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QUELLI CHE TRASCURANO DI RILEGGERE SI CONDANNANO A LEGGERE SEMPRE LA STESSA STORIA

  • Pubblicato il: 15/01/2016 - 13:31
Autore/i: 
Rubrica: 
PAESAGGI
Articolo a cura di: 
Stefania Crobe
Photo by Alessandro Gatto_Teatro Continuo

A partire dal Teatro Continuo di Alberto Burri, l’opera recentemente restituita alla città di Milano, qualche interrogativo su arte, spazio pubblico e tempo che passa
 
 
 
La recente restituzione alla città di Milano, dopo venticinque anni, del Teatro Continuo di Alberto Burri (Città di Castello 1915 - Nizza 1995) in occasione del centenario dalla nascita dell’artista, è l’occasione per farci qualche domanda intorno al tema dell’arte nello spazio pubblico, partendo proprio da quest’opera che, in maniera paradigmatica, accoglie in sé – secondo chi scrive - alcune delle questioni che, in maniera ricorrente, hanno caratterizzato – e sono quanto mai attuali - l’inserimento, la collocazione, la realizzazione di opere d’arte fuori dai luoghi deputati.
 
Un dibattito cui ha recentemente contribuito anche la Fondazione Portaluppi di Milano con il ciclo di incontri dal titolo «Arte pubblica e arte della memoria: quando architettura e arte s’incontrano» che ha visto architetti, filosofi, storici dell’arte, artisti e giornalisti discutere sui significati della Public Art e il valore della memoria. Tra questi Gabi Scardi, curatrice del libro «Il Teatro Continuo di Alberto Burri» edito da Corraini che ha seguito e curato tutte le fasi di gestazione dell’operazione che ha riportato al Parco Sempione di Milano un’opera d’arte pubblica a suo tempo incompresa, rifiutata da alcuni, osannata, dimenticata e poi ri-evocata, con analoghe criticità.
 
D’altronde quella che viene solitamente chiamata arte pubblica – nella sua evoluzione non necessariamente diacronica, da oggettuale a processuale, a progettuale – accoglie in sé molteplici declinazioni che vanno da un’accezione di puro «abbellimento», dove l’opera d’arte, sottratta alle stanze dei musei, va ad occupare lo spazio pubblico senza entrare realmente in dialogo con l’ambiente benché fruita, ad un’arte – grazie all’operato di alcuni artisti vicini a quell’«estetica relazionale» fortunatamente definita da Nicolas Bourriaud - centrata sul concetto di site specific, in stretto rapporto con la specificità del luogo, fino all’accezione di «pratica artistica», una forma di azione nel quotidiano, un progetto artistico interprete non solo del luogo nella sua realtà materiale, ma capace di dialogare con la città, interagire con le comunità – costituite e costituenti - e i contesti, di intercettare processi di trasformazione, assumendo un ruolo attivo nelle dinamiche sociali del luogo in cui «accade» e espressione di una volontà di cambiamento.
 
Un’evoluzione che a un primo e superficiale sguardo parrebbe andare di pari passo con la dimensione della «partecipazione», la progressiva apertura verso l’altro dell’opera d’arte nella sfera pubblica che mette in luce, ad esempio, la differenza che intercorre tra arte interattiva, partecipata e partecipativa generando di conseguenza spettatori o partecipanti o decisori.
Ma, va da sé, non sempre – anzi quasi mai – tra l’opera d’arte e la sua percezione vi è un rapporto di continuità e, quelle nuove forme di relazionalità e democratizzazione – reale, presunta, auspicata o evocata – ricercate dall’arte – da un certo tipo di arte, calata nella società – se non nuove modalità di conoscenza e produzione e democratizzazione dello spazio pubblico, restano pur sempre validi interrogativi capaci di suggerire e favorire la loro immaginazione.
 
Così il Teatro Continuo di Alberto Burri.
Realizzato in occasione della XV edizione internazionale delle arti decorative e industriali moderne e dell’architettura moderna, La Triennale, tenutasi nel 1973 dopo il lungo arresto successivo al 1968 e agli anni inquieti che seguirono, fu l’espressione di una grande vivacità culturale che, rispondendo ad una istanza di partecipazione e trasformazione, attraversò – tra la fine degli anni ’60 e ’70 – grandi città come Milano così come molti centri minori.
L’arte abitava la città e gli artisti la occupavano attraverso azioni, happening, animazioni ludiche e di protesta.
Erano gli anni – per citare alcune esperienze significative – di Arte Povera +Azioni Povere ad Amalfi (1968), di Campo Urbano a Como(1969), di Volterra 73 (1973) e di un’arte che oscillava tra l’istituzionale e l’indipendente, tra il politico – e molto spesso era politicizzata – e il sociale, pur nella difesa dell’estetico.
Una profezia di una società estetica che non si avverò, barcollante tra ideologie e utopie, ma che rallentata dall’esaurirsi di quello slancio e dall’alba degli anni ’80, mutò fisionomia per riaffermarsi oggi sotto altre forme, talvolta sotto mentite spoglie.
 
In questo clima di fermento, il Teatro di Burri, nell’ambito del progetto della Triennale «Contatto Arte-Città», nacque nel Parco Sempione al centro dell’asse che collegava idealmente l’Arco della Pace al Castello Sforzesco, relazionandosi al contesto, per essere luogo di espressione individuale e collettiva, un palcoscenico aperto a tutti, un dispositivo d’uso.
Quasi classica, l’integrità e la semplicità della struttura – un basamento in cemento sollevato leggermente da terra, quasi sospeso, e sei pannelli verticali in metallo e rotanti a fare da quinte – manifestano l’attenzione dell’artista verso l’intorno e il suo senso di responsabilità nell’entrare nel parco cittadino.
Semplice ma «continuo» e in continuo divenire perché pronto a mutare se stesso ad ogni nuova interazione, a ogni accadimento cui andava a fare da sfondo.
Un palcoscenico per affermare, consapevolmente o meno, la soggettività nella collettività, riappropriandosi, e al contempo producendolo, spazio fisico e sociale, in nome di quel «diritto alla città» teorizzato in quegli anni da Le Febvre (1968).
 
Uno spazio aperto all’uso e teatro, appunto, di «appropriazioni» casuali da parte dei passanti, segno della volontà di espressione della società dinamica e bramosa di cambiamento del tempo e per questo riuscito esempio di quell’arte partecipata e partecipativa oggi spesso tanto evocata e abusata da privarsi talvolta del suo contenuto e senso estetico in favore di quella partecipazione che però, non sempre, corrisponde a un reale e consapevole engagement da parte del pubblico.
Come afferma Gabi Scardi nel catalogo «Il Teatro di Burri diventa così vero e proprio spazio rappresentativo del rapporto dell’individuo con la città e assume un ruolo sociale e politico».
Divenne scena del tempo e al contempo, nella sua volontà di permanenza, con le azioni ospitate, organizzate o spontanee, invito alla partecipazione e alla condivisione di significati e produzioni creative, proiezione verso una società futura.
 
Ma gli anni ’80 furono per il Teatro di Burri il tempo di progressivo abbandono e dimenticanza fino a renderlo così degradato da esserne ordinata la demolizione nel 1989 fino al 2015 quando, a cento anni dalla nascita dell’artista, un progetto di collaborazione tra Comune di Milano, La Triennale di Milano, Fondazione Palazzo Albizzini Collezione Burri, Studio Legale NCTM ne decide il ripristino, su disegno originale, nell’esatta collocazione in cui fu pensato, confermando quel dialogo con la città che «non si era mai interrotto» restando il ricordo dell’opera «impresso nella mente dei cittadini».
 
Una ricostruzione, proprio nello stesso anno in cui a Alberto Burri vengono dedicate mostre in tutto il mondo per celebrarne la figura e il suo fondamentale apporto alla storia dell’arte contemporanea, non scevra però da aspre polemica e opposizioni.
Contro la riedificazione si sono scagliati i cittadini del Sempione che denunciano la distruzione di una delle più belle vedute italiane, così come Italia Nostra. Mentre in sostegno al progetto si era pronunciato il FAI. Uno scontro culturale tra due modi di intendere lo spazio pubblico e che ha visto infine il ripristino dell’opera, unico omaggio all’artista nel capoluogo lombardo nell’anno del suo centenario.
«Con il suo preciso riferimento – scrive ancora Gabi Scardi - al contesto storico e ambientale, con la capacità di accogliere il mondo che cambia ed evolve e di manifestare una disposizione alla socialità, al dialogo e al rapporto, questa grande scultura immersa nel verde continua a rappresentare una risorsa per la città e un elemento importante del suo patrimonio artistico».

Ora, se il senso e l’esperienza dell’opera d’arte sopravvivono alla sua risoluzione aprendo un campo di possibilità illimitato capace di attivare potenzialmente processi di coesione, integrazione e innovazione facendosi promotrice di nuove forme di socialità, agendo per la conoscenza, riappropriazione, re-invenzione, trasformazione dello spazio, questa esperienza è pretesto per alcune considerazioni di carattere generale a partire dal caso particolare.
 
Non si può negare che l’arte pubblica venga spesso «utilizzata strumentalmente» anche come dispositivo di propaganda, di marketing o animazione territoriale e che il funesto destino di molte opere, nel passato come oggi, è strettamente legato al «breve termine» delle amministrazioni che le hanno volute e realizzate.
Per questi motivi, e per molti altri, accade così che molti lavori, anche di grandi artisti (spesso sono loro stessi a donare le loro opere perché, si sa, la tentazione di esserci in città è forte) e in particolar modo quelle sculture a cielo aperto tanto amate dai sindaci e così estranee a molti cittadini, finiscono per essere reliquie dimenticate, perdendo spesso e tutto d’un colpo l’estetico, il politico e il sociale che le aveva generate.
Un esempio, parlando ancora di Burri, è il Cretto di Gibellina, uno dei memoriali più potenti mai pensati e per anni vissuto nel degrado e nell’abbandono. Ma l’elenco potrebbe essere lungo, nonostante alcuni programmi istituzionali abbiano tentato di dare risposta al problema[1].
Allora, a chi il compito di conservare l’arte nello spazio pubblico? Nelle sue molteplici declinazioni, s’intende, ma in particolar modo nella sua dimensione oggettuale.
Se la produzione è fondamentale, e tralasciamo per ora la questione, quali risorse da destinare alla conservazione?

Una domanda tanto più urgente alla luce della recente «istituzionalizzazione» della street art e la proliferazione di murales commissionati da molte pubbliche amministrazioni in luoghi degradati della città al fine di risanare e rigenerare le periferie (giusto per mettere tanta retorica in un'unica frase). Come se bastasse mettere l’arte nelle periferie per produrre generatività e quel sistema di equità e integrazione sociale di primaria necessità e soprattutto di diritto.
Viene da domandarsi se all’estemporaneità dell’azione di manutenzione – che non può affidarsi ai soli pochi e occasionali – non sia preferibile una temporaneità dell’azione artistica preferendo all’ennesimo parco d’arte nell’ennesima city life – che spesso non sono altro che progetti di gentrificazione mascherati ad arte – azioni di sensibilizzazione (nel senso di rendere sensibili, come direbbe Didi-Huberman), conoscenza e cura attraverso pratiche estetiche (non sempre necessariamente partecipative) che producano nuove rappresentazioni ed espressioni dello spazio sociale sollevando domande piuttosto che dando risposte e innescando processi immaginativi che, seppur non forniscono un immediato cambiamento, restano una tensione verso un campo di possibilità che prima non esisteva.
 
Ma naturalmente anche questi sono dati parziali e generali di questioni che forse andrebbero analizzate «caso per caso» e non sono altro che giudizi – senza pretesa di valore – da parte di chi all’ennesima scultura griffata caduta su una rotatoria – e ne cadono ancora – preferisce spesso un pianoforte lasciato in quel non-luogo che è una stazione e suonato, non sempre ad arte, da un anonimo sconosciuto che, per caso, passa di lì.
 
© Riproduzione riservata
 
* Il titolo dell’articolo è una citazione di Roland Barthes (e anche il titolo di un lavoro dell'artista Marzia Migliora)
 

 
Bibliografia di riferimento:
Crispolti, E., Arti visive e partecipazione sociale. Da «Volterra 73’ alla Biennale 1976, De Donato ed., 1977
Le febvre, H., Le Droit à la ville, Anthropos, 1968
Menna, F., Profezia di una società estetica, Officina edizioni, 1983
Scardi G., Il teatro continuo di Alberto Burri, 2015, Corraini ed.
Scardi, G., (a cura di), Paesaggio con figura. Arte, sfera pubblica e trasformazione sociale, Allemandi con SusaCulture, 2011

 
[1] Un esempio è il progetto Papum a Torino.

Photo by Alessandro Gatto