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Il sistema museale nazionale nell’onda della riforma

  • Pubblicato il: 26/02/2016 - 11:02
Autore/i: 
Rubrica: 
OPINIONI E CONVERSAZIONI
Articolo a cura di: 
Ledo Prato

La recente riforma Franceschini interpella il sistema museale statale ma, allo stesso tempo, pone nuove sfide anche alla rete dei musei civici che dovranno ricollocarsi in uno scenario che si va costruendo. Una lettura di Ledo Prato
 
 
La recente riforma dei musei statali promossa dal Ministro Franceschini ha generato un dibattito a tratti molto aspro. Soprattutto ha posto questioni importanti relativi al ruolo e alle funzioni degli stessi musei in relazione con il territorio e quindi con gli altri soggetti pubblici e privati proprietari/gestori di musei. Vediamo innanzitutto quale è il quadro di riferimento. Con l’ultimo censimento l’ISTAT ci fornisce i dati relativi al sistema museale nazionale. Su circa 3900 musei, 431 sono statali, circa 2000 sono civici, poco più di 1000 sono privati e circa 400 sono ecclesiastici. I dati sono per difetto perché, ad esempio, alcuni monumenti ospitano musei che non sono censiti in quanto tali e così via. Il numero complessivo dei visitatori ha superato i 100 milioni e di questi più di 40 sono riferiti ai musei dello Stato (dati 2015). Un’ultima annotazione. Ci sono 133 musei statali che registrano fino a 5.000 visitatori l’anno e altri 141 arrivano fino a 20.000. Si tratta per lo più di musei collocati in città medie o minori o anche in città grandi ma al di fuori dei circuiti turistici più frequentati. Di questo torneremo ad occuparci più avanti.
Con la riforma i musei statali vengono organizzati secondo un duplice schema: da una parte 30 musei e aree archeologiche dotati di una speciale autonomia ed affidati ad un Direttore scelto con un bando pubblico internazionale; dall’altra tutti gli altri (o quasi) sono assegnati ai 17 Poli museali regionali, articolazioni periferiche della Direzione generale Musei, con a capo un Direttore.
 
Fermiamoci su questa seconda modalità organizzativa adottata dalla riforma. I Poli sono strutture aperte nel senso che, accanto ai musei statali, possono comprendere anche quelli appartenenti ad altri soggetti pubblici e privati. Nel decreto non sono indicate le procedure con cui si può realizzare l’adesione al sistema ed è verosimile che queste saranno precisate con successivi atti. A margine è utile sottolineare due elementi. Le funzioni assegnate al Direttore dei Poli sono molteplici e complesse (comma 1, art. 34 DPCM 171/2014). In alcune regioni le dimensioni dei Poli (Emilia, Toscana e Lazio) sono tali per cui è legittimo domandarsi se e come i Direttori potranno esercitare tutte le funzioni che gli sono assegnate. E, come detto, il numero dei musei associati può ancora crescere.
 
Quest’ultima considerazione ci introduce al tema delle relazioni fra i musei pubblici (statali, regionali, provinciali e comunali) e fra questi e quelli privati ed ecclesiastici. Dai dati richiamati si può facilmente comprendere l’entità del problema anche dal punto di vista quantitativo.
Soffermiamoci in particolare sui rapporti fra musei statali e musei civici. Prima una considerazione di quadro. Negli ultimi dieci/quindici anni abbiamo assistito a profonde trasformazioni del sistema museale dei Comuni, soprattutto dal versante dei modelli di gestione ma anche dei contenuti e delle modalità con cui si offrono ad un pubblico crescente. Grazie anche ad una legislazione favorevole, soprattutto nel decennio precedente al nostro, si sono moltiplicate le esperienze che hanno portato all’autonomia gestionale di molti musei, alla creazione di Fondazioni, Aziende speciali e così via che hanno spostato in avanti la frontiera dell’innovazione, migliorando la fruizione, la sostenibilità economica, l’offerta culturale, generando un incremento notevole di visitatori.
Un fenomeno a macchia di leopardo, più evidente in alcune aree del Paese (le grandi città metropolitane), meno evidente soprattutto nelle città medie e piccole dove però non sono mancate esperienze innovative come, ad esempio, la costituzione di reti territoriali museali o accordi di partenariato con privati profit e, soprattutto, no profit, con lo scopo di affrontare la delicata questione della sostenibilità della gestione dei musei in una fase di tagli dei trasferimenti dallo Stato ai Comuni. Un patrimonio quindi di esperienze innovative dal punto di vista gestionale che è rimasto entro i confini delle autonomie locali poiché il sistema statale, fino ad ora, era rimasto ancorato ad un modello di gestione diretta dei musei affidati alla cura delle Soprintendenze locali.
L’ultima innovazione, ma anche forse la sola di rilievo in ambito gestionale, risale al 2004 con la Fondazione del Museo Egizio di Torino, costituita da Stato, Regione Piemonte, Provincia e Comune di Torino, Fondazione CRT e Compagnia di San Paolo.
 
Un disallineamento quindi di modelli ed esperienze che ha avuto un impatto notevole sui rapporti fra le istituzioni museali nelle città e nei territori, ad esempio, nelle politiche di valorizzazione, nella programmazione di mostre ed eventi, nella organizzazione dei servizi al pubblico, orari, tariffe, gratuità e così via. Anche in questo caso sono poche le eccezioni e si riferiscono ad alcune città dove è stato possibile trovare accordi su aspetti puntuali come le card museali.
Ora la situazione può cambiare e radicalmente, anche se ci vorrà del tempo. Musei autonomi dalle Soprintendenze, e la stessa organizzazione in Poli regionali, possono favorire le relazioni con le diverse forme di autonomia che hanno assunto i musei civici e porre le basi per la realizzazione di politiche  museali territoriali che ricompongono l’offerta a vantaggio dei cittadini e dei visitatori.
Potrebbe essere esattamente il tempo giusto per costruire una politica museale concertata, coordinata su scala territoriale, purché le parti pubbliche riscoprano il vecchio e mai superato principio della leale collaborazione.
Vediamo alcune delle strade possibili. Alcuni ambiti di collaborazione fra istituzioni museali pubbliche – ma i privati non sono esclusi – sono indicati dallo stesso DPCM 171/2014 che riprende alcune delle norme del Codice dei beni culturali. In particolare alla lettera o) del comma 1, art. 30, fra le funzioni assegnate al Direttore del Polo regionale, si indica “la promozione, la definizione e la stipula, nel territorio di competenza, degli accordi di valorizzazione di cui all’art. 112 del Codice, su base regionale o subregionale, in rapporto ad ambiti territoriali definiti, al fine di individuare strategie ed obiettivi comuni di valorizzazione nonché per elaborare i conseguenti piani strategici di sviluppo culturale e i programmi, relativamente ai beni culturali di pertinenza pubblica, promuovendo altresì l’integrazione, nel processo di valorizzazione, delle infrastrutture e dei settori produttivi collegati; a tali fini definisce intese anche con i responsabili degli Archivi di Stato e delle biblioteche statali aventi sede nel territorio regionale”.
In altri termini il Direttore del Polo è indicato come il soggetto che promuove, su scala territoriale, gli accordi di valorizzazione, riferiti a musei, monumenti e aree archeologiche, e l’elaborazione dei piani strategici di sviluppo culturale in relazione con i settori produttivi connessi con il patrimonio culturale. Il compito è esercitato con riferimento ai beni culturali pubblici e quindi sia statali che civici. La scala territoriale può essere regionale o subregionale. Questa indicazione può essere molto utile per provare a dare alla dimensione organizzativa dei Poli una scala compatibile con un’efficace governance, promuovendo sistemi museali di area vasta con territori definiti. Per quanto il decreto separi le due funzioni (elaborazione dei piani di valorizzazione e  messa a punto dei piani strategici di sviluppo) è di tutta evidenza che si tratta di due fasi di un unico auspicabile processo. Solo in questo modo infatti i musei, i monumenti e le aree archeologiche di un’area vasta potrebbero diventare parte essenziale di un processo di sviluppo strategico, in grado quindi di operare sia sui motori di sviluppo economico, come il turismo (o come l'industria culturale e creativa), sia sui motori di sviluppo sociale, come il welfare. In questo contesto è verosimile che si possano definire meglio politiche comuni fra le diverse istituzioni pubbliche, e fra esse e quelle private profit e no profit, e riorganizzare tutta l’offerta museale utilizzando al meglio le innovazioni che hanno caratterizzato una lunga stagione dei musei civici. In particolare i piani strategici potrebbero essere non solo una occasione per una partecipazione attiva dei cittadini alla costruzione del futuro dei propri territori ma anche una opportunità per ridisegnare lo sviluppo economico e sociale di area vasta, facendo leva sul patrimonio culturale, coinvolgendo tutti gli attori economici e sociali.
 
Resta sullo sfondo un tema molto delicato che il decreto affronta marginalmente, soprattutto perché non indica un percorso chiaro. Mi riferisco al ruolo e alle funzioni di biblioteche e archivi statali che sono chiamati in causa ed associati agli accordi di valorizzazione e ai piani strategici. Un tema che potrebbe estendersi al ruolo delle biblioteche civiche che rappresentano una capillare struttura diffusa su tutto il territorio nazionale. Questo è uno dei nodi da sciogliere.
Il DPCM 171/2014 individua una modalità attraverso la quale può essere organizzata e disciplinata la collaborazione fra istituzioni pubbliche e fra queste e i soggetti privati profit e no profit. Mi riferisco alla lettera p) del comma 1 art. 30 laddove, sempre a proposito dei compiti del Direttore di Polo, recita: “elabora e stipula accordi con le altre amministrazioni statali eventualmente competenti, le Regioni, gli altri enti pubblici territoriali e i privati interessati, per regolare servizi strumentali comuni destinati alla fruizione e alla valorizzazione di beni culturali, anche mediante l’istituzione di forme consortili non imprenditoriali per la gestione di uffici comuni e tramite convenzioni con le associazioni culturali o di volontariato, dotate di adeguati requisiti, che abbiano per statuto finalità di promozione e diffusione della conoscenza dei beni culturali”. La forma quindi è l’accordo su basi paritarie fra i diversi soggetti interessati. Un passo avanti molto importante in un sistema in cui persiste ancora l’idea di uno Stato sovraordinato agli altri livelli dell’ordinamento pubblico. Non solo. Il ricorso possibile alle associazioni e al volontariato per la gestione dei servizi destinati alla fruizione e valorizzazione dei beni culturali, attraverso lo strumento delle convenzioni, è certamente una previsione ma rompe un pregiudizio e può essere un strada possibile per affrontare il tema delicato dei piccoli musei o dei luoghi della cultura chiusi o abbandonati.
 
A questo proposito vale la pena soffermarsi ancora sui piccoli musei. Per lungo tempo è prevalsa l’idea che occorresse una specifica politica per i piccoli musei e, in qualche caso, si è sostenuto che fosse necessaria una legislazione speciale che ne rispettasse le specificità. Probabilmente poteva essere una strada utile. Ma in un Paese dove tutto si ritiene che possa essere affrontato e risolto con il ricorso alla produzione di nuove leggi, con tutto ciò che ne consegue, dubito che sarebbe stata o sia una strada efficace. Potrebbe essere quindi più opportuno utilizzare gli strumenti di cui già disponiamo. Il dispositivo che abbiamo richiamato contiene due elementi che potrebbero essere di interesse per i piccoli musei sia civici che statali. La possibilità di dare luogo a reti museali di area vasta e di istituire forme consortili non imprenditoriali per la gestione di uffici comuni rappresentano opportunità da cogliere almeno per due motivi: innanzitutto perché consente di organizzare reti museali che associano musei a livello territoriale, a prescindere dalla loro dimensione, scongiurando la possibile marginalizzazione dei piccoli musei; la gestione di uffici comuni consente sia di far fronte alla mancanza di personale specializzato, carenza evidente soprattutto nei piccoli musei, sia di migliorare il livello della sostenibilità economica dei servizi culturali.
Con atti successivi è possibile che siano meglio definiti i “servizi strumentali comuni destinati alla fruizione e alla valorizzazione di beni culturali” e si capirà se in questo contesto si potranno immaginare accordi che contemplino l’affidamento congiunto fra musei statali e musei civici dei servizi al pubblico (ex legge Ronchey) o quali saranno le procedure attraverso le quali si potrà pervenire alla costituzione di uffici comuni, obiettivo già inseguito senza successo nelle riforme a cavallo fra i due decenni che ci hanno preceduto. Sarebbe tuttavia utile che, nell’ambito degli accordi fra istituzioni e musei, si riservasse una particolare attenzione ai temi della formazione degli operatori museali e dell’applicazione dei cosiddetti standard museali poiché sono elementi di criticità per molti musei e incidono sulla qualità della fruizione dei luoghi.
 
Relativamente a questi due aspetti importanti della riforma riferiti alla organizzazione e alle funzioni dei Poli museali regionali, possiamo concludere che il Ministero ha inteso indicare uno spettro di possibili collaborazioni fra i titolari di musei, monumenti e aree archeologiche piuttosto che soffermarsi sulle procedure attraverso le quali essi possono aderire ai Poli stessi. Si lasciano quindi ampi margini di iniziativa a livello locale. Inoltre la flessibilità adottata potrebbe consentire di individuare procedure e, soprattutto contenuti ed obiettivi, che consentano di cercare soluzioni coerenti con le esperienze più innovative realizzate, oltre che con le caratteristiche proprie del patrimonio culturale territoriale. Restano aperte tutte le questioni sul futuro dei musei, sul loro ruolo, sulle innovazioni possibili, sul rapporto con i territori e le comunità, sul ruolo dei visitatori e così via ma tutte queste materie saranno verosimilmente oggetto del confronto e della possibile collaborazione fra le diverse istituzioni museali.
Come si vede la riforma, a cui pure non fanno difetto alcune criticità, interpella certo il sistema museale statale ma, allo stesso tempo, pone nuove sfide anche alla rete dei musei civici che dovranno ricollocarsi in uno scenario che si andrà costruendo nei prossimi mesi, e in cui probabilmente niente sarà più come prima. Almeno questo è l’auspicio.
 
 
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