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Può esserci sviluppo senza cultura? Un’analisi dei “low skilled” italiani

  • Pubblicato il: 15/10/2018 - 00:03
Rubrica: 
STUDI E RICERCHE
Articolo a cura di: 
Valentina Montalto
Che il livello di competenze e qualifiche sia piuttosto basso tra i cittadini italiani è verosimilmente intuibile. Ma quando una rigorosa ricerca internazionale, con numeri alla mano, mostra la situazione disastrosa in cui versa l'Italia, in cui si contano 11 milioni di "low skilled", forse dovremmo cominciare a capire che dall'intuizione sarebbe anche ora di passare all'azione, per cambiarla questa situazione invece di continuare a guardarla e ad accettarla con compassione.

La ricerca, a cura dall'INAPP (Istituto nazionale per l'analisi delle politiche pubbliche)  disponibile qui, analizza i dati dell'indagine internazionale OCSE-PIAAC[1] (Programme for the International Assessment of Adult Competencies) per capire come le competenze sono distribuite tra la popolazione italiana.
Primo dato tra tutti: il problema dei low skilled[2] è in realtà drammaticamente presente in tutti i Paesi che hanno partecipato all'indagine OCSE-PIAAC[3], anche se con importanti differenze: se il Giappone è il Paese con la percentuale più contenuta (4,9%), in Italia e Spagna il fenomeno supera il 25% della popolazione 16-65 anni, a fronte di una media OCSE pari al 15,5%.

Competenze per regioni, genere e età
Confrontando la distribuzione geografica delle persone con alte e basse competenze, si nota l'alta concentrazione di low skilled nel Sud e nel Nord-Ovest del Paese che da sole ospitano più del 60% dei low skilled italiani. Le percentuali di low e high skilled hanno però andamenti opposti a livello regionale: laddove c’è un’elevata presenza di low skilled si rileva, per contro, una percentuale di high skilled piuttosto bassa e viceversa. Il Nord-Ovest fa eccezione: qui risiedono infatti oltre il 30% dei low skilled italiani, ma anche circa il 30% dei best performer.
Le distribuzioni cambiano anche in funzione del genere e dell'età. In generale, troviamo la più alta percentuale di cittadini maschi sia nella categoria low skilled (in tutte le classi d’età, tranne che nella fascia over 55) sia tra gli high skilled (in ogni fascia d’età). Le percentuali di low skilled crescono inoltre al crescere dell’età, concentrandosi per lo più nelle fasce d’età più avanzate (il 31,8% ha un’età compresa tra i 55 e i 65 anni). Purtroppo però le percentuali rilevate nelle fasce più giovani della popolazione sono tutt’altro che trascurabili: il 9,6% dei low skilled italiani ha un’età compresa tra i 16 e i 24 anni e quasi il 15% appartiene alla fascia di età 25-34 anni. Il Giappone è l'unico paese che fa registrare le più basse percentuali di low skilled in ogni fascia di età. In Francia, invece, basse competenze e basso titolo di studio sembrano essere in gran parte riconducibile a fattori generazionali: il 67% dei low skilled con bassa scolarità ha 55 anni o più e le percentuali decrescono al decrescere dell’età.
 
Il titolo di studio migliora le competenze?
In generale, il titolo di studio riduce la probabilità per un individuo di collocarsi entro la categoria dei low skilled, i quali, infatti, diminuiscono notevolmente tra la popolazione con titoli di studio medio-alti. Il 75% delle persone con bassi livelli di competenza in Italia ha un titolo di studio inferiore al diploma. Resta il dato, affatto irrilevante, che il 20,9% di queste persone possieda un diploma e il 4,1% addirittura una laurea.
Confrontando lo stesso dato a livello internazionale, ritroviamo tra i diplomati francesi la più alta percentuale di low skilled (25,4%). Negli USA, il 20% dei diplomati sono low skilled, mentre in Giappone i diplomati low skilled sono solo il 5%.
Il panorama cambia però radicalmente se si analizzano i titoli di studio di livello elevato (laurea o superiore): in questo caso il dato italiano (9%) è il più alto, seguito dall’8,2% della Spagna. In Francia i laureati che rientrano tra i low skilled sono il 4,6% (percentuale quasi identica a quella degli USA: 4,4%). Il Giappone si distingue nuovamente con solo l’1,1% di low skilled tra i laureati.
 
La formazione può appianare il divario?
In generale, gli high skilled partecipano (o avrebbero voluto partecipare) molto di più ad attività di formazione rispetto ai low skilled. Sostanzialmente gli high skilled hanno almeno il doppio di probabilità di partecipare ad attività formative rispetto a chi è low skilled, ad eccezione dell'Italia che, nonostante il vantaggio competitivo offerto dall’istruzione e formazione in termini di competenze, presenta la percentuale più bassa di partecipazione ad  attività di formazione, rispetto a tutti gli altri Paesi coinvolti nell’indagine (24,3%).
 
È inoltre interessante notare che tra le motivazioni che limitano l’accesso alle attività di formazione, sostanziali differenze tra i due gruppi si riscontrano per quel che concerne la mancanza di sostegno da parte del datore di lavoro. Nel caso delle persone con bassi livelli di competenza, la formazione viene infatti pagata interamente dal datore di lavoro nel 61,2% dei casi, mentre per gli high skilled solo nel 36,8%.
 
La scala sociale…che non funziona
Gli effetti del background socio economico sui risultati ottenuti dagli studenti sono ben noti, soprattutto in Italia. Nel nostro Paese ben l’86% dei low skilled proviene da contesti familiari “svantaggiati” dal punto di vista educativo, in cui, nessuno dei due genitori ha raggiunto un titolo di istruzione secondaria superiore (diploma). Nella media dei Paesi partecipanti a PIAAC (Primo Round) questo dato è di poco superiore al 50%. Di contro il 54% degli high skilled proviene da famiglie in cui almeno un genitore ha un titolo di studio pari o superiore al diploma e il 21,1% da famiglie in cui almeno un genitore è laureato. Solo il 2,4% dei low skilled ha almeno uno dei due genitori laureato.
Inoltre, i low skilled provengono maggiormente da contesti familiari in cui erano presenti un numero limitato di libri. Questo dato è particolarmente accentuato in Italia, dove ben il 72,6% dei low skilled è cresciuto in una famiglia in cui erano presenti meno di 25 libri. D'altro canto, solo il 20% degli high skilled proviene da un contesto culturale più svantaggiato (meno di 25 libri), mentre quasi la metà degli high skilled proviene da contesti familiari dotati di maggiore ricchezza culturale (più di cento libri).
 
Competenze come driver di occupazione
Per quanto riguarda la condizione occupazionale, poco più della metà (50,7%) dei low skilled in Italia risulta occupato, il 10,3% circa risulta disoccupato e quasi il 39% non appartiene alle forze lavoro. Come spiega il rapporto, l'alta percentuale di occupati fra i low skilled può essere spiegata con l’alta incidenza, fra questi, di giovani che escono dai percorsi formali senza aver acquisito dalla scuola livelli di competenza adeguati, portandoli verso occupazioni di basso profilo.
Tra gli high skilled si rileva una percentuale notevolmente superiore di occupati (72,3%) e quasi il dimezzamento delle persone che rientrano nella categoria non forza lavoro (21%) dovuto principalmente ad una percentuale molto ridotta di pensionati (1%) e casalinghe/i (2,7%).
Il possesso di un adeguato bagaglio di competenze si delinea dunque quale driver per la partecipazione attiva al mondo del lavoro. Di fatto i low skilled sono occupati in percentuali significativamente più basse rispetto agli high skilled e sono con maggiore frequenza, esclusi dalla popolazione attiva.
 
Conclusioni
Quali politiche per un Paese con così tristi primati? Colpisce, nella lettura dei dossier pubblicati in preparazione alle prime indagini OCSE sulle competenze, l'originalità di alcune affermazioni, tra cui l'idea secondo cui un sistema di apprendimento non può essere imposto, ma "deve essere il risultato dell’agire di tanti e diversi soggetti che si mettono in gioco nelle istituzioni formative, negli ambienti di lavoro e in tutti i luoghi che la socialità esprime. Questo perché, se i sistemi educativi formali rivestono un ruolo insostituibile nel fornire la base, solo l’uso continuo nelle attività quotidiane mantiene livelli adeguati di competenza". Ecco che la cultura non soltanto come "fonte" di competenze ma anche come forma mentis  può cambiare l'appetibilità delle competenze logico-cognitive, giocando ancora una volta, un ruolo fondamentale per lo sviluppo (sostenibile) del nostro Paese.
 
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[1] Il Programma PIAAC (Programme for the International Assessment of Adult Competencies), promosso dall’OCSE tra il 2008 e il 2010, è nato con l’obiettivo di definire una strategia di intervento sulle competenze degli adulti, considerate un pilastro, non solo per l’acquisizione di ulteriori competenze di tipo trasversale e specifico, ma anche per poter vivere e lavorare nel XXI secolo.
[2] Un low skilled nell’indagine OCSE viene definito tale se non è in grado di usare in modo efficiente le competenze/abilità alfabetico o numerico funzionali per affrontare i compiti posti dalla vita quotidiana in diversi ambiti: lavorativo, del tempo libero, nella gestione dei propri risparmi, dei consumi o nella tutela della propria salute.
[3] "L’importanza delle competenze. Ulteriori risultati dell’indagine sulle competenze degli adulti" (OCSE, 2013) è il titolo dell’ultima pubblicazione che l’OCSE dedica al Secondo Round dell’indagine PIAAC. Il Primo Round, svolto tra il 2011-2012, ha coinvolto 24 Paesi cui si sono aggiunti altri 9 Paesi nel Secondo Round (un Terzo Round, che include altri 6 Paesi, è attualmente in corso).