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PIERO GILARDI. GIARDINIERE DEL GRAN PARCO DEL MONDO

  • Pubblicato il: 15/09/2018 - 08:01
Autore/i: 
Rubrica: 
FONDAZIONI E ARTE CONTEMPORANEA
Articolo a cura di: 
Amerigo Nutolo
Il Parco Arte Vivente, ecosistema culturale che ha casa a Torino da dieci anni, è un’esperienza vicina a quella, descritta da Sottsass, dei tappeti-natura del loro ideatore, Piero Gilardi: sospesa tra riconquista e perdita. Ritorno all’Eden, fra le macerie dell’illusione capitalista, accesso inatteso alla natura, nel cuore deserto della città post-industriale; e sensazione di perdita, coscienza che la terra che abitiamo, che PAV ci mostra nelle sue diverse forme e aspetti, questa terra, lentamente, scompare. Nei giorni della celebrazione del decennale e della nuova edizione di Teatrum Botanicum, format di giovani artisti, conversiamo con Piero Gilardi, presidente dell’omonima Fondazione Centro Studi e padre del PAV – corpo ecologico performativo di una comunità che vuole abitare il presente.

  
Io sono giardiniere,
e sono fiore […]
Osip Mandel’stam, 1909*
 
A pochi passi dal Po, Piero Gilardi mi accoglie in un luogo ibrido, fra casa, ufficio, laboratorio: una sorta di stazione ermetica, a prima vista priva di gerarchie architettoniche, che trasmette una sensazione d’impermanenza, mutevolezza, e lascia il dubbio che sarà totalmente diversa all’uscita. A pochi giorni dall’evento del 23 settembre, dedicato al decennale Parco Arte Vivente,, lo accosto, in preambolo, ai tappeti-natura, per il comune senso di riconquista e perdita, sospensione, residualità, possibilità – e per il duplice aspetto di Eden ed emblemi d’una natura rimossa. Gilardi replica: “Partiamo dal senso di perdita. Al convegno tenutosi al PAV sull’Antropocene (era geologica così concepita e denominata, la nostra, perché in essa la forza più rilevante, capace di portare al pianeta modificazioni – distruttive – è quella umana), Luca Mercalli ha definito cruciale il prossimo decennio: il riscaldamento globale, senza contromisure, crescerà esponenzialmente. Lavoriamo per il cambiamento, ma non è mai sopita, in noi, la preoccupazione per il collasso ecologico: in sottofondo, c’è un senso di perdita.” È alla luce delle capacità di riconoscere e ricreare che il PAV opera – e non a caso sono i fattori chiave anche del festival Teatrum Botanicum di questi giorni
 
Tra le strategie adottate da PAV, in sintonia con gli altri movimenti ecologisti, due: “Convincere più persone possibili della gravità delle prospettive, per arrivare alla massa critica di cittadini-elettori in grado di costringere i politici alla svolta necessaria; e creare zone liberate, degli Eden, per usare il tuo termine: comunità locali, gruppi urbani di coltivazione biologica che commercializzano prodotti e fanno opera di convincimento, centri abitati impegnati in pratiche di sostenibilità – come Mombello di Torino, dove tutto il paese è coinvolto, fino al sindaco – gruppi di volontari organizzati, transition town – in cui la volontà comunitaria assume un assetto istituzionale. Anche PAV, nato dopo sei anni di lotta, ha un assetto istituzionale: è un centro d’arte contemporanea della città di Torino, in relazione, anche, con gruppi e singoli che condividono la consapevolezza dell’incipiente collasso ecologico e la necessità d’agire. Su due linee: resistenza – a iniziative capaci di portare peggioramenti all’equilibrio ecologico – e resilienza – con l’adozione di nuovi modelli di consumo: coltura biologica, riduzione di rifiuti, riuso, etc.” L’asse di rotazione resta il consumo, di risorse naturali come di prodotti finiti – la cui spinta comunicativa commerciale è sempre più pervasiva. La consapevolezza del consumo è il residuo, l’ultimo appiglio alla prescrizione di Marx di una diffusa presa di coscienza dei reali rapporti di produzione e sociali: aspetto mai come ora, a un passo dal disastro, in rapporto diretto col paradigma rivoluzionario. L’esigenza di una presa di coscienza fra persone di diverso contesto sociale, la necessità di una rapida risposta su vasta scala, non possono richiamare altri termini che rivoluzione. Come attuarla efficacemente? “Si deve agire principalmente attraverso la comunicazione. Rispetto ai media, che con noi sono ‘ambivalenti’, sostengono a parole l’istanza ecologista e poi esaltano modelli iper-produttivisti, forzature come l’impiego dell’intelligenza artificiale a ogni ambito di attività umana, l’arte assume un ruolo specifico: offre una comunicazione molto più profonda, interattiva.” E chiarisce: “L’interattività costituisce una dimensione relazionale diversa da quella passiva, contemplativa, dei fruitori di arti tradizionali (per quanto sollecitati anch’essi, sul piano emozionale): produce emersività. Ciò che emerge nel fruitore di un’arte interattiva è la capacità di sviluppare nuove percezioni e produzioni immaginative.” Se l’interattività si basa sulle stesse energie sottili di cui Gilardi scriveva (Dall’arte alla vita, dalla vita all’arte, 1981) in riferimento alle opere dell’arte micro-emotiva, “tutte interne alle strutture, alle materie, alla natura”, si può dire, come già fatto tempo addietro da Gilardi, che per promuovere questa familiarità, sia giunto il momento non più di “far entrare l’arte nella vita” ma – invertendo il dettato pistolettiano – di far entrare la vita nell’arte. Anziché “mettere prima mano alla vita”, si dovrà mettere prima mano all’arte.
 
 
In Gilardi, biografia e biopolitica s’intrecciano, si cardano, per reggere la tensione allo strappo: sospesa l’attività creativa, in reazione al nuovo spirito commerciale del mondo dell’arte contemporanea, viaggiò, attraversandolo criticamente; lasciò, poi, la militanza politica, che non dava spazio a un ruolo organico dell’artista, fuori della propaganda, ma dopo aver guidato interventi artistici animativi e terapeutici per comunità manicomiali, di quartiere, gruppi di donne, anziani, bambini; fuoriuscì anche da questi contesti per l’irrigidirsi del rapporto terapeutico e fra amministrazione pubblica e quartieri, che iniziavano a assumere forme istituzionali, deresponsabilizzando e disaggregando le comunità di cura e azione, e finì per sperimentarsi in contesti tribali e fondare le proprie istituzioni; si dedicò all’interattività, sviscerando gli aspetti devianti della tecnologia; Gilardi ha detto spesso no, ma ha poi abitato le contraddizioni, indagandone i confini, portando soluzioni personali per perseguire i propri obiettivi di fondo. Il suo percorso è tutto segnato da queste oscillazioni e la sua creatura definitiva e infinita, il PAV, è sintesi di tutto il lavoro di Gilardi, immagine di un corpo ecologico che agisce collettivamente, tecnologia vivente utile a preservare l’uomo e il suo ambiente, anche simbolico. PAV porta in sé tutte le matrici delle diverse interazioni vissute dal suo fondatore, che, con esso, ha messo radici.
 
 
È un medico, Bernard Andrieu che scrive di emersività e interattività: e, questa, è anche nell’aspetto performativo delle opere – agito da persone, non da macchine!” L’uomo, non il dispositivo tecnologico, supporta l’interazione. Così Teatrum Botanicum format di promozione di giovani artisti, in questi giorni si propone, con l’interazione performativa, di spiazzare: dischiudere la mente, sottrarla ai cliché percettivi, “attivare contesti paradossali che aprano a uno sviluppo di tipo immaginativo”. La performatività di Gilardi, già passata tra parate, teatro civile, allegorie, contaminazioni tribali, ritmi e algoritmi, oggetti abitabili, vestiti, punta, oggi, in profondità. “Nell’Ecologia del desiderio, Antonio Cianciullo invita a ‘cambiare registro’, a non insistere sul catastrofico: i media drammatizzano i rischi del disastro ecologico con narrazioni banali. Serve toccare in profondità, in noi, le coscienze. I social estroflettono il sé di tutti noi – ma c’è ancora posto per un inconscio collettivo. Un inconscio fatto di idee e volontà che sta nella parte più antica del nostro cervello: in quell’amigdala dove si dice risieda l’intelligenza emotiva, con le nostre memorie. Diecimila anni fa, all’inizio del neolitico, il nostro antico cervello diceva: ‘Invadi! Brucia! Muoviti! Porta a casa il cibo! Caccia! Allargati!’ Noi dobbiamo riuscire a arrivare lì, all’inconscio di ogni individuo, e portarlo a fare il grande cambiamento.”
 
 
Una frattura insanabile separa i modelli d’interazione odierni dall’orizzonte d’azione di Gilardi. I social paiono assorbire l’immediatezza e gli impulsi amigdalici, dando l’illusione di auto-rappresentazione e auto-determinazione. Se gli user avessero affidato a essi le reazioni, le decisioni singolari e collettive che un tempo, senza filtro, passavano attraverso apparati religiosi, istituzionali, politici? Se stessimo abdicando alla facoltà di gestire l’esperienza reale, allontanandoci dai contesti d’interazione personale? Se le conquiste sociali, frutto dialettico di scontri e incontri in fabbriche, scuole, piazze, regredissero a segmentazione commerciale e reattività neolitica? Un baratro, sul cui limite ci sporgiamo ogni giorno di più, s’apre con la defezione della relazione umana, in cui si esasperano violenza e utilitarismo, deresponsabilizzazione e disempatia, e s’arriva alla supermediazione digitale, a far a meno del comune. Al fondo, subentrano l’atrofia delle capacità collaborative, di apprendimento sociale, di espressione, gestione e soluzione dei conflitti. Cosa può spezzare il cerchio e rendere possibile un cambiamento?
 
 
In base all’esperienza decennale in ambito arteterapeutico e psicanalitico, rispondo che, perché ci sia una rinascita e uno slancio nelle persone, serve l’unione di bisogno e desiderio. Nel ’68 condividevamo tutti la voglia di cambiamento, di rivoluzione: c’era un’empatia fortissima. Cosa l’ha fatta scattare? La molla del bisogno, per le classi lavoratrici sfruttate, quasi senza stato sociale (nato tra ’70 e ’80 da lotte operaie e di quartiere), era una vita dura, faticosa; la sottrazione di ogni protagonismo da parte della società fordista, il sentirsi in un meccanismo manovrato da qualcun altro fu lo stimolo al desiderio di risorgere e riprendersi in mano la propria vita, il proprio destino. Oggi c’è chi dice che il desiderio sia morto o assorbito dall’illusione, dall’ipertrofia del sé alimentata dai social, che soddisfano impulsi esibizionistici. Certo il desiderio è soffocato, oggi: deviato verso il consumismo oppure negato – perché viviamo in una società eterodiretta, molto rigida.” Resta, ora, la manipolazione del bisogno.
 
 
Le conquiste collettive, dissoltesi col mutare dei rapporti e valori sociali, e con la sostituzione da parte dell’assistenza dell’abilità di mezzo secolo fa di rappresentare e rispondere insieme ai bisogni, sono terreno di coltivazione del diritto trasformato in terreno edificabile per secondo welfare, volontariato, filantropia. Sfibrate le tradizionali reti di prossimità che proteggevano e imprigionavano gli individui e le loro narrative, il potere d’inclusione passa al sistema produttivo. L’utilitarismo ha buon gioco a rafforzarsi nel comportamento di chi, come unica protezione, ha la conservazione della posizione nell’apparato produttivo. E’ una gara al consumo reciproco. Su cosa si fondano le relazioni su cui costruire il futuro e una comune consapevolezza? “Sulla crescita endemica di micro-comunitarismi e la capacità, come a Mombello, di mettersi in relazione coi paesi vicini.” Se ogni habitat si crea localmente, resta il dubbio di potersi affidare all’efficacia di risposte slow, agli sgoccioli di un countdown ecologico. Il PAV viaggia, però, su doppio binario. “Scontiamo le difficoltà dovute alla struttura culturale della città, dei suoi abitanti: le categorie più disponibili sono giovani e anziani. Il PAV è però anche parte di una rete. In questi giorni arriva il direttore del Centro de Arte y Naturaleza, dalla regione dei Pirenei, che – come PAV – allestisce mostre e installazioni artistiche e funzionali per il territorio. I nostri artisti sono internazionali. Abbiamo, e dobbiamo rafforzare, la nostra duplice struttura. La crisi ecologica è tutta da capire: i dati li vedi, ma vanno studiati e affrontati, agendo in chiave glocal. A breve ospiteremo una mostra dell’artista cinese Zheng Bo [a cura di Marco Scotini n.d.r.], che lavora sulle friche urbane, zone di vegetazione spontanea che sorgono su luoghi incolti. Lavoriamo, come sai, con un terzo del budget iniziale del 2008, ma siamo attrezzati a rendere in situazione economica scarsa: ci si deve alleare. E unire bisogno e desiderio. Come fa Slow Food: cibo sano ma anche buono!” Gilardi, con la chiocciola di Petrini – e Eataly – ha forti intrecci collaborativi. La celebrazione del decennale di PAV, il 23 settembre, avverrà fra esibizioni di arte circense, bande musicali, l’inaugurazione dei giochi per bambini voluti e realizzati, nel Parco, dalla Città di Torino, e prevede un aperitivo con cottura di pizza nel forno all’aperto, a cura di Eataly Lingotto: una giornata inclusa in Or-TO, evento dedicato ai semi e alla biodiversità urbana, promosso da Eataly Torino. Durante la giornata sarà presentato un progetto che unisce PAV e Slow Food e si terranno i laboratori aperti della Libera Scuola del Giardino, progetto di coltivazione e trasformazione delle specie botaniche che riunisce piattaforme per lo scambio di prodotti locali, temporanee e permanenti.
 
 
Perché Piero Gilardi non ha creato una scuola d’arte a Torino? “Una scuola d’arte forma operatori: io tendo alle persone.” E aggiunge: “Sono stato in Centro America, nelle riserve indiane, nella Savana africana (dove abbiamo lavorato, nel mio gruppo, sulla circoncisione maschile e femminile). Stando a contatto, da animatore, con le culture tribali, ho notato che s’evolvono se le persone si ribellano alle costrizioni sociali ed accettano, al contempo, l’ibridazione col nostro sistema di vita. È un discorso parallelo a quello della natura. La natura incontaminata non esiste più: è tutta ibrida. Abbiamo la responsabilità di gestire un pianeta ibrido. Dobbiamo saper prendere in mano gli strumenti della tecnica, della cultura occidentale, e gestirli con finalità diverse da quelle della produzione, dello sfruttamento, del consumo.” In Italia, nella fase di crescita e di formazione, non vengono sufficientemente affrontati questi temi, e sembrano fragili le basi su cui, oggi più che mai, si sfoderano generiche – e comode – speranze nelle future generazioni. “Al PAV si fanno molti laboratori. Arrivano anche persone che dicono di non aver mai tenuto in mano un pennello e che, coinvolte nell’attività del gruppo, alla fine dipingono. Ognuno di noi covava una sofferenza, nel ’68, per la condizione di vita che la società gli imponeva. Solo quando ci univamo ad altri riuscivamo a dare corpo all’alternativa che desideravamo: la differenza è che, allora, eravamo altamente ugualitari ed oggi, invece, dobbiamo accettare la differenza soggettiva.” Gilardi ha scritto di un periodo di riflessione sul proprio percorso, in cui si riconobbe “esterno” ai contesti in cui aveva via via militato, agito e, forse, conservato la propria posizione: oggi c’è la possibilità di conservare un ruolo di artista, e che lo stesso atto e linguaggio espressivo sia restituito all’autoespressione dei singoli, senza perdere nulla. Il nodo del “livello creativo” è conflittuale solo dove la distinzione si fa competitiva e perdono coesione i valori attribuiti, dal gruppo sociale, alla medesima pratica. Per consolidare il valore sociale dell’arte, oggi, non vanno eliminati la creazione diffusa, l’artista, ma il “puro spettatore”. La richiesta di massa di audience ostacola l’efficacia dell’arte e l’azione creativa diffusa. “Entrare in un’opera interattiva vuol dire diventare co-creatore.” Nulla a che fare con l’entertainment, facili menù partecipativi, immersività. I tappeti-natura, abitabili dalla nascita, inseguivano già la possibilità di farci essere presenti , come paesaggio virtuale, e nelle tappe successive, anche tecnologiche, Gilardi, si è fatto sempre più precursore dello scenario artistico di prossima emersione, che si spinge oltre gaming e cinema, verso un’interazione VR artistica collettiva. “È sempre necessaria la compresenza dell’umanità in quello che fai: del corpo. Quando parlo di biopolitica, ho in mente soprattutto l’importanza del corpo. Ciò che facciamo con gli altri e noi stessi. Anche se sei libero di essere in un ambiente tecnologico dove hai totale libertà di ricrearlo e sostanziarlo della tua immaginazione, importa che tutto sia sempre legato al tuo corpo. Prossemica, relazione fra me e te – a un metro di distanza, tensioni, sentimenti, frustrazioni… Tutte le realtà che ho prodotto nella mia vita sono collettive, mai individuali. In Survival (1995) le persone non interagivano da joystick: manipolavano le visioni su uno schermo attraverso le stalagmiti della grotta dell’installazione: le prendevano e se le tiravano anche addosso per gioco” dice Gilardi simulandone il gesto. “La sequenza del mio metodo di animazione è sempre stata gioco-rito-gioco: perché il rito si scioglie di nuovo in gioco? Perché il rito è bello ma è normativo: impedisce e cristallizza la libertà espressiva. Io suggerirei che ci fosse sempre un insieme di persone che interagiscono: dove siamo più persone, anche davanti a uno schermo, dove il mio vicino mi stimola, mi incuriosisce, si apre un altro orizzonte immaginativo” e, dopo una pausa, aggiunge: “Il gioco è liberatorio.” Il paradosso, l’oscillazione che Gilardi ci fa abitare ha l’impronta inafferrabile di tutte le sue opere: includono la loro stessa negazione, e si liberano da sé.
 
Che l’iterazione gioco-rito-gioco, di fatto normativa, preveda di per sé lo sciogliersi di nuovo in gioco della tensione asintotica al rito, è quel che permette, restando nell’opera, di uscirne continuamente, per cercare, e cogliere ogni volta, nuove possibilità; ciò induce a vedere le strutture che transitiamo come trasparenti, modificabili; a agire al posto dell’opera. Così dalla natura impariamo cosa possiamo, mai cosa dobbiamo fare. Ascoltare il presente, stare in relazione, modellare la norma, provare la reversibilità del confine. L’aprirsi dell’arte alla vita inizia così. Crescendo insieme, nel tempo – dentro o fuori dal PAV – tornando, sempre, sul punto di venire al mondo.
 
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Bibliografia
 
Piero Gilardi | La mia biopolitica | 2016 | Prearo Editore, Fondazione Centro Studi Piero Gilardi
Parco Arte Vivente
Fondazione Centro Studi Piero Gilardi
Amerigo Nutolo | Il Giornale delle Fondazioni | Parco Arte Vivente. Dieci anni da specie pioniera del terzo paesaggio culturale. |
 
 

* I versi del componimento in epigrafe sono tratti da Ottanta Poesie, traduzione a cura di Remo Faccani, 2009, Einaudi
 
Ph: Piero Gilardi PAV -  Courtesy MAXXI, 2017 - Ritratto in occasione della mostra personale Nature Forever. Piero Gilardi