondo della cultura in tutto il pianeta. Le vicende coloniali, l’eurocentrismo e la visione illuministica del modello occidentale come il migliore possibile hanno senz’altro influenzato il modo in cui le storie sono state fatte convergere verso una Storia. Le vicende dei Nativi Americani negli States, delle civiltà pre-colombiane nel Centro e Sud America, di quelle orientali o africane sono solo esempi di narrazioni lungamente misconosciute o rese “secondarie” dal complesso di superiorità ed etnocentrismo che ha informato la rappresentazione della realtà storica da parte dell’Occidente. E ha condizionato il modo in cui abbiamo costruito la nostra memoria, lasciando dietro di sé quantomeno qualcosa di non obiettivo e certamente molto di inesplorato.

Ma oggi il tema non si esaurisce nel recupero delle narrazioni alternative. Ora che le fonti sono potenzialmente infinite e ciascuno può accedere più o meno direttamente e liberamente (o almeno crede di poterlo fare) ad una moltitudine di informazioni, è legittimo chiedersi se il racconto – anche quello contemporaneo - promosso dalle istituzioni culturali non possa essere discusso, messo in crisi o quantomeno giudicato, e se non debba da ciò mettersi al riparo, richiamando ad un surplus di obiettività coloro - le persone, di fatto – che hanno la responsabilità di costruire l’offerta.

Un passo più in là, ci si potrebbe chiedere se la stessa promozione di contenuti culturali “condizionati” non possa prestarsi a diventare atto politico, ossia strumento di affermazione di questa o quella parte al di là del valore della diffusione dell’attività stessa.

Va detto che tutto ciò non riguarda solo il potere politico, ma – specie in tempi in cui alle istituzioni culturali è richiesta, pena la loro stessa sopravvivenza, un’alleanza con il mondo dei privati e dell’impresa - anche a quello economico: se questa o quella azienda produttrice di energia sostiene -come recentemente accaduto a Londra con la BP (British Petroleum) - un Museo della Scienza, si può essere certi che il racconto sui temi ambientali resti genuino? O partnership come queste sono destinate necessariamente a influenzare i messaggi proposti? Un bel problema.

Ma c’è una verità altrettanto urgente da affrontare. Se il succitato più ampio accesso alle informazioni può investire i cittadini di potenzialità da watch-dog culturali, chi contribuisce a costruire la narrazione – sia egli curatore, artista, amministratore pubblico – ha di fronte a sé un pubblico con più strumenti ma non per questo più maturo. Forse più difficilmente portato ad affidarsi agli esperti (sic!) e illuso di poter effettuare, libero,  una verifica dell'oggettività attraverso le proprie forze, ma nella realtà più che mai esposto al rischio della manipolazione.

Non è questa la sede per agitare il fantasma del Grande Fratello che passa attraverso l’accesso ai dati che la gran parte di noi con felice inconsapevolezza offre a soggetti “forti”, ma va adeguatamente evidenziato che agire responsabilmente in ambito culturale significa oggi stimolare la capacità critica, la lucidità di giudizio, la facoltà di disintermediazione dei messaggi, in Italia più che altrove mortificate dalla destrutturazione dei sistemi educativi degli ultimi vent’anni.

Che questo o quel curatore siano influenzati dalla visione del mondo che accompagna l’epoca o la parte del mondo in cui essi vivono, accanto alla responsabilità della verità hanno quella dell’educazione intesa non solo come la trasmissione di conoscenze attraverso il racconto ma anche degli strumenti per la decodifica e l’interpretazione delle realtà rappresentate. Nessun museo o mostra che adotti policies guidate da questo principio rischia di vedersi influenzato o cooptato da questa o quella parte politica o economica.

Verità, responsabilità e sollecitazione del senso critico sono i cardini intorno ai quali ciascuna istituzione culturale è chiamata a organizzare la sua offerta, libera da condizionamenti e solo in questo modo in grado di supportare la costruzione di una società consapevole e realmente democratica; di comunità coese, solidali, prive di pregiudizi e non strumentalizzabili.

Se poi è un soggetto politico a farsi interprete di iniziative di promozione della cultura, in qualità di amministratore, è senz’altro auspicabile che questo avvenga con l’obiettivo di fertilizzare e riavvicinare i cittadini al loro patrimonio, guidato da pensieri lunghi, tali da poter lasciare in eredità pratiche costruttive e valori di reale sostegno della cittadinanza culturale delle persone. Coniugando con questo una corretta valutazione della sostenibilità delle proposte e delle possibilità di crescita per le istituzioni culturali stesse.

Se ne è parlato nel passato a proposito delle domeniche gratuite, e ultimamente della MiC Card, il biglietto low cost (5 Euro) annuale e integrato per tutti i musei  promosso dalla Giunta Capitolina a Roma, che se hanno avuto, ed hanno tuttora,   il merito di portare alla luce un patrimonio ampio e parzialmente misconosciuto, non possono rappresentare un “tag” politico, ma uno strumento da valutare nell’ambito di un’ampia e organica visione di sviluppo culturale, a vantaggio dei cittadini quanto dei musei coinvolti. 

Indipendentemente dal giudizio che può darsene, infatti, nessuna azione one-shot in ambito culturale è infatti autosufficiente, se non contestualizzata in una pianificazione attenta, lungimirante e realmente orientata alla crescita collettiva.
 

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