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Le fragilità positive: dialogo con Filippo Tantillo

  • Pubblicato il: 17/06/2017 - 16:17
Autore/i: 
Rubrica: 
OPINIONI E CONVERSAZIONI
Articolo a cura di: 
Agostino Riitano

Jazzi ha incontrato Filippo Tantillo, coordinatore scientifico del team di supporto al Comitato Nazionale per le Aree Interne. Ne è uscita una chiacchierata che parla di Italia, cittadinanza, diritti, potenzialità e cambiamenti.
 


 
AJ: Da quale urgenza nasce il lancio di una Strategia nazionale per le aree interne lanciata nel 2013 dal Ministero per la Coesione Territoriale con l’ambizioso obiettivo di invertire la secolare e crescente tendenza allo spopolamento di alcune parti del territorio italiano?
FT: Ad un certo punto, dopo tanti anni di riflessione sullo sviluppo locale, si è iniziato a ragionare di sviluppo sul piano nazionale, immaginando e capendo che le definizioni utilizzate fino a quel momento (come nord/sud o rurale/urbano) non funzionavano più. Si comincia perciò a ragionare sul fatto che vaste aree stanno perdendo abitanti nonostante ci siano le risorse. Quel paradigma, perciò, salta, e si inizia a ragionare su urgenze e sviluppo.
 
AJ: Quando questo tema assume una nuova centralità? Quando si inizia a parlarne in termini meno astratti e come questa strategia si è tramutata in pratica operativa?
FT: Ci sono diversi punti su cui riflettere. Il primo è che sono aree che potremmo definire di riserva, che mantengono delle ricchezze ma anche delle fragilità, come nel caso dell’agricoltura che negli anni della crisi continua a mantenere il suo livello di produzione. Si tratta di aree in cui sono allocate le energie, le energie si muovano e vengono estratte proprio in quelle aree.
Un secondo punto è che al contempo, il cambiamento climatico incide e non sempre rende abitabili quelle aree. Possiamo citare solo come esempio in area alpina la crisi degli impianti sciistici, ma allo stesso tempo scioglimento delle nevi che influisce sul resto della vallata. Si registrano, quindi, fenomeni di fragilità a fondo valle: la tenuta idrogeologica del territorio, gli allagamenti, la manutenzione dei manti stradali sono solo alcuni dei problemi. Ad esempio, nell’Agordino provincia di Belluno, dove c’è Luxottica, ci sono giorni in cui le strade non sono percorribili; oppure al Sud, ci sono aree in cui il rischio di desertificazione (Sicilia) incide sul livello di abitabilità delle aree.
Un punto ulteriore è rispetto alle politiche. Vengono meno i fondi investiti sulle aree a seguito della crisi, aree che tuttavia, grazie ai trasferimenti pubblici assistenzialistici sono riusciti a mantenere come declino la curva discendente meno abitanti e abitanti e più cibo.
Ancora: siamo sull’orlo di un crollo della capacità di offrire servizi. Sono aree che dal punto di vista democratico soffrono di un deficit: come la val Chiavenna, che fornisce acqua alla A2a, e le quote sulla fornitura vengono versate alla Regione Lombardia, ma gli enti locali non riescono ad accedere alla gestione di questi fondi.
Inoltre, parliamo di difficoltà rispetto alla pienezza della cittadinanza: la Costituzione parla di eguaglianza formale e sostanziale all’ art. 3, un terzo del paese, però, in termini di cittadinanza, soffre un deficit democratico. Parliamo di diritto alla salute, inteso come accesso alla sanità, diritto all’educazione, possibile scolarità e sicurezza nei trasporti. I tagli lineari hanno ridotto i servizi in queste aree che costano molto di più che in città. Pensiamo ai servizi postali ad esempio, la chiusura cambia sostanzialmente il territorio. Si tratta di aree fragilissime, basta che la scuola chiuda perché vengono meno 2 bambini, si genera un effetto domino per cui anche la cartoleria chiude, e da un evento minuscolo c’è una degenerazione rapidissima della abitabilità dei territori.
È stato necessario perciò iniziare a prospettare delle politiche proprie, queste aree non potevano essere trattate come periferia, né potevano bastare le politiche compensative, ci siamo accorti che queste aree contengono risorse che devono essere portate alla luce.
Per capirci, non sono aree immobili, ma aree che si muovono, che seguono nuovi binari di cambiamento.
 
AJ: Ragionando in termini spaziali e geografici, che modo possiamo definirne i confini? Per individuare esattamente queste aree interne, per farne una politica dedicata e fare confluire dei fondi è necessario una definizione precisa.
FT: Si tratta di un set di indicatori molto complesso, basato dalla distanza di questi comuni dai servizi di base. Pensiamo a sanità e trasporti: quanto tempo ci impiega l’ambulanza in codice rosso ad
arrivare lì? Quanti sono i ricoveri evitabili? Sulla scuola: c’è la presenza o assenza di pluriclassi? Quali sono i risultati dei test Invalsi, che per quanto opinabili, permettono di raccontare il livello di funzionamento delle istituzioni? Per i trasporti: qual è la distanza dalle stazioni e dalle autostrade di grande percorrenza?
Tracciando questa mappa, ci siamo accorti che queste aree coincidevano con le aree che perdevano più popolazione. Poi c’è un problema di metodo, questa classificazione ha i suoi limiti, perché isolare i territori diventa complicato. Quindi se ci sono 5 paesi che rientrano nei parametri delle aree interne e un centro sotto vanno raggruppati insieme. Le aree interne non sono delle isole, ci sono reti di relazioni che vanno mantenute e rafforzate.
 
AJ: Oltre a quelli già citati esistono dei tratti comuni tra i contesti che avete incontrato? Quali sono i punti di contatto tra territori spesso lontani?
FT: Dal punto di vista del paesaggio, sono aree che si somigliano. Sono aree di media montagna, arrotondate, e hanno come tratto comune il segno di uno sfruttamento intensivo del territorio e poi l’abbandono. Si tratta di zone poco abitate e sempre meno abitate. Se pensiamo alle vite delle persone: non sono molto povere, sono aree in cui si vive di piccoli lavori (imprese private agricole o manifatturiere, o nella PA) non sono zone coese, ma sono tranquille. Sono legate allo spostamento automobilistico. Non esistono le comunità, quelle che c’erano sono di fatto, esplose e vanno re-immaginate.
 
AJ: A fronte di questi anni di lavoro, avete una strategia sul se e sul come si possa procedere a costruire una comunità?
FT: È possibile, devi combattere con la narrazione dei luoghi. Si deve smontare la narrazione nostalgica verso un passato, che, spesso, conteneva anche una grande miseria, la gente se n’è andata perché poteva finalmente liberarsi dai bisogni essenziali e immaginare di più. Si costruisce con chi la vuole fare, con chi vuole investirci, chi vuole lavorare in quell’area. Si tratta di numeri piccoli e contesti piccoli, 5 giovani, 15 persone, come nel caso del mio amico apicoltore che usava le macchine di prestate da un amico di un amico, e quando l’amico intermedio se n’è andato, l’apicoltore e il possessore delle macchine non riuscivano più a comunicare. Sono i rentier del sottosviluppo, che vivono di piccoli investimenti ma che beneficiano dell’etichetta. La ricostruzione va fatta dal basso. È stata facilitata dal fatto che è cambiato l’approccio ai partenariati. Ora è possibili attivarli anche tra i soggetti “rilevanti”: questa dicitura di fatto, permette di trattare livelli singoli e non più solo le persone giuridiche.
 
AJ: Tra gli obiettivi espliciti della Strategia per le aree interne, si parla di comunità operose: quali sono i punti di forza delle aree interne che avete incontrato? Quali i punti di debolezza?
FT: I punti di forza sono soprattutto legati alla militanza. Le persone che vanno a vivere in questi territori sono i nuovi abitanti: giovani, stranieri, emigranti di ritorno che tornano anche per necessità. Dopo una laurea, magari a Roma o a Milano che non ha portato i frutti sperati, si ritorna al paese, dove magari c’è il mulino del nonno che diventa una risorsa. Lo fanno come scelta di vita, che diventa motivo di militanza, lo vivono come scelta di vita e lo difendono. Portano saperi da altre traiettorie e confliggono spesso con politiche locali. Il punto di debolezza è che tutti i progetti sono individuali, sono progetti singoli, e questi nuovi imprenditori e attivisti hanno poca capacità di programmare. Funziona anche sui territori, e sul pubblico impiego, che richiede delle innovazioni sociali ai minimi termini. Il punto centrale è che devono fare SOCIETÀ. La loro debolezza è la capacità progettuale, che va dal business plan, all’uscita dalla dimensione micro, fino al come trovare le risorse per sviluppare la loro idea o avere le risorse necessarie. Sono soli, sono molto soli, e hanno molta capacità di sperimentazione. Le aree interne sono aree nuove. Questi soggetti hanno degli spazi di libertà che in città non avrebbero.
 
AJ: Dopo quattro anni di lavoro, volendo fare un piccolo bilancio: cosa sta cambiando rispetto al 2013?
FT: La fragilità è un valore positivo, a patto che diventi coscienza del tuo status, e tu la puoi risolvere dal punto di vista economico, umano. La fragilità è consapevolezza e quindi forza. Fragilità è anche debolezza. Cosa è cambiato? Le politiche pubbliche hanno tempi lunghissimi. Il primo obiettivo è portare in queste aree l’idea di futuro, di fiducia, andando sul territorio, sui territori. Noi per conoscerli e incontrarli abbiamo fatto 50000 km in due anni, ci siamo inventati tante piccole cose per provare e stiamo, di fatto, ancora provando; il tema sta crescendo, non siamo gli unici che se ne occupano ma è anche merito nostro la possibilità di lavorare su questi territori. Abbiamo posto il tema e si inizia a parlarne, è una battaglia culturale.
 
AJ: E guardando al futuro, rispetto a questa progettualità: fra 5 anni, cosa speri, cosa ti aspetti?
FT: Io spero che quest’operazione produca dei rinnovamenti. Dal punto di vista delle politiche pubbliche, si riesca a avvicinare i luoghi e le decisioni politiche, far passare una cultura dell’osservazione, senza fare disegni astratti o immaginando progettazioni impossibili; guardare un luogo, ascoltarlo e accompagnarlo nelle sue urgenze. Il secondo auspicio è liberare delle risorse, l’Amministrazione pubblica non ha più fondi da distribuire a pioggia, ma ha tante risorse che possono essere attivate, come l’accesso alla terra. Da una parte, quindi, parliamo di attenzione alle dinamiche e tentativo di assecondarle, dall’altra liberare le risorse bloccate. Però è necessario coinvolgere i cittadini nel decidere le cose da fare.
 
AJ: Come possono essere raccontati e valorizzati questi territori? Come si può rafforzare il cambiamento culturale?
FT: La ricetta in tasca non c’è, non ce l’abbiamo. Il pubblico da solo non ci riesce, il privato nemmeno, il pubblico-privato insieme nemmeno. Sui territori andiamo a cercare delle pratiche di sopravvivenza che forse hanno già, in nuce, delle possibili soluzioni. Per il racconto, bisogna dare voce a chi li vive. Il racconto attuale è scolastico, in bilico tra tradizione, identità, buon vivere, è una narrazione che legittima classi politiche di rentiers e scelte di conservazione.  Per cambiare le cose, devono parlare le persone che li vivono, e non parlo solo dei ragazzi, degli innovatori, ma anche quei sindaci militanti che stanno lavorando per il cambiamento. Non ci sono comunità e identità che parlano di un mondo di flussi. Non sono d’accordo con Aldo Bonomi, ci sono territori che si muovono e camminano e bisogna cambiare e assecondare il cambiamento. Anche rispetto ai saperi locali: alcuni sono spariti, pensiamo alla Lombardia, dove i mastri fabbri spariti. I nipoti, però, non sono depositari di quel sapere, che non può essere fatto rivivere artificialmente. È necessario trovare esperienze.
 
AJ: L’associazione Jazzi si occupa dell’area interna del parco Nazionale del Cilento e del Vallo di Diano, esistono urgenze simili nel contesto italiano? 
FT: Sul territorio i temi che emergono sono alcuni, più forti di altri: pensiamo al welfare locale, di comunità; al tema dell’energia, l’autosufficienza energetica, come nel caso dell’Abruzzo che dopo il terremoto ha dovuto affrontare il problema della neve e non ha potuto reagire e ha provocato l’abbandono. Un altro tema è quello di accesso ai beni, ai territori, un tema molto sentito che viene affrontato. Se penso a dei casi simili, mi vengono in mente il Condominio forestale in Friuli Venezia Giulia, l’uso delle malghe da parte dei migranti, i beni confiscati alle mafie in Sicilia, o ancora, l’accesso dei giovani all’agricoltura e ai beni culturali.
In questo contesto, Jazzi lo metterei in questa famiglia di desideri. La proprietà privata è diventata un vincolo allo sviluppo, e non riescono ad accedere al monumento perché la sovrintendenza lo tiene chiuso. Si tratta di ripensare l’uso, l’accesso e il riuso. Sono territori diversi ma esprimono bisogni simili.
 
(dal sito dell’Associazione Jazzi, 18 maggio 2017)
 

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