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Territori e futuri desiderabili

  • Pubblicato il: 15/10/2018 - 00:04
Autore/i: 
Rubrica: 
FONDAZIONI D'ORIGINE BANCARIA
Articolo a cura di: 
Stefania Crobe
A Venezia seguiamo “Borghi: Un patrimonio da preservare e riattivare. Esperienze in Lombardia”, l'appuntamento promosso da Fondazione Cariplo che ci porta ancora una volta a riflettere sul tema aree interne e sul ruolo della cultura per lo sviluppo dei territori e per immaginare il non ancora

 
Il termine “desiderio” deriva dal privativo “de” (mancanza di) con il plurale di “sidus” (stella).
Il desiderare esprime, dunque, la condizione di colui che percepisce la mancanza delle stelle.
 
Più volte oggetto delle nostre ricerche[1], è ormai chiaro come oggi le aree interne siano oggetto di un ripensamento, di una rinnovata attenzione che, anche se apparentemente impercepibile, rivela inedite forme di sperimentazione, culturale, politica ed economica, configurando questi luoghi – spesso percepiti come fragili – come un laboratorio in cui si collaudano nuovi modelli di vita e uso del territorio.
Un'attenzione che si manifesta nell'ormai consolidata Strategia Nazionale Aree Interne, attualmente ad un punto di svolta con 30 strategie d’area e 12 accordi di programma quadro approvati (vd. Relazione annuale sulla Strategia nazionale aree interne, gennaio 2018). A quattro anni dall'avvio, se i tempi sono immaturi per un bilancio quantitativo, è altrettanto vero che è possibile fare delle considerazioni di carattere generale e valutare come il tema sia oggi al centro del dibattito e degli interessi di una pluralità di soggetti che sulle aree interne scommettono per una rinascita del Paese.
Una rinascita che riscontriamo nella pluralità di esperienze che nascono in seno alla società civile e che nelle periferie territoriali si situano per innescare processi di innovazione, economica e sociale, come vediamo nel racconto di Mario Cucinella, al centro della ricerca del Padiglione Italia alla 16a Biennale Internazionale di Architettura di Venezia, ma anche nel crescente interesse da parte degli enti filantropici che investono risorse per incentivare una rilettura dei territori interni e promuovono delle progettualità capaci di riattivare queste aree liminali e invertire – o quanto meno combattere - il trend dello spopolamento che spesso le caratterizza.
Tra queste, pioniera è proprio la Fondazione Cariplo, con la creazione dei Distretti Culturali – già dal 2009 - e con il recente bando “Attivaree”, lanciato nel 2016[2].
 
Ed è proprio la laguna, nel contesto della mostra Borghi of Italy – #NO(F)EARTHQUAKE, organizzata dal Concilio Europeo dell'Arte, a fare da sfondo all’appuntamento dello scorso 28 settembre a cura di Fondazione Cariplo: Borghi: Un patrimonio da preservare e riattivare. Esperienze in Lombardia.
Una giornata dedicata al Patrimonio Culturale – cui la fondazione ha investito circa 90 milioni di euro per interventi su oltre 400 beni nell'ultimo decennio – e alle Aree Interne – che con il bando Attivaree, con 10.000.000 di euro, punta alla rinascita dell’Oltrepò Pavese e dell’alta montagna bresciana nelle valli Trompia e Sabbia.
Una giornata di ascolto e studio con un ricco palinsesto che analizza e solleva tematiche emergenti e urgenti, in cui conservazione, rigenerazione e sviluppo del territorio sono fattori strettamente interconnessi cui occorre guardare in un'ottica sistemica e critica, superando da un lato l'ideologia del 'tipico' cui spesso si riconduce il patrimonio dei nostri borghi, dall'altra quella dell'innovazione a tutti i costi, dimenticando che cambiamento non sempre significa miglioramento e Venezia, come cantava Francesco Guccini qualche nota fa, “vendendo gli ultimi suoi giorni tristi ai turisti”, sembra amaramente ricordarcelo.
 
Conservare il futuro
La chiave di lettura che indirizza le riflessioni è offerta da Luca Dal Pozzolo che modera il convegno e che, citando Paul Valery nel discorso in onore di Goethe, si domanda: “La vita, dopo tutto, non si riassume forse in questa formula paradossale: la conservazione del futuro?” .
Un paradosso in cui ereditare il patrimonio equivale ad un'operazione attiva. Conservare non è uno scotto da pagare al passato ma un'opportunità e valorizzare significa prima di tutto comprendere il senso, per cui occorre il superamento della finta opposizione tra conservazione e innovazione in favore di forme di disegno e sviluppo del territorio – e del futuro - compatibili con l'ambiente e con i nuovi assetti geopolitici.
Assumere il punto di vista del futuro significa avere strumenti, governance e politiche articolate, tracciare traiettorie che mettano insieme persone e cose per costruire innanzitutto comunità capaci di “fare territorio”.
E se, come scriveva Albert Einstein in The world as I see it, le crisi sono un “beneficio“, perché è nella crisi che nascono l’inventiva, le scoperte e le grandi strategie, allora l'urbanizzazione incontrollata, il progressivo depauperamento del territorio, i sismi che hanno inginocchiato il Paese, la progressiva mercificazione del patrimonio culturale dove le città sono fagocitate dal cibo e da un turismo mordi e fuggi sono l'opportunità per un ripensamento in cui la cultura torna ad essere ginnasio, esercizio di pensiero per una rigenerazione umana.
 
 
Conservazione, valorizzazione, innovazione
E’ possibile coniugare contemporaneità e memoria? Possono le nostre città storiche e i nostri borghi essere luogo di memoria ed innovazione? Può la cultura contemporanea affermare se stessa anche all'interno della città storica? E quali possono essere le modalità di tale connubio? Si può operare nei centri storici comunicando con il passato, o lo scontro con la tradizione è ineluttabile?
Interrogativi che videro impegnati personaggi dello spessore di Roberto Pane e Bruno Zevi, Antonio Cederna, Cesare Brandi, Ernesto Nathan Rogers sui problemi legati alla ricostruzione nel secondo dopoguerra, e che risuonano attualissimi nel dibattito sull'emergenza sismica e sulla ricostruzione, sullo stato di conservazione e valorizzazione del nostro patrimonio.
 
Al centro il tema della fragilità del territorio che esige nella complessità generale un approccio complesso, fatto di cura, interdisciplinarietà, coinvolgimento delle comunità ove l'identità locale è in costante dialogo con la pluralità e dove la costruzione del legame tra fruizione e valorizzazione non può prescindere dalla conoscenza e dalla capacitazione del territorio stesso sacrificata spesso in nome di un turismo, sempre più fine a se stesso piuttosto che strumento di sviluppo.
Una strada che – racconta Cristina Chiavarino, Direttore Area Arte e Cultura - Fondazione Cariplo persegue da tempo abbandonando da subito quella distinzione tra bene culturale e attività, abbracciando una visione trasversale.
Pioniera tra le fondazioni di origine bancaria e gli enti filantropici, attraverso differenti strategie di intervento che prevedono una conservazione programmata e una valorizzazione del patrimonio, la fondazione supera la logica del finanziamento a poggia per accompagnare i territori oggetto dei loro interventi in un processo di empowerment in cui, nel coinvolgimento delle comunità, si promuove e si innesca una cultura della sostenibilità, della collaborazione, della buona gestione.
 
Politiche di prevenzione, interdisciplinarietà e intersettorialità degli interventi, conoscenza e riconoscimento dei valori profondi del territorio, progettazione culturale integrata sembrano essere gli ingredienti fondamentali della strategia di Fondazione Cariplo come emerge dai racconti dei borghi lombardi di Sabbioneta, Lovere e Bienno. In questi luoghi l'azione della fondazione testimonia un agire fortemente guidato dalla volontà di evitare il progressivo spopolamento e abbandono di territori in favore di una valorizzazione del patrimonio come opportunità culturale, sociale ed economica. Nuove forme di interpretazione e valorizzazione del territorio che Fondazione Cariplo porta avanti anche attraverso le esperienze dei Distretti Culturali[3].
Tra questi il il Distretto Culturale della Valcamonica, il primo creato nel 2009, rappresenta un'esperienza significativa, alla cui base vi è un dialogo costruttivo con la rete territoriale esistente, la Comunità Montana in primis, ma soprattutto una rilettura contemporanea del patrimonio storico per la riattivazione delle periferie territoriali attraverso una progettualità che si proietta nel futuro e che è prioritaria rispetto all'intervento conservativo tout court. Un esempio è costituito dal progetto Aperto_20 che, in linea con il programma di riattivazione culturale del territorio avviato dai Distretti, ha individuato nei nuovi linguaggi dell’arte una delle leve fondamentali per innescare energie e nuove idee, e nella formula della residenzialità artistica uno strumento affinché l’arte possa nascere sul (e dal) territorio, contest specific.
Un invito a sviluppare riflessioni con il contesto e relazioni connettive tra preesistenze, memoria, radici profonde del territorio e contemporaneità, tra ambiente naturale e antropizzato, comunità costituite e costituenti, per conservare la visione di un futuro desiderabile e praticabile, per immaginare il territorio come progetto collettivo.
 
La cultura del progetto
Come ricorda Luca Dal Pozzolo, nessun territorio è condannato, esistono solo territori senza progetto.
E nel 1970 Henri Lefebvre scriveva ne La rivoluzione urbana: “I progetti non riescono ad andare più lontano dell’utilizzazione di qualche procedimento grafico e tecnologico. L’immaginazione non riesce più a prendere il volo. Gli autori dei progetti non riescono evidentemente a trovare il collegamento fra questi due principi opposti: a. non v’è pensiero senza u-topia, senza esplorazione del possibile, dell’altrove; b. non v’è pensiero senza riferimento a una pratica (in questo caso quella dell’abitare e dell’uso)”.
Quanto mai attuale, è proprio nell'alveo del progetto (di territorio) che forse va ricondotta l'intera questione, per immaginare, attivare, praticare quel futuro che, senza cultura rischia di non esistere.
 
In questa prospettiva il programma intersettoriale AttivAree di Fondazione Cariplo – già nella ricchezza semantica del titolo – svolge un ruolo di estremo interesse per la riattivazione delle aree interne e marginali del territorio di riferimento della Fondazione, per aumentare la sua forza attrattiva nei confronti dei residenti, di potenziali investitori e dei poli urbani di riferimento, a partire dalle risorse delle comunità, reali, percepite e latenti. Per un progetto – una visione – di territorio che parte dall'esistente ma guarda al non ancora.
 
Lanciato nel 2016, AttivAree finanzia due progetti di "rinascita" selezionati tra le idee progettuali presentate da 11 territori della Lombardia e del Verbano-Cusio-Ossola, durante la fase di apertura del bando. Sono: Valli Resilienti, il progetto per il rilancio della montagna bresciana che riguarda il territorio considerato più interno della Val Trompia e Val Sabbia e che vede protagoniste le due valli unite in uno sforzo corale e Oltrepò(BIO)diverso, il cui capofila è la Fondazione per lo Sviluppo dell’Oltrepò Pavese.
Come racconta Elena Jachia, Direttore Area Ambiente, il programma Attivaree investendo 10milioni di euro in tre anni, utili ad avere una dimensione di significatività, ha operato in stretta relazione con la Strategia Nazionale, andando cioè a guardare agli indicatori della SNAI per delimitare il campo dei possibili soggetti che potevano rispondere al bando.
Abbiamo voluto dar vita ad una progettazione anomala, per assecondare quanto la SNAI – di cui riconosciamo il grande valore metodologico e la grande portata visionaria - aveva avviato, andando concretamente ad intrecciarsi con le progettualità avviate nelle aree interne lombarde e sperimentando nel concreto cosa vuol dire collaborare. Dopo la selezione dei due progetti è iniziato un percorso di accompagnamento per una migliore definizione dell'idea progettuale, per traghettare l'idea verso uno studio di fattibilità e azioni definite e descritte con budget precisi. Finita questa fase si è iniziato a progettare e a realizzare concretamente. Ora i progetti sono tutti partiti e la previsione è di vederne la conclusione per la fine del 2019. La preoccupazione ora è, quindi, fare in modo – capacitando i territori – che le energie attivate non si esauriscano alla fine di questo triennio di accompagnamento”.
 
Creare futuri desiderabili. Il progetto oltre il progetto
E se nei territori le corrispondenze quasi mai sono reciproche, questo tanto più è vero in quei territori liminali lasciati ai margini della modernità e che, proprio per questo, sono potenziali cantieri di sperimentazione per coltivare una cultura del progetto e ripensare i concetti di centralità/perifericità attraverso processi di costruzione culturale capaci di recuperare e innescare un senso di comunità e del comune, la pluralità nell'identità, lontano dal tempo del consumo culturale cui spesso sono assoggettati i grandi centri urbani.
Se la sicurezza e la cura restano precondizioni, la valorizzazione – da sola – non costituisce una soluzione all'abbandono di queste terre, così come la relazione tra turismo e sviluppo del territorio non è sempre consequenziale, perché nonostante le apparenti rinascite – e casi noti intra e extra urbem ce lo dicono  – si può anche morire di turismo.
 
Ciò che la cultura può fare allora è andare oltre il progetto per visualizzare (rendere concreta un'immagine astratta) quel futuro da conservare ma soprattutto da desiderare. Andare oltre il progetto per abbracciare una visione – quell'utopia da praticare di cui parlava Lefebvre - significa superare la natura tangibile e statica di patrimonio per intenderlo come una costruzione continua di senso e di relazioni, per fare del territorio un corpo vivo dove praticare strategie di vita, di creazione, a partire dall'esistente.
Per fare questo – ed è la sfida tanto per le politiche pubbliche quanto per gli enti filantropici che per lo sviluppo dei territori operano nell'innescare, favorire, accompagnare – occorre forse attivare soluzioni auto-generanti (creative), ovvero puntare sulla capacitazione dei territori a partire dalla creazione di comunità consapevoli e capaci - pronte cioè ad accogliere - di costruire una visione, ciò che non è ancora.
Partire dall'esistente e da questo - in una dimensione privilegiata con il territorio in cui si riscopre il mistico, il simbolico, il rituale del patrimonio - leggere e interpretare la realtà per guardare le stelle e desiderare e generare nuove visioni, “nuovi territori e futuri desiderabili”.
 

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[1]Speciale aree interne, a cura di S. Crobe, Il Giornale delle Fondazioni, novembre 2016
[2]ATTIV●AREE, di Elena Jachia, Il Giornale delle Fondazioni, novembre 2016
[3]Per approfondimenti: Barbetta G.P., Cammelli M., Della Torre S.,(a cura di), Distretti Culturali: dalla teoria alla pratica, il Mulino edizioni, 2013.