Italia Non Profit - Ti guida nel Terzo Settore

Resilienza dal paesaggio a Messina

  • Pubblicato il: 15/11/2015 - 22:43
Autore/i: 
Rubrica: 
PAESAGGI
Articolo a cura di: 
Paolo Castelnovi

Credete possibile che le case di Messina, sapendo del terremoto che di lì a poco le avrebbe sconquassate, avrebbero potuto starsene tranquille sotto la luna, ordinate in fila lungo le strade e le piazze, obbedienti al piano regolatore della commissione edilizia municipale. Case, perdio, di pietra e travi, se ne sarebbero scappate! Così l’Uomo dal fiore in bocca di Pirandello.
Invece i messinesi no. Non scappano. Ricostruiscono la città dove il terremoto aveva squassato quella precedente
 
 
Ci sono ragioni (e sensi) per rimanere che vanno al di là delle case e della città.
Gibellina distrutta nel 1968, e due secoli e mezzo prima Noto, Avola, sono state ricostruite in altri posti, dopo mille discussioni; Catania invece è stata rifatta dov’era per scelta del consiglio dei cittadini, che nel 1693 hanno riconosciuto nel porto, nel rapporto con il mare, nella qualità dell’aria e delle viste che il luogo offriva, le ragioni per continuare ad abitare, tra le rovine del terremoto, a patto di rifare la città con ampie vie e piazze.
Dunque non sono le cose, le case, e neppure la forma urbis a provocare la nostalgia primaria, il senso di mancanza che provoca scelte arrischiate come rimanere dove sono morti tragicamente i propri cari. 
Emerge in questi casi un nesso fondamentale nel rapporto tra le comunità e i luoghi, quel rapporto che chiamiamo senso del paesaggio, che si stabilisce su aspetti profondi, spesso così profondi da essere dimenticati nelle pratiche quotidiane, nelle decisioni che poi fanno l’aspetto della città e determinano le scelte e i comportamenti dei suoi abitanti.
Ad esempio, non c’è dubbio che per le città mediterranee il porto è sostanza primaria del senso di identità e di appartenenza dei cittadini (oltre che fonte principale di lavoro nei secoli)… ma, oggi, il porto nelle grandi città portuali è tagliato fuori dalla fruizione, è invisibile e addirittura il mare è inaccessibile: guarda Napoli, Palermo, Messina stessa. A Genova c’è voluto Renzo Piano e 10 anni di pressioni per aprire cancelli militarizzati da un paio di secoli, per ricongiungere il centro storico con i moli. Una volta riaperto il nesso fisico tra città e porto scatta come una molla compressa: una sorta di festa collettiva, un’euforia da fine della guerra, che a Genova ormai traina da tempo il lancio turistico dell’intera città.
E’ la scoperta di una risorsa nascosta, un tesoro archeologico che giace sepolto alle fondamenta della relazione tra città e comunità abitante e che può essere alla base di una ri-forma urbana: è la resilienza del paesaggio. E’ la capacità di un luogo e dei suoi abitanti di mantenere i propri valori di riferimento attraverso eventi e trasformazioni, che alterano la situazione contestuale imponendo un assestamento della relazione, senza mettere in crisi la struttura fondamentale, che rimane capace di generare bellezza, piacere e senso di identità, se la si sa rimettere in assetto.
Proprio perché sepolto, è un tesoro di cui spesso non si ha consapevolezza: occorre un processo di riconoscimento. E’ un lavoro complesso perché non attiene alle evidenze, alle risultanze oggettive ma va realizzato come una sorta di avventura esistenziale collettiva, quasi una progressiva scoperta psicoanalitica.
In questa strategia operativa ci sono molti punti di contatto con i processi attivati per la percezione del rischio. Anche in quel caso si tratta di risvegliare una capacità di attenzione rispetto a fenomeni (catastrofici) che non sono evidenti, anzi che spesso non sono più neppure impressi nella memoria collettiva, perché con tempi di ritorno secolari, più lunghi di una vita. Oppure si tratta di criticità sotterranee, come un acquedotto che serve una città in una condotta che attraversa zone franose, e che se si rompe asseta 250.000 abitanti, come appunto in questi giorni a Messina.
Sia per la percezione del rischio che per il senso del paesaggio si tratta di un lavoro culturale e politico da fare sui fattori di resilienza del territorio: va rimossa la rimozione del senso del rischio e del bello che ha consentito lo scempio attuato dalle ultime due generazioni; deve tornare scandalosa e intollerabile la trascuratezza delle regole elementari per abitare. Anche i bambini devono ripetere, come in una filastrocca, che chi per far case o far meno fatica tappa il tratto finale dei corsi d’acqua, chi fa muri contro terra in pendii franosi, chi incendia i boschi è come i due porcellini improvvidi: il lupo (la natura) se li mangia. E la città deve sapere che rischia di essere inghiottita insieme ai porcellini che l’hanno rovinata.
Ma per il paesaggio la ricognizione nel senso profondo del nostro rapporto con la terra non ha l’obiettivo difensivo della percezione del rischio, ma quello propositivo di mettere a frutto potenzialità sinora inespresse, risorse inutilizzate. Per il paesaggio il riconoscimento non può essere separato da una dose massiccia di progettualità: il passato si risveglia solo con una promessa di futuro (come insegna baciare le Belle Addormentate).
 
A queste e ad altre indicazioni importanti si è arrivati proprio a Messina, dove Marina Arena ha organizzato lo scorso 22 ottobre un importante convegno, voluto dalla Giunta del Sindaco Accorinti per lanciare il nuovo Piano regolatore, all’insegna appunto della resilienza del territorio. La resilienza non è tema dettato dall’urgenza. Nel Piano, che si avvale della supervisione di Carlo Gasparrini, ci si propone di sperimentare nuove regole per gestire una città proprio a partire da una nuova considerazione della resilienza, da utilizzare come terapia fondamentale, come stile di vita dei cittadini e delle scelte degli amministratori. E’ un tema da declinare in molte articolazioni strategiche, e non certo da usare solo come cerotto per sanare le piaghe più urgenti (solo per coincidenza il convegno, pensato da tempo, si è tenuto poco prima delle frane di questi giorni, ma comunque tutti siamo memori di quelle tragiche di Giampilieri).
Quello di Messina potrebbe essere un laboratorio straordinario a livello nazionale, un esperimento di cui l’urbanistica italiana ha disperato bisogno, ormai allo stremo delle energie vitali che l’avevano animata 50 anni fa.
Non si tratta solo di una prospettiva per tecnici e addetti all’urbanistica, ma di una palestra politica che potrebbe svolgere un ruolo importantissimo nel riavvicinare gli abitanti alle scelte che ogni giorno si fanno per la città, nel suscitare dibattito sui progetti davvero dei cittadini, da provare a Messina, uno dei luoghi più belli del mondo, che però nessuno ha mai visitato, che nessuno conosce, di cui si sente parlare solo per l’idea del Ponte sullo Stretto o per i disastri delle frane.
Nel Piano si potrebbero riconoscere criteri forti per valutare le nuove (e le vecchie) trasformazioni. Non solo arricchendo l’idea ormai consolidata delle attenzioni da porre nelle zone a rischio idrogeologico, ma riscoprendo i valori di fondo che costituiscono la bellezza trascinante dello Stretto. Ad esempio se si scoprisse che un fattore potente del piacere di abitare in questi luoghi è la percezione del rapporto tra mare e versante costiero, lo stare nella posizione che Calvino definisce “dall’ubago” (cioè nell’ombra e con le spalle coperte dal monte a fronte della luminosità del mare), dovremmo per forza cercare una modalità diversa da quella dei palazzotti condominiali snodati lungo la strada di costa, che soddisfano pochi fortunati e impediscono a tutti gli altri di godere dell’ecotono paesistico più affascinante che ci sia: quello tra acqua e terra.
Un altro esempio: potremmo scoprire che la situazione naturale di Porta in cui si trova Messina può diventare un fattore identificativo fondante la nuova immagine della città. Ma per ottenere questi risultati non dovremmo pensare al Ponte, che impone al passante di tagliar via la città come se del ponte fosse un pilastro inerte, ma dovremmo ripensare la forma urbana di una parte significativa del centro. Dovremmo scomodare il pensiero disegnante di Juvarra, che (forse non a caso) è il più grande plasmatore di città a partire dalle porte, impostate a Torino non per chiudere ma per aprire verso l’esterno, per accogliere.
Dunque la scoperta dei fattori resilienti non è lavoro per vecchi, non può consistere in una difesa passiva, a riccio, che non chiede altro che pazienza e tenacia. Al contrario la resilienza del paesaggio A Messina si racconterà come l’Odissea: un’infinita avventura dell’innovazione e della modernità a riprendere i valori e i riferimenti più sani ed essenziali per abitare questo territorio, che, nelle soluzioni adottate sinora, nella buona o nella cattiva fede, sono stati traditi e calpestati.
 
© Riproduzione riservata