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Musei. Le nuove frontiere

  • Pubblicato il: 15/02/2018 - 08:06
Autore/i: 
Rubrica: 
MUSEO QUO VADIS?
Articolo a cura di: 
Patrizia Asproni

Il trend di crescita dei visitatori dei musei italiani, in controtendenza rispetto ai dati provenienti dal mondo, merita un’analisi puntuale. Fenomeno episodico o strutturale? Stiamo elaborando una strategia di offerta che possa giocare d’anticipo rispetto ad una domanda in trasformazione, e nella creazione di codici innovativi e multidisciplinari?
Rubrica di ricerca in collaborazione con il Museo Marino Marini


L’anno che è appena trascorso è stato per i musei italiani quello dell’esibizione di numeri di successo, con una crescita considerevole dei dati sugli ingressi, in impennata soprattutto relativamente ai poli culturali di maggiore attrazione del Paese.
Non siamo in grado di dire, oggi, se si tratti di un trend positivo o di un picco occasionale, ma quello che senz’altro possiamo osservare è che la congiuntura è fortunata: altrove, in Europa e nel mondo, si aggira infatti il fantasma del calo dei visitatori. Che merita però un’analisi puntuale.
 
Qualche dato, a titolo di significativo esempio. Nel 2016-2017  la vicina Germania ha visto musei ed esposizioni dedicata all’arte impoverirsi di due milioni e mezzo di frequentatori, con il 7,4% in meno degli ingressi. In UK , Francia, Stati Uniti stessa tendenza: contrazione dei visitatori e concentrazione dell’interesse verso i grandi blockbusters museali, a discapito delle entità più piccole e diffuse; per tutti, inoltre, discussione sempre aperta e non ancora risolta sulla sostenibilità, come mostra il dibattito indignato sollevato dalla decisione di introdurre, per la prima volta dalla sua fondazione, il biglietto di ingresso al Metropolitan Museum.
 
Messa così, la situazione non appare affatto promettente. Ma ci sono almeno altri due fattori da tenere in buon conto, che accomunano i contesti che abbiamo citato ad esempio tanto quanto la gran parte del mondo occidentale e del suo patrimonio.
Da un lato, i maggiori risultati ottenuti negli ultimi cinque/dieci anni dalle istituzioni culturali che hanno mostrato di saper ri-modulare la propria offerta in una direzione sempre più orientata dalla customer experience: abbattuto il mantra della conservazione bastevole a se stessa, piccole e grandi realtà di successo sono quelle che hanno inteso rileggere plasticamente la propria missione, superando certo immobilismo didascalico per andare verso il visitatore, i suoi desideri, le sue attitudini e le sue abitudini. Logica vissuta da qualcuno come mercantile, da altri più realisticamente come la strada maestra per una reale valorizzazione. Dall’altra parte, la “sorpresa” del balzo in avanti dei musei scientifici (per tornare all’esempio tedesco, +4,1% negli anni di riferimento citati), che ovunque testimoniano un andamento inverso, dopo aver attraversato decenni di understatement culturale come figli di un dio minore rispetto ai sacri custodi dei patrimoni storico-artistici nazionali.
 
Includendo nel ragionamento queste notazioni l’analisi delle motivazioni delle tendenze in corso si fa più interessante. Almeno tre ragioni, a mio avviso, concorrono macroscopicamente a determinare lo scenario corrente: 1. la progressiva mutazione genetica degli approcci culturali. Flussi turistici sostanzialmente cambiati, che vedono in crescente movimento, per esempio, cittadini asiatici verso il Vecchio Mondo, inducono una crisi dei codici culturali, storicamente segnati da una autoreferenzialità più o meno cosciente e oggi in uno stato di disfunzionale smarrimento di fronte a un pubblico – ancora – inatteso; 2. la graduale contaminazione tra consumi culturali e modelli di intrattenimento e la conseguente moltiplicazione delle piattaforme, che pone l’offerta museale in concorrenza con altre possibili scelte di investimento del tempo; 3. l’affermazione della mediazione tecnologica nelle abitudini e negli stili di vita quotidiani, soprattutto per le generazioni più giovani, target tipico del modello tradizionale di offerta delle istituzioni culturali.
 
Anche fermandosi qui, emerge una chiave di lettura sufficiente a spiegare la nuova alba dei musei scientifici e la loro crescente attrattività nei confronti del pubblico.
Mentre la narrazione scientifica, infatti, assume sempre più un connotato mainstream e divulgativo e, soprattutto per il tramite delle tecnologie, attrae verso il suo universo pubblici ampi e differenziati, stimolando, tra l’altro, anche nuovo interesse verso i percorsi formativi di area STEM. L’innovazione e la sua penetrazione nella vita di ogni giorno, di fatto, rappresenta il ponte di collegamento tra scienza e i vissuti personali, determinando una prossimità probabilmente senza precedenti in passato. Ed è proprio questa la scommessa dei nascenti musei del futuro, (abbiamo qui parlato di quelli di Dubai e di Rio de Janeiro) e della loro ambizione ad essere luoghi di precognizione e di decodifica di un avvenire sempre più vicino e che richiede di essere rapidamente compreso.
Musei che puntano a comunicare e insegnare il pronto adattamento al quotidiano, l'informazione ready to use, ma che nel contempo portano le menti ad immaginare cosa sarà, piuttosto che limitarsi a contemplare ciò che è stato e che è.
Eppure, d’altro canto, i nostri musei “tradizionali” sono immensi repositori di contenuti, enciclopediche banche dati a disposizione del pubblico da utilizzare come chiavi interpretative tanto del passato quanto del presente e del futuro.
Possibile allora che il dialogo sia interrotto in partenza e che questi mondi siano ancora costretti alla reciproca segregazione, all’ombra minacciosa della divisione crociana tra Arte e Scienza? Davvero il domani è prerogativa degli scienziati e il passato degli umanisti?
Nel nostro Paese, di fatto, questo è l’impianto della nostra offerta museale, e più in generale, culturale. Seppure, come dicevamo in apertura, il dato sui frequentatori dei musei di arte è oggi in controtendenza quanto sta accadendo in Europa e negli States può e deve servire da alert: non sappiamo se la parabola dei flussi curverà di nuovo verso il basso, né siamo in grado di isolare l’efficacia delle nostre azioni di politica culturale dall’influenza di fattori esogeni legati, per esempio, ai flussi turistici rimbalzati dai paesi percepiti come maggiormente esposti al rischio di terrorismo.
Quello che è certo è che siamo in ritardo nell’elaborazione di una strategia di offerta che possa giocare d’anticipo rispetto ad una domanda in trasformazione, e nella creazione di codici realmente innovativi e multidisciplinari.

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