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Un patrimonio italiano. Beni culturali, paesaggio e cittadini

  • Pubblicato il: 17/06/2017 - 10:14
Rubrica: 
CONSIGLI DI LETTURA
Articolo a cura di: 
Maria Elena Santagati

Acuto, critico ma ottimista, forse scomodo, l’ultimo libro di Giuliano Volpe, presidente del Consiglio Superiore «Beni Culturali e Paesaggistici» del MIBACT e professore di archeologia all’Università di Foggia. Riflessioni oneste sul caso del patrimonio culturale nel bel Paese, accompagnate da un tour d’Italia in 22 tappe, alla scoperta di un patrimonio vivo e partecipato, da Torino a Napoli, dall’Isola d’Elba alla Sicilia.
 


L’archeologo, quando scava, scopre non cose, ma persone (Mortimer Wheeler, 1954)
 
 
E’ questa la prima frase che si incontra aprendo l’ultimo libro di Giuliano Volpe, presidente del Consiglio Superiore «Beni Culturali e Paesaggistici» del MIBACT e professore di archeologia all’Università di Foggia. Forse perché è esattamente quello che l’autore ha fatto: scavando, ovvero viaggiando, ha scoperto un patrimonio culturale declinato al presente. Che ha deciso di raccontare e condividere, insieme a riflessioni più generali, anche in continuità con quanto avviato in «Patrimonio al futuro», pubblicato nel 2015.
Una voce autorevole del Ministero, eppure qui decisamente fuori dal coro. Un Ministero di cui si parla a più riprese nella prima parte del libro, non solo in riferimento alla necessaria ma perfettibile riforma del ministro Franceschini, ma anche alla sua (dis)organizzazione territoriale, alla necessità di soprintendenze uniche adottando una visione olistica del patrimonio culturale (tema peraltro ripreso in appendice). Un ministero escluso nella seconda parte, dove ci si concentra invece su casi significativi di gestione dal basso del patrimonio diffuso, anziché sui noti grandi siti e monumenti a gestione diretta. Forse anche perché «La società appare più avanti di certi “specialisti” e “addetti ai lavori”» (p.19).
Ed è proprio sulla duplice importanza di Stato e società civile, ovvero della Repubblica, nella gestione del patrimonio culturale che si concentra l’autore, come conferma peraltro la scelta e l’interpretazione dell’immagine di copertina, foto di Mimmo Jodice che ritrae Demetra, dea dell’abbondanza qui paragonata al patrimonio culturale italiano, sorretta dal basso da una mano, la Repubblica.
«Ridurre il problema dei beni culturali alla sola scarsezza di finanziamenti e personale (assolutamente necessario, sia ben chiaro) rischia di proporre una visione semplicista e autoassolutoria, perché non affronta il nodo culturale, politico e strutturale di un radicale processo di innovazione, assolutamente necessario nel nostro Paese» (p.67). Innovazione che, secondo l’autore, non può non passare da un ripensamento della cultura intesa come partecipazione, da cui i numerosi riferimenti alla Convenzione di Faro del 2004, «Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore dell’eredità culturale per la società», le analogie con quanto affermato dall’art. 9 della nostra Costituzione che «promuove lo sviluppo della cultura», e una certa distanza dalla nozione restrittiva di «cose» del patrimonio culturale proposta nel Codice Beni Culturali e Paesaggio del 2004.
Una tutela che allora non può disgiungersi dalla valorizzazione, intesa non come mercificazione ma come vera e propria mise en valeur, per dirla con gli amici d’Oltralpe. E allora forte è l’esigenza di ripensare i (non) luoghi della cultura per antonomasia, ovvero i musei. «L’esercizio ginnico del visitatore che effettua un movimento continuo di allontanamento (per guardare un quadro) e di avvicinamento e piegamento (per leggere le didascalie minuscole, illeggibili e spesso incomprensibili) è assai praticato nei musei, tanto che l’architetto Hans Hollein propose provocatoriamente un’installazione (The Imaginary Museum, 1987) con enormi didascalie al posto del quadro e minuscoli quadri in basso, nel posto normalmente riservato alle didascalie» (p.71).
E ancora, sempre facendo leva su Faro, si sottolinea l’importanza di promuovere non tanto un diritto del ma un diritto al patrimonio culturale, che può rivelarsi autentica «scuola di democrazia». Questi e molti altri gli spunti che Giuliano Volpe affronta in una prima parte densa di osservazioni e di proposte, anche grazie a numerosi rimandi e citazioni, dallo psicanalista Massimo Recalcati al premio Nobel Orhan Pamuk, da don Antonio Loffredo, promotore del «miracolo» in atto nel rione Sanità di Napoli, a vari colleghi e addetti ai lavori. Una carrellata di questioni, da cui si potrebbero aprire mondi, che toccano gli aspetti più eterogenei, dall’autonomia e responsabilità degli istituti museali, all’incompatibilità di una ristorazione in stile tardo autogrill con il sito archeologico di Pompei, fino alla convivenza tra mondo del volontariato e delle professioni.
Nella seconda parte l’autore ci accompagna invece in un tour d’Italia in 22 tappe, o meglio storie di vita di un immenso patrimonio che, da Nord a Sud passando per il Centro, vive grazie a «Energie che attendono solo di essere sostenute. Un entusiasmo che spera di non essere spento. Capacità che vorrebbero mettersi alla prova» (p.181). Soluzioni eterogenee di gestione del patrimonio diffuso, in contesti tra loro diversi e incomparabili e con combinazioni di risorse umane e finanziarie assai variegate, ma accomunate dalla loro funzione di vero e proprio servizio pubblico, frutto in gran parte dei casi di una non sempre semplice e immediata sinergia territoriale, attenta agli impatti sulla comunità locale e con una tensione ad una faticosa sostenibilità economica. Il tutto in un contesto spesso ostile a qualsivoglia moto di innovazione sociale. Gli esempi riguardano in gran parte il patrimonio archeologico, come a dimostrare la possibilità di un’archeologia che vive anche in aperitivi e in archeodromi, passando però anche per isolotti, giardini, chiese, edifici storici.
I 22 protagonisti della gestione assumono sembianze diverse: fondazioni, associazioni, imprese, cooperative, a cui si aggiunge qualche ente pubblico locale particolarmente illuminato: Fondazione Museo Egizio di Torino; Fondazione Aquileia; Fondazione Parco Archeologico di Classe - RavennAntica; Fondazione Villa Romana delle Grotte; Massaciuccoli Romana; Archeodromo di Poggibonsi; Sistema museale gestito dal Comune di Volterra; Sistema dei Parchi della Val di Cornia; Aperitivi archeologici - Roma; Parco archeologico naturalistico dei porti imperiali di Claudio e Traiano - Fondazione Benetton, Aeroporti di Roma, Soprintendenza; Fondazione San Gennaro -  La Paranza, rione Sanità di Napoli; Centro Studi interdisciplinare Gaiola Onlus - Posillipo; Mucirama di Piedimonte Matese; tre casi di gestione targata FAI: Parco Villa Gregoriana - Tivoli, Il Giardino della Kolymbethra - Agrigento, Castello della Manta - Cuneo; Anfiteatro di Santa Maria Capua Vetere; Fondazione Apulia Felix - Foggia; Fondazione Archeologica Canosina Onlus - Canosa; Castello di Squillace - I giardini di Hera srl; Officine Culturali - Catania; Al Kenisa - Enna. Soluzioni significative in termini di modalità di fruizione, genesi dell’esperienza, strumenti di raccolta fondi, modello di governance e di business, impatti sul territorio, da cui emerge però una costante: il ruolo, l’umanità e il coraggio di innovatori impegnati nel declinare al presente e al futuro le potenzialità di questo nostro patrimonio.
Trapela da questa raccolta di riflessioni e di casi l’urgenza di accendere un faro (ogni riferimento è puramente voluto[1]) sulla gestione del patrimonio culturale… «dobbiamo uscire dalla palude immobile nella quale si è a lungo impantanato il mondo dei beni culturali nel nostro Paese, da tempo bloccato in una malintesa, cieca fedeltà alla tradizione, di cui si adorano le ceneri anziché ravvivarne il fuoco» (p.184).

 
Giuliano Volpe, “Un patrimonio italiano. Beni culturali, paesaggio e cittadini”, 2016, UTET, € 14,00

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[1] Ad oggi, l’Italia ha sottoscritto (27 febbraio 2013) ma non ancora ratificato la Convenzione di Faro.

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Ph. Demetra, Mimmo Jodice