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PIANI PER PIANO

  • Pubblicato il: 16/03/2015 - 13:44
Autore/i: 
Rubrica: 
OPINIONI E CONVERSAZIONI
Articolo a cura di: 
Paolo Castelnovi

Per quale ragione, o malia, l’argomentare di Renzo Piano sulle periferie riscuote un plauso unanime? La domanda diventa intrigante se si aggiunge: perché sinora gli allarmi e gli appelli drammatici sulle stesse periferie, invocati da generazioni di urbanisti, sociologi e ingegneri sono stati per decenni trascurati dal dibattito politico e relegati a questioni tecniche e specialistiche?
 
Ci sono molte risposte. Le più ovvie: l’autorevolezza del proponente, la tribuna del tutto particolare del seggio senatoriale, i tempi maturi per rendere politicamente comprensibile il tema. Ma queste risposte, pur valide, non bastano a spiegare il tono dell’approvazione, l’entusiasmo e la partecipazione che sembrano propagarsi.
 
Può essere che ci piace sentire un discorso progettuale, la proposta di un modo di fare collettivo, invece che l’ennesimo pianto sulle malefatte, l’invocazione di moratorie, di divieti e di blocchi?
 
Può essere che risveglia il sogno di poter restituire alla città luoghi per una società rispettosa dello spazio pubblico, ritenuto bene comune senza tanti proclami, dove ai bambini s’insegna a non gettare per strada le carte delle caramelle?
 
Può essere che ci piace sentire come possibile un ventaglio di azioni, soprattutto piccole, senza archistar, mirate in primo luogo alla piacevolezza, all’accessibilità, alla dignità degli spazi urbani, in generale impegnando poco le finanze pubbliche e molto il volontariato e la capacità di gestione locale?
 
Può essere che l’uso di termini da zia di campagna, come rammendo, fecondazione, fertilizzazione, evochi l’illusione di poter affrontare il problema con le nostre buone volontà e competenze ordinarie, con pratiche domestiche, quotidiane, ormai desuete ma recuperabili in qualche manuale per il bravo cittadino, come quello dei consigli per la buona massaia?
 
Probabilmente la seduzione gentile e giudiziosa del programma di Piano scaturisce da una miscela di questi aspetti, muove dalla nostalgia gradevole della forza tranquilla e della speranza normale e diffusa che permeava il dopoguerra e gli anni del boom, quando ciascuno si sentiva chiamato a dare e ricevere il proprio contributo a e da una società operosa e pacificata.
Piano sembra capace di animare i cittadini di buona volontà, di stimolarli a comportamenti progettuali attivi, a rimuovere la depressione che serpeggia nell’Italia del 2000. E’ una partenza piaciona, soprattutto perché non agita una visione utopistica e grandiosa, ma ricorre al basso profilo delle proposte operative per tenerle alla portata di tutti, per costruire una presunzione di capacità autonome anche dove la forza realmente è molto modesta e di breve fiato.
 
Ovviamente è proprio nel rischio di millantare effetti ottenibili con poco che sta il punto di fragilità dell’intero disegno. Il nodo è riassunto nella stupenda sintesi di Calvino che è stata posta all’inizio del numero 1 di Periferie, il manifesto del progetto di Piano: ci sono frammenti di città felici che continuamente prendono forma e svaniscono, nascoste nelle città infelici.
Le periferie non sono state fatte per far abitare bene, per produrre felicità, è evidente. Ma nessuno se n’è accorto, forse perché i nuovi quartieri sono stati presentati come magazzini di case, e le case sono state presentate come macchine per vivere bene, dotate di confort, di spazio, di servizi. Da molti anni ciò che sta intorno alle case (quello che in termine tecnico chiamiamo “città”) è stato trascurato. Se un imprenditore furbetto riusciva con un trucco a non fare verde e parcheggi intorno alla sua casa, nessuno se ne accorgeva: gli alloggi erano venduti come gli altri. Ma se nella casa il bagno (anzi: i bagni) avevano piastrelle poco lussuose o mancava lo spazio per una cucina superdotata, allora il mercato declassificava la casa ad un rango inferiore.
 
Da almeno due generazioni il gusto, il piacere dell’abitare, il senso di identità si sono spostati dentro le abitazioni, mentre prima contava il quartiere, il vicinato, la via e gli affacci. L’uso totalizzante dell’auto privata ha ridotto lo spazio comune ai tratti tra parcheggio e destinazione, più corti possibile. E’ praticamente scomparso il piacere del passeggio, del contatto diretto tra persone e con gli spazi dell’incontro imprevisto, della curiosità quotidiana: un piacere che sopravvive nella riserva indiana dei centri storici, pedonalizzati e imbellettati in modo da sembrare centri commerciali (naturali, li definisce la legge!). Mancando questi piaceri scompare nelle periferie il senso di responsabilità civica generato dal senso di appartenenza ad un ambito territoriale definito e conosciuto, in cui vale la pena stare attenti a non rovinare gli arredi e a tenere pulito, come con i pavimenti di casa propria.
D’altra parte il turn over dei residenti, spesso in cerca di migliore localizzazione, tende a non farli mai diventare abitanti, cioè compiaciuti delle abitudini date dai comportamenti urbani consuetudinari. E chi è di passaggio non si impegna ad abbellire il ricovero che lo ospita. Anzi, se viene trattato male, se la prende con le cose, con una forma di luddismo territoriale che ormai è epidemica nelle periferie metropolitane.
 
Così la città mal fatta ha generato una società frammentata e infelice, molto meno potente e capace di agire a titolo collettivo di quanto non fosse 50 anni fa. Questo è il rischio: che il blob della periferia (e della società autistica che vi risiede) inghiotta le mille iniziative puntuali e delicate che speriamo si sviluppino sulla spinta degli entusiasmi innescati dal programma di Piano.
 
Di fronte a questo pericolo serio occorre una strumentazione innovativa di governo del territorio, non basta la disponibilità ad aprire il portafoglio come si farebbe di fronte ad un progetto interessante di volontariato.
Il governo vanta il ritrovamento di 200 milioni per questo tipo di iniziative sulle periferie. E’ un’innovazione rispetto al deserto di finanziamenti degli ultimi anni, quando solo qualche progetto europeo ha portato qualche investimento nelle nostre città. Ma l’investimento avrà senso solo se i fondi saranno costanti, molto distribuiti (ad esempio su 100 casi all’anno), ma non saranno considerati dalla amministrazioni locali una goccia nel mare delle necessità manutentive delle città in crisi.
 
Qui sta il vero nodo: come possono investimenti di frazioni di milione agire da moltiplicatore e impedire il riassorbimento di iniziative locali, quando realizzare un qualunque progetto di rigenerazione urbana costa molte decine di milioni e spesso rimane un’isola incapace di generare effetti all’intorno? Manca un quadro di riferimento che consenta di individuare i punti nevralgici su cui intervenire, perché, come fa il maestro di karate, si deve ottenere il massimo risultato dirompente con forze modeste ma concentrate.
 
A dispetto del nome, Piano si vanta di essere un progettista artigiano, che affronta con creatività ma concretamente e ad hoc ogni tema da sviluppare. Questa matrice lo porta a diffidare da ogni impostazione strategica, di inquadramento, di piano, appunto. Quando predispone un progetto a grande scala lo chiama Affresco (come a Genova), disegnandolo secondo una visionarietà che si affida alle immagini anche per veicolare contenuti sociologici, psicologici, politici.
 
E’ un’impostazione che certamente raccoglie fans anche tra gli addetti alla gestione del territorio, che non ne possono più di piani che danno regole slegate dai luoghi e che si preoccupano di trattenere piuttosto che di promuovere. Ma certo oggi, di fronte a questa sfida alle Periferie-Golia, il progetto-Davide di Piano non può mancare il colpo. Ha bisogno di una conoscenza del corpaccio del gigante che porti a centrare con precisione i plessi che consentono di amplificare gli effetti degli interventi. E in questa direzione la sensibilità e le tecniche (anch’esse artigianali, ma di un altro artigianato) di chi si occupa di pianificazione (urbanistica, strategica, paesistica) potrebbero essere preziose.
 

 
 
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