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Siamo indifendibili ma necessari

  • Pubblicato il: 15/06/2018 - 13:00
Rubrica: 
NOTIZIE
Articolo a cura di: 
Alessandro Martini , da Il Giornale dell'Arte numero 386, maggio 2018

Mario Cucinella direttore del Padiglione Italiano alla Biennale di Architettura di Venezia


«L’architetto non è soltanto una star, ma una figura di sintesi, che cerca di vedere oltre, di intercettare i bisogni delle persone e di interpretare la società. Eppure in Italia meno del 10% degli edifici è stato progettato da architetti». 

Mario Cucinella non è un’archistar. Nonostante la direzione del Padiglione Italiano alla Biennale di Architettura di Venezia (la mostra apre dal 26 maggio al 25 novembre) e il successo crescente (uno studio in apertura a New York e progetti in giro per il mondo), all’atteggiamento da guru predilige l’attitudine alla progettazione partecipata.

Perché l’architettura è un «atto creativo collettivo», ci dice, un processo che si realizza compiutamente attraverso l’ascolto. «La condivisione è un momento decisivo: non soltanto per la qualità del progetto, ma per me personalmente».

Nato a Palermo nel 1960, è uno dei protagonisti dell’architettura attenta ai temi della sostenibilità e dell’impatto ambientale. Ed è un visionario, capace di progettare edifici tecnologici e addirittura spettacolari nel loro aspetto formale (sempre però attenti alle esigenze dell’uomo e dell’ambiente) ma anche di proporre la «visione» di un’architettura rivolta al cambiamento sociale (politico?) del mondo. Allievo a Genova di Giancarlo De Carlo («ero un allievo pessimo, confessa: la sua lezione però non l’ho dimenticata e l’ho capita molto tempo dopo») e collaboratore di Renzo Piano (1987-92), con oltre 20 anni di attività professionale e oggi titolare di un grande studio a Bologna (Mca Mario Cucinella Architects), è autore di opere avveniristiche come l’«asilo balena» di Guastalla (Re), il palazzo «bioclimatico» delle Poste di Algeri, la scuola materna a energia solare a Gaza, in Palestina, e la casa per rifugiati in Basilicata, su iniziativa del Nobel per la Pace Betty Williams.

Nel 2012 ha fondato l’organizzazione non profit Building Green Future e, nel 2015 a Bologna, S.O.S. School of Sustainability. Oggi è in prima linea nei programmi per la ricostruzione «WSR-Workshop Ricostruzione Emilia», avviato dopo il terremoto del 2012, e «WSR-Workshop Ricostruzione Camerino», percorso di progettazione partecipata per la città marchigiana. I progetti si moltiplicano, in Italia e all’estero, da Vienna a Tirana. A Roma è in corso la progettazione del Rettorato di Roma Tre a Ostiense; a Milano sono quattro i cantieri aperti, tra cui la Torre Unipol, il nuovo Polo Chirurgico dell’Ospedale San Raffaele e il Museo Etrusco per la Fondazione Luigi Rovati (cfr. Il Giornale dell’Arte n. 370, dic. ’16, p. 6).

Architetto Cucinella, il Padiglione Italiano da lei diretto, intitolato «Arcipelago Italia», è dedicato alle aree interne del Paese, alternative alle metropoli. Perché è urgente mostrare che cosa sta succedendo in quei luoghi?
È urgente, importante e, soprattutto, è utile. Storicamente l’Italia non è un Paese di grandi concentrazioni, ma di città piccole che sono state anche città-stato, in cui l’architettura è da sempre in strettissimo rapporto con le arti, il paesaggio e l’economia. Questo è il modello italiano, che ancora oggi caratterizza il 60% del nostro territorio: è nei piccoli centri, tra tante persone diverse, che sono nate e tuttora nascono le innovazioni importanti. È ciò che vogliamo raccontare. E vogliamo anche mettere in luce fenomeni ben noti, ma mai davvero affrontati e tantomeno risolti, come i vari dissesti, idrogeologici o sismici, che si ripetono periodicamente ma di fronte ai quali l’Italia si trova costantemente impreparata, in balia dell’emergenza. Non sarà però un padiglione sulla ricostruzione, sebbene affronti il tema della temporalità dell’architettura. Pur senza fornire soluzioni precostituite, a cui non credo, parleremo di questioni complesse, tra cui la fragilità e il fallimento della metropoli come modello unico. Non è un caso che dalla Cina vengano a confrontarsi con la nostra tradizione fatta di reti di relazioni, di competitività virtuosa e di rapporto stretto tra luoghi, cultura e innovazione. Certo, oggi molto è cambiato, ma le piccole realtà possono ancora dare risposte rispetto all’abitare e alla sostenibilità, e su temi come prossimità, comunità di vicinato, rapporto con l’ambiente...

A chi si rivolge «Arcipelago Italia»?
In un padiglione che vuole anche essere pedagogico (http://arcipelagoitalia.it), il nostro primo obiettivo sono gli amministratori, spesso impreparati ad affrontare le sfide a cui sono chiamati. Hanno bisogno di aiuto, lo chiedono e non sanno esattamente a chi. È troppo facile limitarsi a criticare lentezze e inefficienze dell’amministrazione. Gli architetti hanno anche una responsabilità professionale e sociale. Nel Padiglione italiano cerchiamo di fornire idee e qualche suggerimento di metodo. Attraverso una call pubblica sono arrivati progetti interessanti, anche di recupero, di cucitura, di integrazione tra antico e contemporaneo. Un buon architetto non è soltanto quello che costruisce un grattacielo, magari strano. L’architettura è un mestiere con tante facce, e troppo spesso se ne racconta soprattutto una, quella glamour e alla moda. È un lavoro civico, che richiede la capacità di prendere la misura dei luoghi e delle necessità e, poi, di fornire risposte. Anche progettando piccole cose, ma ben fatte. 

I temi etici nell’architettura, così come l’impegno sociale e politico e l’attenzione al bene pubblico, sono oggi più urgenti che in passato?
Farei una distinzione tra ruolo politico dell’architettura e vicinanza degli architetti alla politica, che spesso si riduce a complicità. L’architetto deve essere libero di parlare, suggerire e stimolare, come è successo in passato, rispetto ad esempio a questioni epocali come la ricostruzione, la pianificazione urbanistica o la speculazione edilizia. È una figura di sintesi, visionaria, che cerca di «vedere» un po’ più in là, di intercettare i bisogni della gente e di interpretare la società. Gli architetti appartengono a una categoria indifendibile, ma ce n’è un gran bisogno.

La Biennale è la sede giusta per questo tipo di approccio? L’edizione di due anni fa, curata da Alejandro Aravena, era dichiaratamente «militante».
La Biennale è anche la rappresentazione di ciò che succede nel mondo. Quando c’è stato il momento delle archistar, le ha rappresentate. Così è stato per il Postmoderno. L’attenzione al sociale è qualcosa a cui da tempo si doveva dare rilievo. L’importante è ricordare, al di là di concetti, messaggi e ideologie, che l’architettura deve essere bella, capace di tradurre le parole (spesso le chiacchiere), le intenzioni e le ambizioni in spazio e forma. Cosa non solo difficile, ma che per molti non pare essere così importante.

Perché ritiene necessaria una «Legge per l’Architettura»? 
In Italia c’è un dato abbastanza scioccante. Su 15 milioni di immobili esistenti, meno del 10% è stato realizzato da architetti, mentre la stragrande maggioranza è opera di ingegneri, geometri, in passato artigiani e capomastri. Ma l’architettura è importante, anzi è importante l’architettura di qualità. È questo l’interesse pubblico che lo Stato deve garantire. Non si tratta di tutelare la categoria, ma di affermare il ruolo dell’architettura nella società, riconoscerla come strumento di affermazione della cultura di un Paese. Molti (ad esempio la Francia) ne hanno preso coscienza, si sono rappresentati attraverso la propria produzione architettonica e l’hanno confermato attraverso un’apposita legge. Da noi questo non è successo e dovremmo riflettere sulle ragioni. 

Riconosce un carattere specifico dell’architettura italiana?
Io non sono uno studioso, sono un po’ leggero, vivo del mio istinto e della mia curiosità. Però mi trovo spesso a guardare con una certa curiosità, non nostalgica, al lavoro di alcuni maestri, primo fra tutti Franco Albini. Sono per me un grande incoraggiamento. C’è in loro quella matrice italiana, quell’attenzione all’architetturalità della qualità che si trasferisce nel design o nella cura degli spazi museali e residenziali... Mi rincuora molto sapere che dietro di me ci sono questo Dna e radici solide. 

Lei è un professionista ammirato, ma non pare un guru e non si veste da architetto. Chi ha davvero bisogno delle archistar?
A volte mi viene da ridere, e penso al bisogno costante di inventare personaggi, che siano gli chef o gli architetti glamour. Perché alla fine sono tutti creature della stampa. Poi, certo, le star esistono, se un architetto è bravo, bravissimo, è bene riconoscerlo. Il problema sono quelli che pensano di esserlo, quelli che esistono più sulle riviste e nei comunicati stampa che nei propri studi professionali. Non so quanto durerà questo fenomeno. E forse non mi interessa neanche tanto...

 

Alessandro Martini , da Il Giornale dell'Arte numero 386, maggio 2018