Responsabilità pro bono
Guardando a musei gestiti strategicamente e con competenze gestionali, il c.d. «Decreto Musei» prevede chiare responsabilità ed organi di governo. Ai componenti il Cda, assimilabili a quelli di una impresa, spettano oneri, onori, ma nessun compenso in nome di un impegno civile. Il prof. Francesco Florian, dell'Università Cattolica di Milano, ci invita a riflettere su questa scelta
Milano. Il c.d. «Decreto Musei» (Decreto 23 dicembre 2014 Organizzazione e funzionamento dei musei G.U. Serie Generale n.57 del 10-3-2015), nell’affrontare per l’ennesima volta un tema tribolato, non si può dire che nel complesso non approcci l’intera materia con piglio più deciso. In particolare, l’approccio dinamico è sicuramente un principio che potrà essere in futuro adeguatamente ed ulteriormente sviluppato.
In altri termini, la via sembra definita e mira a conferire alle nostre istituzioni museali un «taglio più imprenditoriale», in una logica che, con tutti gli attuali limiti, sembra essere quella di un museo che tenga conto della qualità, ma che debba essere anche consapevole della destinazione alla pubblica fruizione della propria produzione culturale come valore economico e d’impresa. La cultura è anche una risorsa economica, occupazionale, capace di costituire un serio ed alto, nonché concreto, volano d’imprenditoria, sia culturale che non.
Tutto questo comporta, tra le altre questioni, un ruolo del Direttore-Presidente e soprattutto del Consiglio d’Amministrazione che non sia statico, quanto, al contrario, dinamico, gestionale, strategico, che sappia individuare e concepire piani di attività nel medio/lungo periodo, che faccia applicazione (e monitori) di efficienza, efficacia, economicità e che, in buona sostanza, «decida, sviluppi ed innovi» (tutti principi, questi, rintracciabili nello stesso decreto) all’insegna della qualità.
Pare proprio che, nelle intenzioni e nella lettera del provvedimento, il ruolo sinteticamente descritto dell’organo amministrativo sia prima di tutto assunzione di responsabilità e passi proprio attraverso di essa.
Sembra, in sostanza, che non vi debba essere in nuce differenza fra questo riformato e voluto Consiglio d’Amministrazione e quello del cda di una società editrice, piuttosto che di logistica, piuttosto che di web o altro. Almeno ciò è quello che bisogna sottolineare dello spirito e ratio del decreto. Il tutto, evidentemente, nel rispetto di tutela e conservazione (ma ormai pare veramente vetusto doverlo ribadire). Solo così la cultura diventa alta, specifica e caratterizzante risorsa del nostro Paese, anche a livello internazionale.
Nel diritto romano (li ritroviamo poi nel Digesto) erano stati elaborati tre princìpi «Honeste vivere», «alterum non ledere» e «suum cuique tribuere». Quest’ultimo brocardo (giureconsulto Ulpiano o addirittura anteriore), quindi, non valeva meno degli altri due per un corretto rapporto con la realtà e l’economia dei rapporti giuridici a beneficio dei soggetti terzi.
Ora, se sono componente di un Consiglio d’Amministrazione che è dotato di autonomia speciale, partecipo alla determinazione e programmazione delle linee di ricerca e gli indirizzi tecnici dell' attività del museo, in coerenza con le direttive e gli altri atti di indirizzo del Ministero; se, in particolare, questo Consiglio adotta lo statuto del museo e le relative modifiche, acquisito l'assenso del Comitato scientifico e del Collegio dei revisori dei conti, approva la carta dei servizi e il programma di attività annuale e pluriennale del museo, verificandone la compatibilità finanziaria e l'attuazione, approva il bilancio di previsione, le relative variazioni, il conto consuntivo, approva gli strumenti di verifica dei servizi affidati in concessione rispetto ai progetti di valorizzazione predisposti dal direttore del museo, monitorandone la relativa applicazione e si esprime su ogni altra questione gli venga sottoposta dal direttore del museo; orbene, se è vero tutto questo - e lo è ai sensi dell’art. 11 del decreto - non si capisce il comma terzo dello stesso articolo.
Ai sensi del citato comma, infatti, la partecipazione al Consiglio di amministrazione non dà titolo a compenso, gettoni, indennità o rimborsi di alcun tipo. Si comprende bene, invece, come detta carica non sia cumulabile con la partecipazione ad altri organi collegiali del medesimo museo, come pure che i consiglieri non possano essere titolari di rapporti di collaborazione professionale con il museo, né possano assumere incarichi professionali in progetti o iniziative il cui finanziamento, anche parziale, sia a carico del museo. Tale previsione, infatti, è assolutamente coerente con il ruolo di gestione, monitoraggio ed indipendenza del Consiglio d’Amministrazione.
Che sia proprio il mondo della cultura a non far proprio il principio consistente nel «suum cuique tribuere» a fronte di una assunzione di responsabilità da parte del nominato consigliere, peraltro precisa e disciplinata dal decreto, pare quantomeno una contraddizione. Anche perché è nella Cultura che detto principio è nato ed è dalla Cultura che si è mosso ed è diventato patrimonio di altri settori o discipline.
A meno che non si preveda che a ricoprire il ruolo di amministratori, designati dal Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo, di cui uno d'intesa con il Ministro dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca e uno d'intesa con il Ministro dell'Economia e delle Finanze, scelti tra esperti di chiara fama nel settore del patrimonio culturale, non siano dipendenti pubblici. Ma questo ci porterebbe altrove, in territori più aspri.
In altri termini, non si capisce il principio secondo il quale i consiglieri di amministrazione non possano percepire un emolumento, per legge calmierato, a fronte di attività, lavoro e assunzione di responsabilità. E come ciò possa essere valido anche per soggetti provenienti dal «privato», apertura sempre più auspicata in una serie di provvedimenti e dichiarazioni. A meno di non presupporre che, laddove un privato fosse chiamato a far parte del Consiglio, non debba percepire emolumenti perché «fa altro». E qui i territori non sarebbero aspri, ma sterrati.
I musei sono Aziende Culturali (con la A e la C maiuscole), la Cultura ed il patrimonio culturale italiano sono una risorsa vera (tanti anni fa si parlava di giacimenti culturali, quasi ad assimilarli, per l’Italia, a quelli petroliferi); nel nostro Paese si può/deve parlare di impresa culturale ma, a parte il Direttore, i soggetti chiamati alle funzioni sopra descritte in qualità di membri del Consiglio devono assolvere a questo loro ruolo pro bono (per non dire in perdita).
Prevedere il contrario, in un sano e corretto quadro di esclusione di sperperi o risorse (ben possibile), non avrebbe comportato un assalto alla diligenza della Cultura. Oltretutto i meccanismi di determinazione dell’emolumento (sempre rinunciabile…), credo compatibili anche con la contabilità pubblica, potevano essere modulari, proporzionali ed anche innovativi: e qui le scienze economico/aziendali potevano soccorrere anche in ottica innovativa, come pure l’esperienza del c.d. terzo settore, in cui si è progressivamente abbandonato il «pro bono» in favore di una giusta mercede professionalizzante le attività dell’ente.
Sarebbe stato proprio un bel segnale di prospettiva per tanti giovani che lavorano, credono, studiano e faticano per il «Patrimonio Culturale della Nazione», forti del loro orgoglio.
Chissà se lo vedremo in una prossima fonte del diritto, anche secondaria…
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Prof. Francesco Florian
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