Le reti della solidarietà. Volontariato, partecipazione e benessere nel Rapporto Istat 2018
Il Rapporto Istat di quest’anno analizza le condizioni economiche e sociali del nostro Paese proponendo la chiave di lettura delle reti e delle relazioni tra le persone, tra le persone e gli attori sociali (imprese, istituzioni, gruppi formali e informali) e degli attori sociali tra loro.
Il quadro che ne risulta è ricco di dati e informazioni, anche su aspetti fondamentali della nostra vita che ottengono di rado la ribalta mediatica. Uno di questi aspetti è il sistema delle relazioni di solidarietà, aiuto reciproco e collaborazione, che l’Istat descrive con nuove profondità, integrando più fonti di dati.
Fare del bene agli altri fa bene a sé stessi, e in molti modi: svolgere attività gratuite in gruppi o associazioni permette di sentirsi utili, di migliorarsi, di accrescere le proprie abilità e competenze; permette, inoltre, di instaurare rapporti interpersonali gratificanti e di ampliare le proprie reti sociali. Soprattutto, la partecipazione attiva e generosa alle reti di servizio paga, ed estende alle componenti sociali più svantaggiate un sostegno all’inclusione paragonabile al vantaggio derivante dal possesso dei livelli più elevati di istruzione e dalla residenza nelle aree più benestanti della penisola.
Nel 2016, le persone che hanno svolto almeno una attività gratuita negli ultimi 12 mesi[1] sono il 13,2% della popolazione italiana dai 14 anni in poi.
La quota di volontari è molto più alta della media nei gruppi sociali [2]con reddito medio alto e titoli di studio elevati, cioè tra gli appartenenti alla classe dirigente (23,5 per cento), seguiti da quelli delle famiglie di impiegati e delle pensioni d’argento (rispettivamente il 18,8 e il 18,1 per cento). Gli altri gruppi sociali hanno livelli di partecipazione decrescenti, fino ad arrivare alle famiglie a basso reddito con stranieri, tra i cui membri il tasso di partecipazione è del 4,3 per cento, quasi nove punti percentuali sotto la media.
La possibilità di dedicare il proprio tempo ad attività gratuite è molto legata alle fasi del ciclo di vita e al ruolo rivestito all’interno della famiglia, in particolare per le donne: le single in età attiva sono le persone che partecipano di più ad associazioni (19,0 per cento) e, ceteribus paribus, le figlie femmine partecipano più dei figli maschi. Poi, qualcosa si inceppa. Gli impegni familiari incidono negativamente sulla partecipazione femminile all’associazionismo: lo si vede, sia tra le coppie senza figli in età attiva (gli uomini superano le donne con il 18,3 contro 14,9 per cento), sia quando la presenza di figli riduce le quote di partecipazione di entrambi i genitori (15,0 contro 11,9 per cento).
Come è stato documentato del recentissimo Rapporto sulla conoscenza[3], le analisi dell’Istat mettono in luce l’importanza strategica dell’istruzione come fattore essenziale di progresso individuale e sociale e di competitività economica. Anche qui, la caratteristica che più incide sulla partecipazione ad associazioni è il titolo di studio dei volontari: svolge attività gratuite in associazioni il 23,3 per cento dei laureati, contro il 5,1 per cento di chi ha una licenza elementare o nessun titolo.
Essere già coinvolto in altri contesti di socializzazione, come la scuola o l’ambiente di lavoro, favorisce un maggiore attivismo nelle associazioni, con un’azione di rinforzo che mette a disposizione più occasioni di coinvolgimento a studenti (partecipa il 18,0 per cento) e a persone occupate (16,0 per cento) rispetto a casalinghe e ritirati, che trascorrono in casa gran parte del loro tempo. Queste persone sono a forte rischio di isolamento sociale.
A seconda delle finalità delle associazioni, la partecipazione può avere effetti sia di tipo bonding, ovvero creare legami “esclusivi”, che rafforzano i vincoli comunitari tra i membri del gruppo, con effetti di chiusura verso l’esterno, sia di tipo bridging, ovvero “inclusivi”, che contribuiscono a creare ponti con l’esterno, generando rapporti di fiducia che vanno oltre i membri dell’associazione.
Il volontariato, si legge nel Rapporto Istat 2018, favorisce il rafforzamento di un clima di fiducia interpersonale attraverso due canali: abituando gli associati a fidarsi vicendevolmente in vista del raggiungimento dei fini dell’organizzazione e stimolando lo sviluppo di sentimenti positivi all’esterno del gruppo. La percezione che in caso di bisogno ci siano persone disposte ad aiutarci rassicura circa la qualità dell'ambiente sociale e contribuisce ad attenuare la diffidenza verso gli altri.
L’analisi delle altre reti sociali in cui sono inseriti i volontari conferma che le persone che partecipano alla vita sociale della comunità intrecciano relazioni sociali con una molteplicità di soggetti. Essi hanno pertanto una rete molto più aperta rispetto alla media della popolazione: la quasi totalità dei volontari dispone, infatti, sia di amici sia di una rete di sostegno.
Fare del bene agli altri fa bene a sé stessi, e in molti modi: svolgere attività gratuite in gruppi o associazioni permette di sentirsi utili, di migliorarsi, di accrescere le proprie abilità e competenze; permette, inoltre, di instaurare rapporti interpersonali gratificanti e di ampliare le proprie reti sociali. Dall’essere riconosciuti come volontari deriva quel positivo senso di sé che è alla base dell’equilibrio psicologico individuale.
I dati indicano che chi si impegna in attività gratuite è più soddisfatto di chi non si impegna. Lo conferma il giudizio espresso per la propria vita in generale, e per importanti aspetti più specifici. La differenza tra i punteggi espressi dai volontari rispetto ai non volontari è netta: tra i primi, oltre la metà esprime un alto livello di soddisfazione per la vita (tra 8 e 10), mentre la quota di chi non svolge attività di volontariato è 40 per cento. La percentuale di volontari che si dichiara molto soddisfatta per le proprie relazioni familiari è il 40,1 per cento, contro il 32,7 (+7,4 punti percentuali) di chi non svolge attività gratuite; per le relazioni con gli amici, il vantaggio è di 10,3 punti percentuali (32,8 per cento contro 22,5), per il proprio tempo libero (20,7 contro 13,8 per cento, +6,9 punti) e anche per la salute (22,3 contro 16,8 per cento, +5,5 punti). Chi si impegna manifesta, inoltre, una maggiore propensione all’ottimismo, con aspettative sul futuro più rosee: il 35,9 per cento dei volontari crede che la sua situazione personale migliorerà, contro il 25,6 dei non volontari.
La soddisfazione legata all’attività associativa cresce al crescere dell’età. Lo scarto nel benessere percepito tra chi fa o non fa volontariato comincia a superare i dieci punti percentuali per gli appartenenti alle generazioni dell’identità (nati fra 1946 e 1955) e dell’impegno (nati fra 1956 e 1965) (rispettivamente, 14,8 e 12,1 punti percentuali) e arriva al 20,8 punti percentuali nella generazione della ricostruzione (nati fra il 1926 e il 1945). Con l’avanzare dell’età, le persone attribuiscono all’associazionismo un valore crescente. L’impegno a favore degli altri è in grado di contrastare la percezione di solitudine, riduce i sintomi depressivi, migliora le prestazioni cognitive e incrementa il benessere mentale. In altre parole, impegnarsi nel volontariato promuove quello che viene definito “invecchiamento attivo”, contribuendo a migliorare la qualità della vita una volta che vengano a mancare dimensioni importanti della propria identità, come il ruolo genitoriale (indipendenza dei figli) o quello professionale (pensionamento) (Innocenti e Vecchiato, 2013; Mannarini et al.,2017) .
Un aspetto certamente non trascurabile è che, a chi fa volontariato, l’attività piace. E così, pur essendo a pieno titolo una forma di impegno, sebbene a titolo gratuito, che prevede operazioni a volte faticose, o del tutto simili a quelle svolte durante il lavoro retribuito o familiare, il fatto di essere liberamente scelto fa sì che i volontari lo giudichino perfino più piacevole delle stesse attività del tempo libero. E ancora: la forza benefica dell’attività volontaria non si esaurisce nei momenti in cui viene svolta. Come accade per la propensione all’ottimismo, quest’attività sembra contagiare anche il resto della giornata: chi ha praticato volontariato dà alla giornata nel suo complesso un giudizio mediamente migliore. Questo senso forte di piacere emerge da tutti coloro che dedicano il proprio tempo ad altri, ma la maggiore intensità si rileva proprio tra le persone a rischio di marginalità: quelle con risorse economiche scarse o insufficienti, le casalinghe, le persone in cerca di lavoro o con un basso titolo di studio.
La partecipazione attiva e generosa alle reti di servizio paga, ed estende alle componenti sociali più svantaggiate – donne, anziani, persone poco istruite e residenti in territori disagiati, tutti soggetti a una diffusa e progressiva esclusione culturale, che si intensifica con l’avanzare dell’età – anche un sostegno all’inclusione paragonabile, per molti aspetti, al vantaggio derivante dal possesso dei livelli più elevati di istruzione e dalla residenza nelle aree più benestanti della penisola.
Rapporto Istat 2018
Riferimenti
Innocenti E. e T. Vecchiato. (a cura di) (2013). Volontariato e invecchiamento attivo. Cesvot Edizioni.
Istat (2017). Rapporto Annuale. La situazione del Paese. Roma: Istituto nazionale di statistica
Istat (2018) Rapporto Annuale. La situazione del Paese. Roma: Istituto nazionale di statistica
Istat (2018) Rapporto sulla conoscenza 2018. Roma: Istituto nazionale di statistica
Mannarini, T., A. Rochira, S. Montecolle e E. Meli (2017). “Far(si) del bene. Attività volontarie e benessere
individuale”. In Guidi, R., K. Fonovic e T. Cappadozzi. (a cura di). Volontari e attività volontarie in Italia.
Antecedenti, impatti, esplorazioni. Bologna: il Mulino.