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FOCUS FOTOGRAFIA: appunti per una nuova Cultura della fotografia (parte 1/4)

  • Pubblicato il: 10/08/2017 - 10:34
Autore/i: 
Rubrica: 
OPINIONI E CONVERSAZIONI
Articolo a cura di: 
Catterina Seia

MiBACT per la fotografia: nuove strategie e nuovi sguardi sul territorio. Lorenza Bravetta, Consigliere del Ministro Dario Franceschini per la valorizzazione del patrimonio fotografico nazionale, ha varato un intenso programma  di confronto, con un ciclo di conferenze itineranti che ha seguito la convocazione ad aprile degli Stati generali della fotografia: Reggio Emilia, Palermo, Milano, come Senigallia, Torino. L’obiettivo del percorso capillare di dibattito e confronto con gli addetti ai lavori  è definire un piano di sviluppo strategico -le linee guida, i temi di policy, gli ambiti di intervento prioritario- ,per adattare l’intervento pubblico alle mutazioni tecniche ed economiche del settore, determinando nuove opportunità per la fotografia italiana a livello nazionale e internazionale. Restituiamo il flusso di ascolti che abbiamo realizzato per l’incontro di Milano che abbiamo moderato su fotografia tra documento sociale ed espressione artistica. Ecco il punto di vista di Lorenza Bravetta (Mibact), Giovanna Calvenzi (MuFoCo) e Mariateresa Cerretelli (GRIN).
 
  
Milano. Si va delineando il progetto per la fotografia italiana voluto dal Ministro dei Beni Culturali che ha decretato una cabina di regia al fine di tutelare e promuovere il linguaggio come patrimonio storico e contemporaneo, strumento di memoria. A seguito degli Stati Generali indetti ad aprile, un ciclo di conferenze sul territorio nazionale ha chiamato a raccolta per un confronto gli addetti ai lavori. Dopo la prima tappa a fine maggio a Palermo, dedicata alla fotografia come strumento identitario e di indagine antropologica, il secondo appuntamento si è svolto  con la nostra moderazione agli inizi di giugno a Milano presso la Triennale di Milano, in collaborazione con il Comune e con il Museo di fotografia contemporanea, in occasione della PhotoWeek e della mostra “La terra inquieta” curata da Massimiliano Gioni- presso l’istituzione, interrogando un sistema che distingue la fotografia tra documento sociale ed espressione artistica.  “Soggetto, iconografia, contesto storico, attualità, e ancora canali di condivisione, vendita o appropriazione. La fotografia offre infiniti punti di accesso, letture e classificazioni, sia dal punto di vista semantico che di sistema, nonostante spesso vi sia la tendenza a ridurre la questione a una distinzione binaria tra documento sociale ed espressione artistica. Ma è proprio in virtù di questa distinzione che la fotografia gode – già dagli anni ’90 - di un’identità duplice, in un circuito specializzato di gallerie, collezioni, musei e scuole, e in dialogo con l’arte contemporanea, dove contribuisce a una ricognizione complessa del mondo delle immagini. Eppure oggi, nell’era di internet, del digitale e della post-verità, sembra legittimo interrogare un regime, che pur utile, ha limitato opportunità e interpretazioni trasversali della fotografia.”
 
L’incontro ha coinvolto le istituzioni culturali ospitanti con interventi di  Clarice Pecori Giraldi- Vicepresidente La Triennale di Milano, Anna Maria Montaldo – Direttrice dell’Area Polo Arte Moderna e Contemporanea del Comune di Milano, Giovanna Calvenzi – Presidente Museo Fotografia Contemporanea, Milano - Cinisello Balsamo e dato corso ad una tavola rotonda con Matteo Balduzzi – Museo di Fotografia Contemporanea,  curatore del progetto Identity Flows_Visual Routes Across the Mediterranean Sea, Raffaella Cortese – Gallerista, Milano, Filippo Maggia – Curatore del progetto Lying in Between, Hellas 2016, Linda Fregni Nagler – Artista,  Alessandro de Lisi – First Social Life, curatore del progetto Verso il Museo del dialogo e della fiducia per il Mediterraneo, Lampedusa 2016, Beatrice Trussardi – Presidente Fondazione Nicola Trussardi, Bas Vroege – Fondatore e Direttore di Paradox, Rotterdam, Tobias Zielony – Artista.
La restituzione del flusso di pensiero sarà ospitata sulla sezione del sito Mibact dedicata alla fotografia. “Trattare Milano, contestualmente alla mostra di Gioni, il tema della fotografia tra documentazione ed espressione artistica è stato un modo  per raccogliere riflessioni che possano fare avanzare il  pensiero su come e perché usiamo la fotografia oggici dice Lorenza Bravetta. 
In questa direzione offriamo ai nostri lettori uno  speciale con gli ascolti che abbiamo realizzato  e i contributi che abbiamo raccolto in preparazione dell’incontro. Stimoli che aprono interessanti e multidimensionali prospettive nell’epoca dell’inflazione dell’immagine. “La fotografia è sempre documentazione, ma ciò che si moltiplicano sono i livelli interpretativi”.
L’artista è un reporter”, afferma Achille Bonito Oliva nel suo Elzeviro del Giornale dell’Arte del mese di luglio. “Cosa separa la produzione orizzontale di quotidiano da quella verticale dell’arte? (..) L’artista è un inviato speciale nella realtà: questo reale che si presenta sempre più sistematicamente sotto i segni di improvvise tragedie (..), di un tempo incerto. L’occhio si muove lungo derive e scarti, lungo vie che non sono mai maestre, ma sempre sentieri interrotti che (…) producono un accesso all’attenzione in un mondo mai in posa”.
 
Il set scelto con la mostra a in onda nel centro,  “La Terra inquieta”,  alla quale abbiamo già dedicato molti approfondimenti, per la sua carica pubblica e politica sulle sfide del nostro tempo, offre stimoli di dibattito. Temi che possono diventare trappole narrative. Susan Sontag, in un lucidissimo saggio del 2003 Davanti al dolore degli altri, analizzava i processi di apprendimento, mistificazione, spettacolarizzazione, retorica e fascino del male della fotografia di guerra che ci bombarda tramite i mass-media. Concludeva affermando che in fondo “ricordiamo solo le immagini, non ricordiamo attraverso le immagini, il messaggio sbiadisce e perde mordente e  finiamo per rimanere irrimediabilmente lontani dal dolore degli altri.”
La fotografia, così come tante espressioni dell’arte contemporanea, forse più di altre, è chiamata a vivere il suo tempo e ad agire nella realtà, toccare temi civili, entrare in dialogo con i cittadini, prefigurare scenari di trasformazione sociale: come arte del progetto, aiutarci a rappresentare le complessità del nostro tempo e a progettare un mondo migliore.
Ma la realtà oggi si dimostra  più potente dell’immaginazione. In mostra le opere si mescolano ai documenti, ai reperti di naufragio, quasi gridati per attivare un senso di responsabilità collettiva. Lo vediamo nel progetto presentato da Filippo Maggia,  Lying in between, un lavoro di documentazione sulle isole greche, realizzato con la Fondazione per la Fotografia di Modena di cui è stato Direttore, in collaborazione con l’Ambasciata greca in Italia, in collaborazione con UNHCR. Un documento che è diventato opera, preceduto dal lavoro di sette fotografi italiani che hanno vissuto in loco la quotidianità dell’emergenza e hanno lavorato con e non sui rifugiati per comprendere come filtrare lo stato di sospensione, ” in un luogo pieno di umani in cui non c’è alcuna umanità”. Un processo di narrazione, tra la realtà e la messa in scena, che rileva, rivela, svela.

Ecco le nostre conversazioni, in preparazione dell’incontro con Lorenza Bravetta, Giovanna Calvenzi e Maria Teresa Cerretelli.
 

Partiamo da Lorenza Bravetta, anima del percorso, con la quale ci siamo recentemente confrontati. Arriva dal mondo del foto-giornalismo, della fotografia come strumento di documentazione sociale, politica ed economica: Magnum, il cui premio, ogni anno, da conto dell’immaginario che si sta costruendo, che diventa  memoria iconica. A cosa serve la fotografia oggi?
La scuola Magnum mi fa guardare alla fotografia per i giornali, per l'informazione, per l'approfondimento informativo e culturale, ma realizzata da “fotografi umanisti”, reporter che sono riusciti e riescono a dare alla documentazione sociale anche un forte imprinting di espressione artistica, pur senza essere fotografi concettuali. Questo è  il challenge. Una fotografia che ha  valore anche per essere esposta a un muro.
 
Qual è il confine tra una fotografia d’informazione e l’arte?
La fotografia che attiva un pensiero non si limita a riprodurre, ma riesce a far entrare sfumature soggettive, personali e quindi anche di espressione artistica profonda.  Nella mostra di Gioni è evidente la scelta: con ci sono fotoreporter, ma  artisti che si sono avvalsi della fotografia come mezzo, strumento di espressione.
Credo che oggi, più che mai, nel momento in cui tutti siamo fotografi e possiamo accedere a ogni tipo di news, siamo storditi dalla sequenza di immagini tragiche,  che l’arte possa rompere la barriera, arrivare. Siamo meno preparati verso il messaggio  creativo e  quindi più aperti a farci toccare profondamente.
 
Stanno nascendo nuovi linguaggi anche nella fotografia?
Il linguaggio fotografico, oggi diventato uno strumento democratico di produzione, ma anche di fruizione e di consumo, sta ri-nascendo. Va considerato, a mio avviso,  come un nuovo strumento.  
In Italia continuiamo a celebrare da un lato i grandi reporter e dall'altro, grazie al lavoro di eccellenti galleristi diamo spazio ai giovani, ma anche coloro che non sono stati valorizzati adeguatamente come Ugo Mulas.
Ignoriamo ciò che sta nel mezzo e il fotogiornalismo. Cos’è  nella contemporaneità? I giornali non hanno più gli strumenti per sostenerlo, per dare spazio davvero e  le istituzioni non se ne occupano.
 
Perché in Italia si ignora il fotogiornalismo? E’ una questione di formazione?
Penso che manchino scuole, ma non per apprendere la tecnica, inquadrare o  mettere a fuoco. Mancano  scuole di formazione politica, per costruire una cultura  critica, ai temi, ai soggetti, all'attualità, il mondo di affrontarla, un processo di pensiero, di analisi sociale. Quindi si applicano degli stili e si applica un'iconografia.  Il fotogiornalismo non può prescindere dall’analisi sociale.
Si sta dissolvendo la figura del fotografo di news in senso stretto. Oggi la maggior parte delle fotografie che documentano gli attacchi, la bomba che esplode, sono state realizzate da passanti. Ciò che fa la differenza nel messaggio è la capacità di andare nel luogo dove è avvenuto l’evento avvenuto e documentare le trasformazioni che quell'evento produce. Quindi è un mestiere da giornalista,  da analista. Occorre riempire di contenuti, stante le nuove infinite possibilità di fraintendimento, ritrovare l’incisività che può essere data solo da un'analisi critica. Non ci possiamo limitare alla mera riproduzione, perché stiamo svuotando di contenuti e di processi analitici.
 

Riflettiamo con Giovanna Calvenzi -presidente di MuFoCo, come professionista un riferimento per i photo-editor del paese, sul dualismo tra documento ed espressione artistica, fotografia sociale e arte.
Ritengo da sempre che questo dualismo sia esterno, non riguardi la creazione. Nasce nell’utilizzo finale e non nella progettualità. Nasce negli usi, nasce nella distribuzione. Esiste, è vero ed è necessario che ci sia, ma la storia e il mercato hanno trasformato immagini nate come documenti in arte e per contro esistono espressioni artistiche che possono diventare documento.
Dalla testimonianza di un fatto, di un luogo, di un evento, può nascere un documento che ha in  sé la forza per diventare altro. Pensiamo al lavoro e alla lezione progettuale di Walker Evans e di coloro dei quali è stato maestro, che hanno imposto al proprio linguaggio un lessico linguistico che va nella direzione del “documento”, in termini di progettualità, ma non nei risultati. Si tratta dell’utilizzo di quello che viene definito “linguaggio documentario”, che invita a porsi di fronte alla realtà in modo tendenzialmente “oggettivo”, ovvero un linguaggio che trascrive la realtà senza equilibrismi estetici, distorsioni,  interpretazioni, trasformazioni. Ma sappiamo che l'oggettività è una parola estranea alla fotografia, al di là delle intenzioni. Walker Evans è stato un documentatore o un artista? Dipende dal profilo di osservazione. Grazie all’incarico della Farm Security Administration lavorava per il Governo e documentava, ad esempio, la tragedia della siccità nel centro degli Stati Uniti. Ma con il suo lavoro oggi è esposto nei musei e ha ispirato molte generazioni di autori. Questo fa di lui un artista? Qual è la differenza rispetto a Pollock? Solo l’intento originario nel realizzare il lavoro.
 
Oggi siamo storditi dall’iper produzione, ma la quantità da molti demonizzata può essere anche ricchezza?
L’affollamento visivo è una sorta di ubriacatura inevitabile data dallo sviluppo delle tecnologie. Prima o poi finirà l’eccitazione, si placherà, diventerà altro, più consapevole. Un esempio. Alcuni giorni fa ero al Museo del Prado, a Madrid, dove è vietato fotografare. Il giorno precedente avevo visitato la Fondazione Von Thyssen, dove invece è consentito. Al Prado si è in quiete mentale, si osservano i dipinti, si leggono le didascalie con una sensazione privata di partecipazione. Alla Von Thyssen c’è una folla che invece documenta non le opere ma la propria presenza accanto alle opere. La possibilità di fotografare induce una fruizione dell’arte completamente diversa. La pratica di quella che è stata definita “fotografia conversazionale”, che si colloca prevalentemente nel privato e nei social, troverà una sua naturale definizione. E tuttavia continuo a pensare che ogni persona che solleva il cellulare per realizzare un’immagine, nell’istante prima quanto meno ha guardato e visto, ha iniziato a esercitare lo sguardo. Inizialmente in modo inconsapevole ma poi chissà.
 
Nella iper-produzione, nella ricerca della sensazionalità, dov’è oggi la verità?
Sono sempre le finalità che contano. Nel giornalismo, ad esempio, la sensazionalità è da sempre parte integrante della comunicazione, il che non vuol dire menzogna o sensazionalità gratuita bensì un’immagine capace di attrarre l'attenzione, di coinvolgere il lettore, di far passare un'informazione importante e magari anche di suscitare stupore. Fare sensazione, si diceva, vuol dire vendere più copie.
 
Quanti sono e quali sono oggi, in Italia, i giornali che fanno seriamente una politica di utilizzo consapevole della fotografia?
Utilizzo consapevole significa crederci, investire, pagare i fotografi, consentire loro di viaggiare. Da sempre sono photo-editor, ma posso affermare che oggi questa consapevolezza non appartiene agli editori. Nessun giornale italiano è disposto a pagare per far realizzare un servizio fotografico commissionato, lontano, importante. Per il quale il fotografo deve partire, viaggiare, abitare in un albergo e quindi fotografare. Si preferisce acquistare servizi già realizzati, distribuiti dalle agenzie internazionali, scelta che cambia la struttura del giornale, che omologa, che spesso trasforma la fotografia da informazione in illustrazione.  È un cambio di paradigma nell’editoria che non è generato solo dal digitale. Gli editori oggi pensano a “prodotti”, non a giornali, sono attenti alle esigenze della pubblicità e del marketing e molto meno alle esigenze e alle attese dei lettori.
In questo scenario di “risparmio” reale e culturale il fotogiornalismo è gravemente penalizzato.
 
Il ruolo del photo editor non compare più nei colophon delle testate.
Esatto. Un problema economico è diventato un problema culturale. Un photo editor che, in sintonia con il direttore e l'art director, possa decidere  la “filosofia” visiva del giornale deve avere nell’organigramma aziendale una posizione equivalente a quella di un capo-redattore, condizione imprescindibile per poter fare un buon lavoro.  Un ricercatore iconografico, con un contratto poligrafico, o a partita IVA, o con contratto a termine, non avrà la stessa voce in capitolo nell’ambito redazionale e costerà all’azienda molto meno. Questa una delle ragioni per le quali non si assumono da anni photo editor giornalisti ma si preferisce la più economica soluzione – anche a parità di competenze – di un ricercatore iconografico. 
Il rischio dell'ubriacatura da sovrapproduzione di immagini, della quale parlavamo prima, si è riflessa certamente anche nell’ambito dei giornali. La democratizzazione della creazione ha indotto la falsa convinzione non solo che tutti sappiano fotografare ma anche che tutti sappiano leggere, capire, giudicare, scegliere le immagini. Niente di meno vero.
 
La crisi della carta stampata e la riconversione sull'online ha lasciato a terra molte strategie lucide in nome di una riduzione di costi. Ritornando ai fotografi sociali che lei mi indicava, alcuni artisti affermano che il reporter arriva dove l'evento è già accaduto o è in corso. L'artista si muove nel “non” ancora. Lei concorda con questa visione?
Credo che sia assolutamente vero. Sono due ambiti e due ruoli molto diversi.

 

Mariateresa Cerretelli, Presidente del GRIN-Gruppo Redattori Iconografico Nazionale, promotore del Premio Ponchielli, giunto alla quattordicesima edizione.
 
Con il Premio Ponchielli, con il quale siamo stati precursori,  vediamo emergere ottimi giovani italiani nel fotogiornalismo che firmano  progetti internazionali che esulano dai terreni più battuti. Uno per tutti  Alessandro Grassani, che ha esplorato il tema dei migranti climatici,  gli esodi di popolazioni a causa delle inondazioni, della siccità: in  Mongolia, nel Bangladesh, nel Kenya.
La caratterizzazione del Ponchielli è avere come presidente della giuria finale il direttore di un quotidiano o un settimanale perché la sfida italiana del ripensamento dei giornali nell’era internet non si vincerà se non riusciremo a capire che il giornalista non può scrivere di un conflitto a tavolino con la sequenza di immagini mandate dal fotografo che è stato nello Yemen, piuttosto che in Siria, ma occorre  un lavoro  condotto sul campo in coppia, tra il fotografo e il giornalista, esattamente sullo stesso piano, scambiando e trasmettendo emozioni che toccano l'animo delle persone su temi che potrebbero riguardarle direttamente. A questo punto aumentano i lettori che partecipano. Questa sfida riguarda le testate cartacee come quelle online.
Ma in questo momento in cui c'è anche un grande affollamento anche degli artisti, sui temi politici, qual è il confine tra documentazione e arte?
E’ difficile determinarlo. Un lavoro come quello di Iñárritu sulle migrazioni presentato alla Fondazione Prada consente al pubblico di identificarsi in una narrazione. E’ il colpo al cuore  dei progetti artistici.
Nel lavoro giornalistico c'è oggi una grande cura per evitare i cosiddetti fake, perché oggi più che mai, con la celerità nella diffusione di notizie si può cadere nella trappola se non si ha il tempo di  controllare le notizie.
L'artista può avere una libertà di espressione maggiore,  perché può ampliare ed avere la vastità della sua visione personale, impeccabile o meno, ma può essere un suo modo di interpretare il mondo.
Con un lavoro di preparazione, un approccio, completamente diverso, il fotogiornalista deve essere assolutamente fedele alla  realtà.

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