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RIFORMA DEL TERZO SETTORE: QUALE FUTURO PER LE NON PROFIT CULTURALI?

  • Pubblicato il: 17/06/2017 - 16:25
Rubrica: 
NORMA(T)TIVA
Articolo a cura di: 
Francesco Mannino

Continua il confronto con osservatori esperti per comprendere cosa contengono i decreti legislativi della Riforma del Terzo Settore approvati a maggio dal Consiglio dei Ministri, e cosa essi possono significare per il futuro delle decine di migliaia di non profit culturali diffuse sul territorio italiano. Ne parliamo con Giuseppe Taffari, avvocato, esperto di imprenditoria sociale e di diritto degli enti non profit.
 


 
In Italia le organizzazioni non profit che ricadono nel settore “attività culturali e artistiche” sono, al 2011 (Censimento ISTAT), più di 54mila: circa il 18% del totale. In che maniera la Riforma del Terzo Settore sta rispondendo alle istanze di queste organizzazioni che si occupano di produzione e partecipazione culturale?
Il mondo delle organizzazioni e delle imprese culturali è da sempre alla ricerca di una legittimazione, anche normativa, che ne disegni in maniera precisa i contorni.  Ci sono alcune proposte di legge in discussione, penso a quella sulle “imprese culturali e creative”, ma oggi qualora la riforma del Terzo Settore fosse portata a compimento, vi sarebbero sicuramente delle novità di cui tener conto per le imprese culturali che operano all’interno del perimetro degli enti non lucrativi.
Parliamo chiaramente in via ipotetica, sulla base degli schemi dei decreti circolati fino ad ora.
 
Proviamo ad entrare più nel merito: qual è la vera novità, tenuto conto che sempre al 2011 le cosiddette “non riconosciute” erano circa il 67% del totale delle non profit, ovvero 201mila su 301mila?
Analizzando il contenuto del Codice del Terzo settore, sembrerebbe essere stato avviato un percorso volto ad una semplificazione del sistema, come auspicato dalla legge delega approvata ormai un anno fa. Di fatto viene istituita un'unica categoria di enti - cercando di superare la frammentazione esistente - che ricadranno sotto la definizione di “ente del Terzo settore”.
Certo rimane una complessità di fondo, generata anche dalle numerose disposizioni normative che si sono stratificate nel tempo.
 
Perché questa novità può essere di interesse per le imprese culturali?
Fino ad oggi, solo alcune norme speciali facevano riferimento a questo ambito,  mentre il nuovo codice nell’individuare i settori di attività nei quali possono operare gli enti del Terzo settore elenca espressamente gli “interventi di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale e del paesaggio”,  l’“organizzazione e gestione di attività culturali, artistiche o ricreative di interesse sociale” e l’ “organizzazione e gestione di attività turistiche di interesse sociale, culturale o religioso”.
 
C’è altro?
Vi sono delle novità in merito procedura per l’acquisto della personalità giuridica per associazioni e fondazioni - che potrà avvenire mediante l’iscrizione nel registro unico nazionale del Terzo settore -  con riferimento alle agevolazioni fiscali per i donatori, in quanto viene omogeneizzato il regime delle deduzioni e delle detrazioni e riguardo alla normativa speciale, considerato che vengono abrogate alcune delle norme attualmente in vigore quali ad esempio la legge 266/91 che ha istituito le organizzazioni di volontariato, la legge 383/2000 relativa alle associazioni di promozione sociale, e gli articoli del D.Lgs 460/97 che disciplinano le Onlus. Ovviamente il Codice del Terzo settore contiene, comunque, delle previsioni specifiche volte a disciplinare alcune particolari categorie di enti che andranno valutate caso per caso.
Molto interessante il passaggio legato alle operazioni straordinarie in quanto viene espressamente previsto come, gli enti del Libro I del Codice Civile, possano operare reciproche trasformazioni, fusioni o scissioni.  Si tratta di una esigenza che ho visto essere comune a diverse organizzazioni, in particolare il passaggio da una struttura associativa ad una fondazionale, passaggio che tuttavia fino ad oggi presentava delle difficoltà.
 
Sono tutte disposizioni importanti che afferiscono alla tipologia dell’organizzazione e alla loro formalizzazione. Ma per quanto riguarda l’agibilità gestionale, cosa ti pare rilevante della Riforma?
Dipende tutto dalla tipologia di attività che si intendono svolgere e dalle modalità di realizzazione, a seconda che le stesse abbiano una matrice prettamente volontaristica o imprenditoriale. La riforma richiede una lettura complessiva, in quanto non si non si può non considerare anche il decreto che si occupa della revisione della disciplina sull’impresa sociale ex lege, che se fosse confermata l’impostazione attuale, ricomprenderebbe fra i propri settori di attività anche gli ”interventi di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale e del paesaggio”  e “l’organizzazione e gestione di attività culturali, turistiche o ricreative di particolare interesse sociale”.  Un ulteriore strumento a disposizione per chi vuole fare impresa.
 
A proposito di imprese, seppure non profit: sul fronte della gestione delle attività economiche cosa potrebbe cambiare?
Dovrebbero essere introdotte delle novità rilevanti prevedendo per le imprese sociali la possibilità di distribuire limitatamente dividendi, assicurando anche delle agevolazioni fiscali per coloro che effettuano degli investimenti nel capitale, investimento che può avvenire anche attraverso piattaforme di crowdfunding equity based che vedrebbero tra i soggetti abilitati anche le imprese sociali.
 
Però sembrerebbero esserci delle limitazioni sul ricorso al personale dipendente, indispensabile per tentare uno sviluppo più strutturato di una impresa anche se non profit…
Partiamo dall’assunto che, con riferimento alle retribuzioni, dei limiti esistono già. Tra l’altro la riforma stabilisce che i lavoratori degli enti del Terzo settore hanno diritto ad un trattamento economico non inferiore a quello previsto dai contratti collettivi e che la differenza retributiva tra lavoratori dipendenti non può essere superiore al rapporto uno a sei.
Quanto alla percentuale del personale dipendente – in proporzione agli associati/volontari – credo che, sulla base di quanto previsto dal testo del decreto, sia un limite applicabile solo alle associazioni di promozione sociale ed alle organizzazioni d volontariato. Non mi pare fra l’altro sia una novità assoluta, se guardiamo alla la legge 383/2000 che attualmente disciplina le Aps, stabilisce già adesso come questi enti possano assumere lavoratori dipendenti in caso di “particolare necessità’”, cosa che in qualche modo evidenzia anche la legge 266/91.
E’ tutto molto relativo, dipende dall’ottica con la quale si valutano le questioni. Se leggiamo lo schema del decreto sull’impresa sociale, dice esattamente il contrario: il numero dei volontari non può essere superiore a quello dei lavoratori.
 
Quindi si va verso un riconoscimento della “pubblica utilità” delle imprese e delle organizzazioni culturali non profit?
Diciamo che tale riconoscimento è in qualche modo insito nella definizione stessa di ente del Terzo settore, quando si parla di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale mediante lo svolgimento di una o più attività di interesse generale, che come dicevo possono essere realizzate anche in ambito artistico, ricreativo e culturale.
Tuttavia sul punto credo che vada fatta una riflessione non tanto sulla mission degli enti, ma piuttosto sull’impatto che sono in grado di generare. Quello della misurazione e della valutazione dell’impatto è ormai un tema all’ordine del giorno, che rappresenta una grande sfida anche per tutte le organizzazioni e le imprese sociali e culturali.
 
Questa è un’altra questione molto interessante: una bella sfida per le non profit, come sostiene Zamagni. Però se le non profit culturali riescono ad affiancare e in alcuni casi sostituire lo Stato nella produzione di impatti sociali attraverso le molteplici forme di produzione culturale (dalla danza alla fruizione dei musei), in che maniera la Riforma consentirà il sostegno pubblico a quelle iniziative che – seppur non profit – possano dimostrare di essere davvero di “pubblica utilità” e che il mercato privato non è sufficiente a rendere sostenibili?
Il fatto che il Terzo Settore vada a presidiare ambiti “dove lo stato non arriva”, per citare un libro di qualche anno fa, è un dato di fatto tuttavia pensare che il futuro di queste organizzazioni dipenda dal sostegno pubblico forse può essere fuorviante.
Certo vi sono delle novità interessanti - penso al “social bonus” che attribuisce un credito d’imposta per le erogazioni liberali effettuate in favore degli enti del Terzo settore che intendono sostenere il recupero degli immobili pubblici inutilizzati o al decreto approvato in febbraio riguardante la concessione di finanziamenti e agevolazioni in favore delle imprese che operano nell’ambito dell’economia sociale - ma la partita della sostenibilità va giocata su un altro tavolo.
 
Che margini ci sono per ulteriori integrazioni, allo stato attuale? Eventuali suggerimenti e osservazioni che stanno emergendo dal dibattito di operatori ed esperti potranno contare su qualche forma di ascolto?
Rimanendo nell’ambito del Codice Civile mi chiedo ad esempio dove dovranno essere collocati i comitati, che non vengono in alcun modo citati, o “gli altri enti di carattere privato” quali ad esempio i trust che in passato la stessa agenzia delle entrate aveva ritenuto addirittura idonei ad ottenere la qualifica Onlus.
Da capire inoltre come sarà realizzato, concretamente, il passaggio dai numerosi registri esistenti al registro unico previsto dal codice e che destino toccherà ai soggetti che rimarranno fuori dal perimetro degli enti del Terzo settore.
Di certo l’applicazione del nuovo impianto normativo porrà diversi temi, sia sul piano civilistico che fiscale e temo che i nodi da sciogliere saranno diversi.
 
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