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La Cultura della moda etica

  • Pubblicato il: 18/07/2017 - 18:08
Autore/i: 
Rubrica: 
SAPER FARE, SAPER ESSERE
Articolo a cura di: 
Catterina Seia

Lo incontrammo nel 2008, appena laureato, in un seminario tra arte e impresa, del progetto C4 nella villa palladiana di Caldogno- Vicenza.  Un giovane, diventato manager dell’industria della moda che , dopo la tragedia del  crollo del Rana Plaza in Bangladesh, nel  2013, prende coscienza  del  vero costo della moda e sceglie di diventare imprenditore per promuovere, attraverso le sue produzioni , un cambiamento culturale . Con una affascinante storia che vi raccontiamo, vince il Best of the Best 2017 al RedDot Product Design Award per il processo di economia circolare che ha attivato e per i messaggi che veicola con i sui  prodotti.  Con il suo team ha ideato un  processo di apprendimento esperienziale per gli studenti delle scuole superiori, ora  in 92 paesi nel mondo in licenza alla Fondazione Fashion Revolution, grazie al supporto di Marina Spadafora, country coordinator Italia, vincitrice del Women Together Award dell’Onu.  Oggi è al lavoro con Fondazione Prada e il Politecnico di Milano e ha attivato collaborazioni con numerose imprese . “Tutta l’azienda è Responsabilità Sociale. Ogni prodotto è cultura.”  Matteo Ward

Rubrica di ricerca in collaborazione con Fondazione Exclusiva.
 

Vicenza. Matteo Ward, 31 anni,  laurea in Economia Internazionale all’Università Bocconi. Ultimo anno accademico in Corea del Sud, alla Yonsei University di Seul, dove completa gli studi con una  tesi in Diritto Pubblico Comparato. Primo incontro con il mondo del lavoro nel 2008, in Dainese, l’azienda leader nell’abbigliamento per motociclisti.  “Nell'ufficio del product developement ho preso  consapevolezza, grazie all'influenza di Lino Dainese,  di cosa significhi lavorare in un'azienda che non fa un prodotto, ma persegue un purpose, un obiettivo, parla di valori ideali, come vendere  la possibilità di massimizzare l’espressione delle persone che praticano sport dinamici.

L’Università Bocconi in  quell'anno  cercava nuovi manager per aprire il nuovo ufficio di Milano, in vista  di un'espansione europea e mondiale su larga scala. Matteo coglie l’opportunità, ma  nel 2009  inizia una nuova esperienza.  Si  lancia  nel mondo di Abercrombie,  un’azienda del mondo della moda giovani in grande espansione a livello globale. “In quattro  giorni ero su un aereo per Londra per la formazione. A seguire ho curato l'apertura del flagship di Milano e dopo un anno l'espansione del brand in Germania come General Manager e successivamente senior maganer. Nel 2013 altro cambio, facendo application  per la posizione interna di Co-Chair del Diversity and Inclusion Council,  un ramo del Corporate Social Responsability, volta ad attivare una strategia di  migliorarmento della percezione  del brand attraverso un impatto positivo sulle diverse realtà locali”.  Da implementare in  tutti gli store nel mondo.  In Europa, Emirati Arabi, nella regione dell'Asian Pacific, Australia compresa, ancora  “senza  policy  per favorire il dialogo con le culture locali. Un'azienda di modello USA,  fortemente standardizzata che, come molte,   improvvisamente si  è trovata in conflitto con culture diverse, per la quale nessuno era preparato. In molte città il  nuovo brand incontrava resistenze, specie a partire dal 2013, quando l’amministratore delegato era stato attaccato dai media a seguito di una dichiarazione, non propriamente inclusiva nei confronti di chi in apparenza non era conforme all’immagine veicolata dal  brand.”

Un giovane in un’azienda di giovani per lo sviluppo di una strategia di CSR worldwide, con un team di 15 persone, uno per ogni regione del mondo. Il successo passa attraverso le persone. “18 mesi di duro lavoro per  favorire la crescita dei dipendenti degli store, lavorando sulla valorizzazione delle diversità culturali, lo sviluppo delle relazioni territoriali in partnership con realtà del terzo settore su cause locali,  promuovendo volontariato e fundraising sui progetti che stavano a cuore alle persone delle comunità in cui eravamo insediati.”

Una azienda con una forte filosofia di sviluppo di talenti,  in cui ogni figura manageriale doveva seguire un percorso di  credit developement interno che partiva dagli store. Conoscenza profonda  del target,  capacità di interpretarne i bisogni, grandi opportunità di carriera per i talenti.  Ma Matteo,  dopo una  fulminante carriera in una azienda leader, guarda oltre.

 “Nel 2013, occupandomi di CSR,  scopro il vero costo dell'industria della moda,  non della mia azienda, che  amo tutt’ora. La  moda, come molti settori di business,  ha intrapreso un percorso di non ritorno, non più sostenibile, che deve essere  rivoluzionato. Tutto per me è cambiato con il crollo del Rana Plaza in Bangladesh, il 24 aprile 2013. Morirono 1133 persone e 2500 rimasero ferite.  La struttura non implose per un incidente, ma per il  taglio dei costi di amministrazione da parte della proprietà per far fronte a richieste di prezzo sempre più basso da parte dei brand occidentali. L’evento  ha aperto gli occhi a molti  sul reale costo dell’industria Fast Fashion, sulla ricerca del prezzo sempre più basso.” Del Rana Plaza si  è parlato  dopo l'incidente, ma già oggi sembra essere un fatto dimenticato.  Ma sta cambiando radicalmente la propensione ai consumi. In Abercrombie,  già nel 2013, gli store, vero strumento di  comunicazione, registravano un cambio di target: il prodotto pensato per un pubblico tra i 18 e 21 anni interessava improvvisamente, in modo prevalente, a  persone tra 35 e 40 anni. “Attivammo  focus groups con i Millennials, la mia generazione, e la generazione Z in Germania. Molti ragazzi ci risposero che erano in cerca di una moda etica. Di riconoscersi e comunicarlo anche attraverso la rappresentazione di sé,  l’abbigliamento. Nei primi anni 2000, essere esclusivi significava escludere la diversità. Film come MEAN GIRL con Lindsay Lohan (2004),  oggi non avrebbero più successo perché sta emergendo un  senso civico, una volontà di partecipazione da parte delle nuove generazioni.”  L’analisi orienta il  business plan dell’azienda che offre a Matteo  un  avanzamento di carriera a Londra.  “Era  il momento della scelta tra una azienda che amavo o abbandonare la zona di confort per  sentirmi parte integrante di un movimento atto a generare e catalizzare un cambiamento positivo. Quante persone sanno quale sia il reale costo dell'industria della moda, la seconda industria più importante al mondo? Pochissime: c'è un esagerata asimmetria informativa. Non lo sa chi li vende, non lo sa chi li acquista. Ho venduto per sei  anni prodotti senza avere consapevolezza. Questo mi ha turbato.

Siamo tutti correi. Nel momento in cui  consumiamo, abbiamo la responsabilità.  C’è voglia di consapevolezza e le persone consapevoli  si pongono domande e acquistano in modo responsabile.  Lo confermano le statistiche. “Le persone iniziano a chiedere informazioni sui materiali e sui luoghi di produzione. Occorre investire in informazione, formazione e  innovazione, trovando soluzioni ispirate dalla tradizione in grado di rinnovare i modelli di business e di sviluppo prodotto. I modelli lineari (make-take-waste systems) non sono più sostenibili in un mondo che si avvicina a ospitare 8 miliardi di persone entro il 2030. Non tiene conto dell’ambiente, della qualità della vita. Occorre allontanarci, svincolarci dal fast-fashion e  arrivare ad un modello circolare. Mi sono data una possibilità,  ovvimente non da solo, ma con persone e forze complementari alla mia”.

Come fare?  “Zaino in spalla, dopo aver lasciato il mio bellissimo ufficio di Monaco,  con la liquidazione faccio un viaggio di tre mesi in Europa con  amico fotografo e amica attivista. Oggi nessuno ha necessità di una maglietta in più anche se in cotone organico Decido che occorre  focalizzarsi su tre temi fondamentali. L’acqua: il 20% dell'inquinamento globale delle acque proviene dal mondo della moda. La terra: nessuno sa quanto viene sfruttato un terreno per produrre le nostre magliette e quanto viene inquinato.

Nel  viaggio in Europa,  incontra organizzazioni impegnate e comprende che  molti desiderano “diventare investitori in una moda responsabile, non più consumatori.” Vara un progetto imprenditoriale. Il brand, che diventa movimento,  ha  naming  Wrad, oggi co-fondato nelle sue varie dimensioni assieme a Victor Santiago e Silvia Giovanardi,  compagni di percorso..  Seguito sui social media da  10mila giovani nel primo anno,  come sinonimo di un modo di essere “ Wrad,  lottare per attuare un cambiamento positivo per migliorare le condizioni di questa industria.”  A San Francisco, Londra, New York, Los Angeles la consapevolezza cresce. In Italia è da costruire.  Ciò che  Wrad produce  è  un mezzo per amplificare il  messaggio.  Non un fashion brand, ma un catalizzatore per ispirare il mercato a manifestare valori intangibili con mezzi tangibili, semplici.

Nel  dicembre 2015 crea con i primi ambassadors il format di  un primo progetto informativo- educativo. Un corsa di fundraising, a Milano, Vicena e Rimini, in simultanea lo stesso giorno, a favore di Fashion Revolution,  la fondazione fondata nel 2013 da Orsola de Castro e Carry Sommers, a seguito del crollo di Rana Plaza per promuovere e fare pressione per un'industria più trasparente. “Nella  corsa abbiamo  attivato in prima persona i nostri followers dei social media. A ogni chilometro, a Parco Sempione, una stazione  raccontava un aspetto della relazione tra la moda, l'ambiente e le persone. La corsa è diventata percorso formativo. Il contributo di partecipazione di 5 euro del biglietto  si è moltiplicato, in 10, 15, 25, 50 euro.  Improvvisamente i partecipanti sono diventati investitori, in compagnia e con  due risate “. Un format di mobilitazione  esteso a  Rimini e  Vicenza e trasformato in seguito in un progetto educativo nelle scuole, nelle quali approda  meravigliando gli studenti “non consapevoli  che  il cotone  della loro maglietta proviene da una pianta, di quanti pesticidi ha bisogno per crescere. Sono colpiti dalla  necessità di 9000 litri d'acqua per creare un paio di jeans”.

Il format,  partito dal suo piccolo liceo di Vicenza, Antonio Pigafetta, , è  ora   in 92 paesi nel mondo, con licenza concessa a Fashion Revolution e il supporto di Marina Spadafora, country coordinator della Fondazione in Italia, vincitrice del Women Together Award dell’Onu.  In ogni tappa una decina di ragazzi decidono  volontariamente di voler investire il loro tempo in questa causa. “Il  team di volontari cresce  esponenzialmente. Gli studenti  lo propongono a cascata ai dirigenti scolastici, nel piano di offerta formativa. Il progetto in Italia è finanziato da Wrad con una serie di partner. Raccontiamo il mondo della moda attraverso la vita di un paio di jeans. Nella scuola ricreiamo la filiera di produzione del denim, a partire dal cotone -quindi insegniamo a filare- e arriviamo fino alla tintura. Abbiamo le pentole di indaco naturale e  i ragazzi imparano a tingere naturalmente. Tutto il denim naturale ci viene fornito da  Gigi Caccia di Italdenim, per esempio.”  Gli studenti al termine della giornata hanno creato un loro abito a partire da scarti tessili “partiamo dai  jeans,  il capo di abbigliamento più inquinante al mondo, per far capire il valore,  spiegando le  alternative.  In 45 minuti, studenti dei licei classici e scientifici, cuciono un abito,  un prodotto funzionale a comunicare un messaggio al mercato. Si attivano meccanismi fantastici. E poi facciamo una sfilata. Nelle scuole raccontiamo un modello di business. Non creaiamo moda, ma modus”.

Il progetto genera  naturali controdipendenze e ostilità. “Non solo dall'industria della moda. Proprio queste resistenze ci hanno stimolati verso il nostro primo seed round investment per finanziare l'avvio della produzione di prodotti  generativi di messaggi. Come la nostra  maglietta grigia. Ecco la storia  Susanna Martucci, amministratore delegato di Alisea, azienda che produce la matita  Perpetua  di materiale riciclato e da 20 anni  si occupa di economia circolare, mi invita a riflettere su potenziali applicazioni di svariate tonnellate di polvere di grafite di scarto  che oggi non trovano applicazione. Da una ricerca   scopriamo che 2000 anni fa i Romani tingevano con la grafite. Molte aziende spendono centinaia di migliaia di euro per tingere con sostanze chimiche, mente  migliaia di anni fa i nostri antenati utilizzavano un minerale naturale, atossico.” Si apre una strada di economia circolare che dura 18 mesi, partendo dalla  Calabria, dalla  fonte, citata da  Plinio per la tintura dei  tessuti. “Monterosso Calabro, un meraviglioso paesino di 800 abitanti, con una miniera chiusa da 70 anni,  di proprietà un'azienda piemontese che ha trasferito l’attività in Sud America. L’economia del paese oggi è cambiata molto, perché precedentemente era tutta basata sull’estrazione”.

Un progetto flagship, di grande potenza. “Le signore calabre 90 enni ci raccontarono, in una lingua più vicina al greco che non all’italiano, incomprensibile,  come tingevano i tessuti  le loro mamme, con ciò che scendeva dalla montagna nei giorni di pioggia,  con l’acqua nera di detriti, fango e grafite, che veniva raccolta nelle vasche, chiamate "gurne", nelle  quali buttavano  bucce del melograno, che servivano per fissare il colorante al tessuto e intingevano  i  panni di lino, seta e canapa. Abbiamo trasformato quella ricetta originale in  un processo con un ciclo circolare industriale in grado di  reggere una massa critica. Ci riusciamo dopo numerosi tentativi , nonostante ci venisse detto che fosse impossibile. Nasce Perpetua We Had To Invent It, una maglietta, che  è  la concretizzazione della possibilità di fare economia circolare, a partire dalla tintura di un capo molto semplice, qualitativamente superiore rispetto agli altri, perché la grafite, essendo un lubrificante naturale dà una mano ad ammorbidire il tessuto.”

Qualità, innovazione e tecnologia. Questa  maglietta ha vinto il Best of the Best 2017 al RedDot Product Design Award per il processo di economia circolare che ha attivato, e per la  storia che veicola. “Di solito è il contrario. Disegni la maglietta, decidi come tingerla e poi  crei una storia attorno. Tutti i nostri prodotti nascono all'opposto. Stiamo cercando di portare questa innovazione con la grafite in altre aziende  per generare  un cambiamento a livello globale. Se  i milioni di magliette grigie prodotte ogni giorno venissero colorate con grafite, l’impatto sull’ambiente si ridurrebbe drasticamente”.

Quali i prossimi passi? “Oggi siamo diventati un movimento culturale e stiamo crescendo in modo sinergico come innovatore tecnologico. Recentemente abbiamo registrato, sempre con Perpetua We Had To Invent It e un’altra azienda partner, ItalDenim di Gigi Caccia, un brevetto per una forma innovativa di tintura del denim che ne riduce l’impatto ambientale del 90%. Stiamo lavorando con le Università, Padova, il Politecnico di Milano, Università Bocconi e con la Fondazione Prada. Contatti dai quali si attivano  una serie di connessioni importanti. Le start-up e le società  nate negli ultimi cinque anni fanno proprio il concetto che l'investimento culturale, l’investimento sociale e l’investimento ambientale, sono o un aspetto fondamentale del business. Cioè tutta l'azienda è CSR. Le aziende che hanno il dipartimento CSR, hanno  inizialmente i hanno appunto deciso di integrare con la Corporate Social Responsability inizialmente per pressione esterna. Oggi CSR non è più un aspetto marginale, ma deve diventare l'aspetto identificativo del brand se si vuole in qualche modo proseguire nei prossimi 20 anni con i clienti della generazione Z. Ma soprattutto se si vuole fare la cosa giusta: dare alle aziende una funzionalità sociale e/o ambientale.” ÜBER-brand, come afferma lo studioso di marketing Wolfgang Schäfer, “ i brand del futuro devono essere brand che non fanno prodotto, ma fanno del bene”, hanno una funzione che trascende il prodotto. In ogni campo, nella moda come nella cosmesi, il prodotto è cultura.

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