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L'ombelico del fotografo

  • Pubblicato il: 15/10/2017 - 20:00
Rubrica: 
LA PAROLA AGLI ARTISTI
Articolo a cura di: 
Alessandra Chemollo

A seguito dell’incontro sulla fotografia tra arte e documento che abbiamo moderato alla Triennale di Milano nell’ambito del percorso avviato per il MiBACT da Lorenza Bravetta, riceviamo e pubblichiamo la riflessione dell’artista Alessandra Chemollo
 
 
Ognuno di noi in questa vita è un po' come se camminasse seguendo dei percorsi. Ogni tanto ci capita di incontrare qualcosa che attrae la nostra attenzione, ci fermiamo a osservare, alziamo lo sguardo o lo indirizziamo a quella cosa - a volte piccolissima - in cui ci siamo imbattuti.
Mano a mano che procediamo, le cose che attraggono la nostra attenzione, molto spesso fanno risuonare delle memorie assopite: dei frammenti di una scena che abbiamo già visto emergono dalla scatola nera, attori improvvisati sulla scena della nostra mente.
Dopo circa trent'anni passati a cercare d fermare dei frammenti di pensiero fotografandoli, mi domando che modifiche questa pratica iterata abbia apportato al mio corpo, e in che modo i processi del mio pensiero conservino nella loro forma attuale la memoria degli incontri con quanto, grazie ad una macchina fotografica, sono riuscita a vedere.
 
Ma di cosa è fatto il mestiere di un fotografo?
A volte sembra di essere dentro alla favola de I vestiti nuovi dell'Imperatore.
E' una competenza così difficile da riconoscere che in Italia non c'è al momento nessun percorso universitario riconosciuto, nessuno che sappia dirti con indiscussa autorevolezza quali sono le conoscenze che un fotografo deve sviluppare: migliaia di corsi, festival e workshop - il tema NUDO in assoluto vantaggio - molti appassionati, tutti competenti.
 
E a cosa serve questa competenza, e a chi?
Un articolo su Le Monde Diplomatique di qualche anno fa teorizzava che l'avvento della fotografia digitale avesse liberato la fotografia dalle stesse incombenze da cui la fotografia alla sua nascita ha liberato la pittura.
Lo tsunami del 2004 e gli orrori del carcere di Abu Ghraib - ancor prima dei fatti più recenti della primavera araba - sono stati visti nel mondo esclusivamente grazie a fotografie realizzate con telefonini da testimoni occasionali. Per colmare la lacuna delle immagini necessarie, buona parte delle spettacolari immagini dello tsunami pubblicate dalle riviste sono state realizzate artificialmente, privilegiando - pare - l'utilizzo di pezzi delle cascate del Niagara.
 
Per non perdere il filo del discorso proviamo a tornare al tema della competenza, a partire da elementi concreti: da molti anni fotografo architetture, ne ho fatto il mio mestiere. Cosa significa?
Il fotografo seleziona un momento preciso in cui far rientrare una porzione di spazio all'interno dell'inquadratura.
L'architetto concepisce un progetto che è la rappresentazione complessa, in termini spaziali, di un'idea, di cui il fotografo è interprete.
Per rappresentare un'architettura si deve fare un passo indietro e lavorare sull'idea del progetto: non cercare di rappresentare la forma architettonica dell'idea, ma l'idea stessa.
L'oggetto della rappresentazione è l'idea, incontrata grazie all'esperienza nella luce, che il fotografo segue come una danza.
 
Proviamo a dirla in altri termini: fotografare un'architettura sottintende un "essere al servizio": presupposto che - come ci ha insegnato Keith Jarret interpretando Bach - non significa appiattirsi sulle idee di un altro, quanto piuttosto doversi munire di tutti gli strumenti utili a rappresentare - stratificandoli - contenuti complessi, la cui conoscenza va approfondita.
Servono libri, tempo e guide autorevoli, per preparare il terreno atto ad accogliere l'immagine capace di tenere insieme quanto l'architetto ha pensato, la materia in cui l'idea si è trasformata e la luce che in quel momento - e solo in quel momento - ce le rivela.
Cartier Bresson diceva che bisogna pensare prima e dopo, mai durante una fotografia.
Occorre sedimentare conoscenze e lasciarle maturare il giusto tempo per riuscire a esprimersi annullandosi nella cosa che si guarda.
 
Se procediamo mettendo insieme i pezzi del ragionamento rispettando le regole della logica, tra le conseguenze che dobbiamo trarne è che ci sono ambiti in cui non è vero che tutte le interpretazioni sono buone.
Che se non nutro di conoscenze la mia capacità di guardare, alcune cose non sarò in grado di vederle.
Che se non lascio che quanto acquisisco teoricamente interagisca chimicamente con quanto avviene, quasi per caso, solo in quel momento, rischio di perdere l'occasione di esserci al momento giusto.
Che tra i rischi che un fotografo corre c'è quello di riempire con materiali incongrui le lacune di conoscenza, con la conseguenza di riempire di sè ogni cosa, anziché sviluppare la capacità di guardarla.
 
E il paesaggio?
Potremmo dire che se un'opera architettonica è l'espressione dell'idea di un architetto, il paesaggio è l'immagine della collettività che lo abita.
E quali sono allora gli strumenti di cui dovrebbe avvalersi un fotografo che voglia rappresentare un paesaggio, senza incappare nel rischio di rappresentare il suo ombelico piuttosto che il paesaggio che ha di fronte?
Sono tutte valide, le interpretazioni, in questo caso?
E' sufficiente guardare le figure di un territorio, o è necessario provare a costruire dei racconti in cui l'attenzione possa spostarsi dall'uomo che le crea alle forme a cui dà vita?
E ancora: a chi è utile, la fotografia di paesaggio?
 
Se vogliamo considerare questo momento storico alla luce dell'ipotesi per cui l'avvento della fotografia digitale - che rende superfluo il fatto stesso di avere una macchina fotografica - "libera" la fotografia dai suoi ruoli pregressi, forse possiamo smettere di guardare ad un passato recente con sguardo nostalgico.
E invece di continuare a rimpiangere il tempo non lontano in cui riviste e libri attivavano una richiesta di qualità che alimentava la professionalità fotografica, possiamo provare a interrogarci su quale potrebbe essere un nuovo contenitore per un nuovo modo di intendere la fotografia.
 
Da dove è possibile cominciare, per tracciare un sentiero che conduca in una direzione capace di ridare senso e qualità al fare fotografico? Forse ponendo per esteso le domande, e chiedendo ad altri di aiutarci a stilare la lista delle questioni da porre, e, a chi può, di azzardare alcune risposte.
Da un lato c'è un paesaggio che si trasforma perlopiù assecondando logiche speculative, con scarsa attenzione a condividere e discutere scelte che sembrano fatte da pochi a vantaggio di pochi, nel silenzio di quasi tutti.
Una sorta di Alzheimer collettivo rende meno dolorosa la perdita di identità dei luoghi, in cui piccoli vantaggi individuali sono strumento di scambio per importanti perdite di valore collettivo.
Dall'altro c'è una fotografia che diviene ogni anno più "artistica", il cui mercato è oggetto di crescenti attenzioni da parte di investitori a caccia di solide possibilità di investimento, ma il cui acefalo livello culturale rimane quantomeno discutibile.
E se fossero due anime gemelle che ancora non si sono incontrate?
 
Link:
La fotografia è un ponte, Alessandra Chemollo al TEDxReggioEmilia
 
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