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Quando l’etichetta fa la differenza

  • Pubblicato il: 15/09/2017 - 09:20
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Rubrica: 
SAPER FARE, SAPER ESSERE
Articolo a cura di: 
Redazione

La scelta del consumatore, l’aspettativa del gusto, la promessa di appagamento partono dall’etichetta dei vini che raccontano storie dagli scaffali. La disciplina del wine label design, a livello di risposte a mercati globali,  è inclusa in una e vera e propria strategia di sistema. Proseguiamo le riflessioni avviate su queste colonne con la Fondazione Exclusiva in tema di wine system design, con una intervista-conversazione tra Simonetta Doni, antesignana del settore e Stefano Vittori, designer del libro
Rubrica di ricerca in collaborazione con Fondazione Exclusiva
 


 
L’etichetta può trasferire l’idea che il vino sia di particolare pregio e abbia un costo più elevato e ci sono consumatori che scelgono un vino in base alle apparenze, che creano fiducia (…)  deve reggere nel tempo, ma almeno ogni cinque anni ha necessità di ritocchi.  Cito il caso del Tignanello, etichetta storica, opera di Silvio Coppola che negli anni ha avuto una evoluzione dettata da esigenze pratiche, ma senza aggiungere una riga e una dicitura, mantenendo l’eleganza e l’equilibrio. I leggeri cambiamenti la salvaguardano”, afferma Simonetta Doni, tra i leader della disciplina wine label design.  Proveniendo dall’editoria d’arte, nel 1977, a Firenze, fonda lo studio grafico D&A, tra i primi al mondo specializzati nell’immagine dei brand e dei prodotti wine & food, nella “consapevolezza che l’immagine di ogni vino, anche attraverso al sua etichetta che deve essere unica, riconoscibile, duratura e internazionale crea un impatto emotivo e visuale determinante per la scelta finale del prodotto”. Lo testimoniano le collaborazioni con Marchesi Antinori, Marchesi Frescobaldi, Tedeschi, Bertani, Felluga, Arnaldo Caprai, Allegrini, Banfi, Gruppo Italiano Vini, Santa Margherita solo per citarne alcuni. “occorre lavorare nel segno dell’essenzialità”, afferma nella conversazione del designer Stefano Vittori. (…) Grandi vini storici francesi non le hanno mai cambiate, ma penso che alcuni abbiamo etichette improponibili (…) Una etichetta deve comunicare tutti i valori del marchio, deve essere un racconto. Abbiamo lavorato con un’azienda tedesca che fa grandi volumi, la Badischer Winzerkellerei nel Baden che perdeva quote di mercato. Abbiamo reinventato la marca per la cantina, recuperando il nome e narrato una storia. Dopo un anno il prodotto ha segnato un più 30% nelle vendite solo con il cambio di etichetta. E’ un rinnovamento di idee, fa parlare i giornalisti, crea tendenza.”
 
Approfondiamo la pista di riflessioni aperta su queste colonne con la Fondazione Exclusiva sul tema del wine system design con una intervista-conversazione tra Simonetta Doni, leader della disciplina wine label design e Stefano Vittori art-director senior dello studio Falcinelli&Co. dove progetta libri per alcuni tra i maggiori editori italiani.
 
Siamo in un momento storico in cui l’intero settore dell’enogastronomia gode di enorme attenzione da parte del grande pubblico. Se c’è un lato positivo della forte crisi economica degli ultimi anni, è che le persone sono diventate più attenta alla qualità dei prodotti con cui entrano in contatto, soprattutto in un ambito delicato come l’agroalimentare. Alla luce di questo nuovo scenario quali sono secondo te gli elementi che decretano il successo di un packaging alimentare?
 

Simonetta Doni: certamente la consapevolezza e la ricerca della qualità giocano un ruolo molto importante. Il packaging migliore è quello che offre informazioni semplici e chiare unite ad un’immagine attrattiva che stimoli il coinvolgimento emotivo.
 
La bottiglietta di Campari Soda disegnata da Fortunato Depero nel 1932 è forse uno degli esempi più chiari di un fruttuoso dialogo tra committente e designer. La lungimiranza di Davide Campari è stato il cemento con cui il futurista ha costruito un linguaggio visivo globale mescolando arte e progettualità, poesia e rigore. Qual è il percorso per costruire un rapporto florido? Quanto conta la condivisione dei valori?
 
Davide Campari, imprenditore illuminato, vide in un disegno realizzato da Depero nel 1926 la forma della bottiglietta a cono rovesciato e la comprese con grande lungimiranza.
Fu poi realizzata nel ’32.  Due grandi creativi che insieme hanno indicato la via della rottura con le convenzioni. Se c’è fiducia, dialogo e intelligenza fra committente e progettista possono nascere grandi progetti. Credo che sia molto importante “ascoltare” da parte di entrambi e sforzandoci di capire il pensiero dell’altro senza far prevalere le convinzioni personali ma anzi plasmarle sulle idee che il confronto fa scaturire.
 
Il nostro compito di designer consiste nell’analizzare i processi culturali, sociali e storici, ed elaborare delle teorie di progetto attuali e rispondenti a determinate necessità. Progettare per la società di oggi, è forse più complicato che negli anni d’oro del design italiano, in cui il progettista medio doveva fare i conti con realtà locali e nazionali. La globalizzazione ha incrementato domanda e offerta e ovviamente la concorrenza. Come è cambiato questo mestiere in un mondo dove lo stesso bene deve essere pensato per un pubblico planetario e culture completamente diverse?
 
E’ molto complicato pensare un’immagine adatta al mercato globale, specie per l’argomento vino, la cui immagine deve rimandare necessariamente alla provenienza di origine del prodotto. Se pensiamo allo scaffale di vendita, vediamo il grandissimo affollamento di bottiglie provenienti da tutto il mondo. Credo che per noi sia molto importante non adeguarci alle mode del momento ma cercare sempre di orientarci fra gli stilemi della nostra cultura che dovrà trasparire dall’immagine del packaging per dare immediatamente al consumatore globale l’idea della provenienza.
 
Oggi nell’agroalimentare capita spesso di trovarsi davanti a confezioni con un’estetica vintage, o che in vario modo spingono per affermare la tradizione, la produzione “alla vecchia maniera”, la filiera, la storicità, la matericità, la genuinità. Da consumatore giustifico questa “moda” come risposta fisiologica alla globalizzazione e al progressivo aumento delle tecnologie. Quanto è importante identificare queste tendenze e capirne le ragioni? Seguire un trend è un male necessario o si può scegliere?
 
Certamente il ”moderno vintage ”, nasce per contrapporsi alla tanta tecnologia che ci avvolge
e specie nel settore agroalimentare vogliamo e ricerchiamo la naturalità. Potrebbe essere interessante studiare le tendenze desuete, ormai abbandonate da tempo, quelle che meglio possiamo recuperare oggi per offrire più esclusività e interesse.
Nel mio settore, quello del vino, si devono seguire concetti diversi, il prodotto è squisitamente “tradizionale” e specialmente per i vini importanti, mai seguire una moda ma andare oltre la moda. L’immagine che creeremo dovrà vivere nel tempo. Un esempio fra tutti: il Sassicaia.
 
Viaggiando in altri paesi si continua a percepire il fascino che il Made in Italy esercita. Da italiani consapevoli dell’instabilità interna del paese pare strano, ma lascia intravedere un barlume di speranza per un settore storicamente eccellente. Da protagonista del buon design, quali sono i consigli e i valori che ti piacerebbe trasmettere a chi si avvicina per la prima volta a questo mestiere?
 
Il nostro design, se confrontato con Paesi più giovani ed emergenti, può risultare meno creativo, ma io credo che questo sia dato dai conti che dobbiamo sempre fare con la nostra cultura, con la nostra storia millenaria che non tutti i paesi hanno. Dobbiamo essere consapevoli delle nostre eccellenze e raccontarle al meglio anche attraverso il design.
E’ più semplice lavorare con nuovi brand. Spesso la storia, i secoli e anche la polvere pesano e ne condizionano le scelte. Consiglio sincerità e consapevolezza del valore dei nostri prodotti. Non aggiungere orpelli. A noi non servono, abbiamo la qualità!
  
Il bollino della banana è il grado zero del packaging, forse il più minimale artefatto comunicativo nel mondo del food design. Se pensiamo a un bollino blu su fondo giallo ci viene subito in mente il brand corrispondente. Se questa invenzione semplice ed economica riesce efficacemente a veicolare una storia e dei valori, è possibile ripensare etichette e confezioni per dire di più con molto meno?
 

Il bollino blu sulla banana è certamente il minimo per il massimo relativamente alla comunicazione del brand. La buccia è il suo packaging. Come brand identification , mi viene in mente la nota marca di champagne, che, se togliesse tutti i testi della sua etichetta e lasciasse solo il color arancio, sarebbe ugualmente riconoscibile. E nel fashion, mi viene in mente sempre il color arancio con un nastrino marrone, anch'esso ormai pienamente riconoscibile ed esclusivo anche se scomparisse carrozza e cavallo.
Nastri, capsule, bollini o colori, possono tutti, benché minimi connotare un prodotto e un brand.
Il vino, è emozione, racconto, storia, tradizione con una infinita diversità. Se salviamo questi valori, qualsiasi interpretazione, anche minimale, va benissimo.

 
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