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ARRESTARE IL SISTEMA. IL CALEIDOSCOPIO DIGITALE DEL MAXXI PUNTA SULL’ARTIFICIAL INTELLIGENCE

  • Pubblicato il: 15/11/2018 - 08:01
Autore/i: 
Rubrica: 
FONDAZIONI E ARTE CONTEMPORANEA
Articolo a cura di: 
Amerigo Nutolo
Mentre s’allarga la riflessione sui cambiamenti portati dalla rivoluzione digitale, e l’applicazione dell’intelligenza artificiale, giorno per giorno, compenetra sempre più la vita individuale e collettiva, Bartolomeo Pietromarchi apre al MAXXI la mostra Low Form, che ci stimola a fare il punto su un’epoca segnata dal rapporto con la tecnologia, sul destino dell’arte e sui compiti di agenzie culturali tradizionali, tra cui, quelle del museo e dello stesso artista.
A pochi mesi dalla pubblicazione di Che cosa vogliono gli algoritmi? di Ed Finn, e nei giorni in cui Alessandro Baricco battezza nei teatri il nuovo saggio The Game (entrambi per i tipi di Einaudi) si aprono, anche nei nostri principali musei, le porte della riflessione sul presente tecnologico-digitale. All’ombra dei mutamenti portati dall’adozione pervasiva dell’intelligenza artificiale, Low Form, a cura del direttore Bartolomeo Pietromarchi, riunisce in una mostra al MAXXI alcuni artisti della giovane generazione impegnati – in diverso modo – su questa frontiera culturale.
 
L'intelligenza artificiale è sempre più al centro della riflessione e immaginazione pubblica, ma la sua pervasività non è facilmente misurabile o percepibile. Trevor Paglen, uno degli artisti in mostra, dice che l'arte "can show you some of the mechanics through which the world is constructed and show some of the underlying political, economic, social, cultural relationships that are bearing down on our everyday lives" e che "can also help denaturalize these things, help us realize that there is nothing natural about the world in the way that it exists now, and if there’s nothing natural about the way it exists now, then we can imagine alternatives". L’arte e il suo impiego decostruttivo servono a individuare nuovi percorsi di sviluppo della natura umana – già modellata, peraltro, dal suo essere sociale, nel corso dell’evoluzione.
 
In alcune opere, tra cui alcune esposte, Paglen educa tassonomicamente l'AI, le somministra ingenti quantità d'immagini selezionate, taggate in base a ciò che egli desidera che arrivi a rappresentare, a pensare: la porta a produrre immagini originali che oscillano fra reale e informale: ritratti e paesaggi evocativi, inquietanti, dov’è l’uomo a indurre e riconoscere significati. Una trappola apofenica (come si definisce la disposizione a riconoscere delle figure in forme e disegni astratti) dove la macchina, come un medium, soddisfa le aspettative magiche di cui la connotiamo. Nell’opera Fanon, invece, il carcere è più reale: Paglen piega l’AI che sovrintende ai sistemi digitali di videosorveglianza e ai riconoscimenti facciali a produrre il proto-ritratto, la matrice del volto di un attivista che ha segnato la storia dei diritti civili, la cui attività sarebbe resa impossibile, oggi, dalle medesime tecnologie di controllo sociale. Paglen mostra come siamo permeati di potere tecnologico e sociale mediato dall’AI: come apprenda, decida, riconosca, crei col nostro massivo contributo, in base a conoscenze e pregiudizi umani, dietro le quinte, o forniti in qualità di user più o meno consapevoli e complici.
 
La forma restrittiva d’immaginazione dell’AI s'impone in quelle forme organizzative che l’assumono ad infrastruttura. I social network, per esempio, amplificano gli squilibri del sistema rappresentazionale, catalizzano il formarsi di comunità omogenee, auto-motivanti, dal ricircolo comunicativo interno: così, però, si smorza lo scambio, si inibiscono i conflitti, e se ne inasprisce il potere deflagrante; vi si premia una performatività tecnologica proporzionale al censo. L'algoritmo è l’erede delle strutture ideologico-religiose dei secoli scorsi. “Immaginiamo questi algoritmi come eleganti, semplici ed efficienti, mentre sono dei coacervi disordinati che mettono insieme diverse forme di lavoro umano, risorse materiali e scelte ideologiche.” dice Finn. E altrove afferma che “l’informatica getta un’ombra culturale permeata da” una “lunga tradizione di pensiero magico. Via via che l’elaborazione trasforma quasi ogni aspetto della vita culturale, le storie che raccontiamo sull’elaborazione stessa, l’equilibrio tra mito e ragione svolgeranno un ruolo primario nel determinare ciò che possiamo conoscere e pensare. La lingua ha un potere nel mondo, e può in qualche senso definirlo. Quando viene messa in atto, la logica simbolica può apportare alterazioni procedurali alla realtà.” E in questo scenario si muove, dunque, anche l’arte.
 
Abbiamo chiesto al direttore del MAXXI, Bartolomeo Pietromarchi se, andando oltre la competizione, nel rapporto arte-tecnologia si può scegliere tra una simbiosi che sfoci in entertainment (prevedibilmente accessibile in modo diverso da diverse classi sociali), e una collaborazione che amplifichi le capacità trasformative di entrambe, che ci faccia cogliere il presente nella sua modificabilità, valorizzando la partecipazione dei fruitori esperti e abilitando l’interazione dei meno esperti. “Tra i temi su cui si basa e propone di riflettere il progetto Low Form” dice Pietromarchi “c’è senz’altro la questione del rapporto tra arte e tecnologia e di come queste due espressioni e forme di evoluzione possano continuare nel tempo a crescere in parallelo e intrecciarsi. Oggi nell’arte permane l’imprescindibilità dell’apporto umano, dell’intelligenza e dell’idea autentica, ma la rivoluzione epocale che viviamo oggi in campo tecnologico ci prospetta un mondo sempre più dominato dalle intelligenze artificiali ponendoci dei quesiti di carattere etico e morale – sul valore e il ruolo dell’umano nel prossimo futuro, in rapporto a ‘macchine’ che ne emulano e ne amplificano le capacità al punto di superarle –che inevitabilmente coinvolgono anche la ricerca artistica. Potrà mai un’intelligenza artificiale produrre arte come l’abbiamo sempre intesa? Viviamo in una realtà che si sta tramutando in simulazione o è la simulazione che si sta sostituendo alla realtà annullando i confini tra vero e falso, lecito e illecito? Con queste domande ho scelto di introdurre il progetto Low Form proprio per portare subito all’attenzione i temi della mostra che ruotano attorno al presente digitale e le nuove questioni di fronte alle quali ci pone la sua continua e rapida evoluzione.” La domanda giusta, forse è: può l’uomo sviluppare sistemi d’intelligenza artificiale capaci di veicolare forme di produzione artistica competitive rispetto a quelle finora sperimentate? Che confine si traccerà fra la simulazione e una rappresentazione della realtà mediata e rafforzata dall’uso partecipato di sistemi digitali?
 
Alcune mappe appaiono dai diversi atteggiamenti degli artisti in mostra: chi l’AI l’utilizza come midollo produttivo dell’opera, chi l’utilizza per display o format esperienziali, chi la tematizza o ne esalta il lato feticistico, mitologico. “Il progetto presenta una riflessione poliedrica sullo sviluppo tecnologico in relazione alla ricerca artistica, suscitando a sua volta interrogativi. Per ampliare l’attenzione del pubblico, abbiamo unito alla mostra, un catalogo e un ciclo di conferenze che indagano le diverse implicazioni antropologiche, etiche ed estetiche di una società articolata in reti neurali, realtà aumentata e nanotecnologia”, dice il curatore.
 
Come e chi può, o deve, intervenire per portare gli artisti a divenire architetti d’interazioni creative diffuse e gettare le basi del secondo scenario, socialmente generativo, in cui arte e tecnologia co-operino fuori da compromessi di mercato?

Ritengo che sia in primis dovere dei luoghi di cultura, il Museo soprattutto, svolgere un’azione educativa, interattiva e propositiva nei confronti del pubblico per avvicinarlo alle grandi questioni sociali, politiche e culturali del nostro presente al fine di sviluppare strumenti critici e nuova consapevolezza. Lo stesso ruolo di mediazione svolto dai musei fa direttamente i conti con lo sviluppo tecnologico attraverso la proposta di nuovi supporti interattivi che facilitino l'esperienza di visita, come ad esempio il nuovo chat bot che abbiamo predisposto al MAXXI per accompagnare il percorso delle collezioni. Non nego di continuare a preferire le visite realizzate dal nostro dipartimento di educazione ma la convivenza di questi due strumenti di mediazione ritengo sia ormai necessaria per permettere a chiunque di scegliere liberamente come accedere ed avvicinarsi all’arte e alla cultura.
 
Baricco, in The Game, invita a liberarci dalle distopie tecnologiche, e a ripensare la rivoluzione digitale e i fenomeni che ne derivano, come conseguenze, non cause di un nuovo pensiero. Per superare le paure del secolo scorso ci si è spinti, anni fa, in una nuova direzione: ridurre gli intermediari, aumentare la libertà d'azione e movimento, distribuire, diffondere nel modo più capillare ed esteso possibile, il controllo, da parte delle persone, degli strumenti che influenzano il loro contesto. L’autore ha detto che i cambiamenti prodotti dal gioco hanno ignorato i centri del potere: Chiesa, scuola, politica. Ma va aggiunta l’arte, ai centri di potere sotto cui “la tecnologia ha scavato il vuoto”.
 
Alla dipendenza dell’artista dal mercato, s’aggiunge un’intera classe culturale schiacciata dall’influenza di tecnologie che non ha integrato né guidato. Non è il gaming, a spingere lo sviluppo, ma l’aspettativa di entrare in gioco e accedere a nuove modalità di autorappresentazione e decisione collettiva. Eppure ci sfugge il controllo sulla fase di programmazione. Mancano figure che modellino nuovi strumenti utili a un’immaginazione condivisa. All’animismo iperconnettivo e all’élite di media manager che prova ad incanalare e sfruttare i flussi d’interazione digitali, fa da guardrail la centralità dello user. Chi fa cultura non può più pensare a ciò che viene scritto ma a come viene letto, e tale ribaltamento, forse irreversibile, non deteriora mai del tutto in marketing: si porta sempre di nuovo al centro l’istanza di un discorso collettivo, calcato su chi fruisce. Gli user che oggi seguono tendenze di massa e costringono i musei al traino, possono obbligare l’arte a uscire allo scoperto e adottare, oltre alle nuove tecnologie, un approccio aperto: l’artista deve rinunciare alla priorità tematica del suo orizzonte biografico, ai privilegi sciamanici, all’amplesso con il mercato, e farsi sinapsi di una mente e azione creativa diffusa, aprendo a nuovi orizzonti di valore culturale. Gli artisti di Low Form ci fanno vedere come l’arte inizia a decomporsi e ricomporsi in qualcosa di diverso. Non si sa ancora che cosa.
 
La lotta fra una società schiava di logiche ingegneristico-economiche, dell’intrattenimento e dei propri tools ed una società in grado di liberarsi, inventare e gestire gli strumenti del proprio cambiamento, è iniziata. L’insofferenza per l’incapacità di orientare efficacemente gli effetti dell’enorme partecipazione digitale di oggi, il soffocamento dovuto ai dogmi e alle liturgie della nuova teocrazia computazionale (Bogast, 2015), al dominio culturale e materiale dell’algoritmo, la paura e il desiderio di un presente sempre più fuori controllo, hanno una via d’uscita. Le agenzie culturali, gli artisti, devono smettere di muoversi come administrators, e condividere il dono e gli strumenti di rappresentazione: curare che si formino ambienti abilitanti, in grado di generare senso condiviso e azioni coordinate. Armonizzarsi alle nuove forme d’interazione digitale – per la fruizione, il display, la produzione e la promozione culturale – serve solo se si riduce la disparità di capacità rappresentativa e espressiva fra le persone, e fra persone e istituzioni: se lo scambio culturale fa presa comune sul nostro tempo. In caso contrario, il salto nel vuoto digitale, con tutto l’apporto creativo che ne consegue, sarà compiuto da nuove forze rappresentative che neppure l’abuso delle tecnologie da parte dei poteri riconosciuti saprà arginare –forze in grado di riconfigurare i codici del conflitto sociale, al momento opportuno, e arrestare il sistema.
 
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Credits: BartolomeoPietromarchi phCeciliaFiorenza