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Art is bonus? Tell me why e nessun dorma

  • Pubblicato il: 14/01/2015 - 20:08
Autore/i: 
Rubrica: 
NORMA(T)TIVA
Articolo a cura di: 
Irene Sanesi

Sono trascorsi sei mesi dall’entrata in vigore dell’Art bonus, il decreto che ha elevato, per un periodo di sperimentazione di 3 annualità, la detrazione fiscale sotto forma di credito d’imposta relativa alle erogazioni liberali sia per le persone fisiche che per le imprese. Un tempo sufficiente, per un provvedimento di portata triennale, per cominciare a fare i primi bilanci. Se vale l’andante «chi ben comincia è a metà dell’opera», si potrebbe già affermare che l’art bonus, ahimè, non è proverbiale. Non ci sono infatti riscontri positivi sul quantum da intendersi sia come somme destinate (tante da pochi) sia come numerosità delle donazioni (poche da tanti).
Il monito del Ministro Franceschini «non ci sono più alibi» sembra non aver toccato le corde di un nuovo mecenatismo. Se per nuovo si intende una modalità fondata prevalentemente sulla leva fiscale.

Cerchiamo allora di comprenderne le ragioni, come abbiamo titolato parafrasando un testo (tell me why) utilizzato in musica dalla metà degli anni ’50 fino ad oggi.
Mi capita spesso di citare due pubblicazioni sempre longeve sul tema in questione: Donare si puòa cura di Associazione Civita e Fondazione di Venezia e Donare seriamente di F. Revelli Ediz. Fondazione G. Agnelli, che dopo una panoramica, sempre utile, sulle modalità estere di benefit per chi sostiene la cultura, affrontano il caso Italia, presentandone le peculiarità. Non è difficile immaginare il quadro che emerge. Quello cioè di un paese nel quale il dettato costituzionale, l’articolo 9 in particolare, è stato percepito in senso statalista per cui la Res publica ancora stenta a decollare come concetto civico. Eppure, secondo aspetto, il patrimonio culturale italiano non è affatto concentrato esclusivamente sui beni pubblici (gli stessi dell’art bonus tax credit), piuttosto è diffuso sullo stivale e diffuso nelle proprietà.

In un commento della scorsa estate a quattro mani con la Sovrintendente della Camerata Strumentale città di Prato, Barbara Boganini, si commentava «Art malus. La musica è cambiata ma attenzione: tax free per pochi non per tutti», evidenziando un aspetto della norma e cioè come la stessa sia indirizzata (a differenza del modello francese a cui si è ispirata) ai soli beni pubblici, escludendo di fatto i beni e le attività di natura privatistica come proprietà, eppur sempre di interesse pubblico, sussidiariamente parlando, per quanto attiene la loro portata.
Riferendosi quindi alla fiscalità, un limite dell’art bonus è sicuramente la mancata estensione ad una pluralità di soggetti detentori e gestori a vario titolo di beni e attività culturali. Ma non equivochiamo, le ragioni sono in realtà molto più profonde se ancora lo strumento del tax credit non decolla. Sono ragioni, come si evidenziava sopra, di natura culturale in primis, tant’è che risulta sempre fuorviante prendere in prestito modelli stranieri, laddove la forma mentis è quella di un forte senso civico a sostegno delle arti sostenuto dalla leva fiscale. Vi sono inoltre motivazioni di ordine fattuale nel senso che il contribuente in Italia si trova molto spesso a dover affrontare ostacoli di natura burocratica e amministrativa che scoraggiano la più tiepida volontà a fare del bene. 
Prendiamo appunto l’art bonus. Si doveva comunicare le erogazioni liberali entro il 31 ottobre scorso: ma come? Ad un’impresa, nelle more di una risposta (la circolare N. 24 del 31.7.14 non entrava in aspetti operativi, come ci si attenderebbe invece da una circolare applicativa, né gli uffici ministeriali hanno fornito indicazioni tramite i loro canali: sito web, telefono, mail) ho suggerito di inviare al Comune beneficiario una PEC, una mail certificata. Ma, se il donante fosse stato un privato (dunque senza PEC)? E ancora, gli strumenti di pagamento sono quelli che consentono la tracciabilità: ho suggerito però un bonifico così da poter indicare la «causale» «erogazione liberale ai sensi del decreto art bonus ecc. ecc. specificando la finalità». E al Comune ho consigliato di predisporre una certificazione/quietanza con tutti i dati per dare conto della liberalità e, soprattutto, della finalità (gli spazi sul bonifico non consentivano troppe spiegazioni). Ma se l’impresa avesse pagato con carta di credito? La finalità della liberalità è uno dei punti centrali del decreto, tanto che l’ente beneficiario deve darne conto e merito sull’utilizzo. Ipotizziamo poi che lo scopo fosse un restauro di un’opera: cosa accadrebbe nel caso che la somma necessaria non venga raggiunta? Il Comune dovrebbe iscrivere a bilancio la somma residua? Come fa a conoscerla? Forse l’organizzazione di un raccolta fondi programmata potrebbe aiutare, ma si tratta sempre di operazioni pensate e organizzate per tempo, almeno nei tempi dei bilanci di previsione degli enti locali.
Vi sono almeno altri due aspetti che limitano un cambio di rotta e rappresentano un freno importante per il mecenatismo: l’incertezza interpretativa sulla normativa delle sponsorizzazioni (la Cassazione ultimamente non le sta considerando più spese di pubblicità, con limitazioni sulla deducibilità) e l’inserimento degli investimenti culturali (liberalità, erogazioni, ecc.) fra gli indicatori di redditività dello spesometro, lo strumento accertativo dell’Agenzia delle Entrate ai fini della lotta all’evasione (donare è un indice di redditività). Ne abbiamo parlato più volte in questa autorevole sede. E’ interessante notare che le statistiche e la realtà raccontano di un paese in cui le PMI sono l’ossatura centrale: quelle piccole medie imprese vicine al patrimonio diffuso e identitario più che alle cattedrali e alle icone artistiche e dove i cittadini con redditi medio-bassi sono più propensi al dono. Non basteranno più per il futuro i grandi brand della moda, che peraltro donerebbero a prescindere dalla leva fiscale, tanta è l’identificazione verso l’esterno fra il concetto di made in italy e la cultura del paese.
Per non parlare della membership, il futuro sta tutto lì: nella capacità di «sentirsi parte» di un progetto che accresca chi dona e chi riceva, con modalità nuove, queste sì, tutte da sperimentare.
Nessun dorma.
Se si crede che il coinvolgimento dei privati sia un passo ineludibile per la tutela e la promozione del patrimonio culturale del nostro paese, anche a causa di una progressiva riduzione del contributo pubblico, bisogna che le norme e la loro applicazione siano chiare (no ad incertezze e ambiguità interpretative) e semplici (no a processi burocratici differenti e difficili). E’ chiedere troppo? Allora non chiedetevi perché.

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