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Giù la maschera, Adolfo Wildt

  • Pubblicato il: 27/01/2012 - 11:25
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FONDAZIONI D'ORIGINE BANCARIA
Articolo a cura di: 
Redazione
La «Maschera dell’idiota» (1910) di Adolfo Wildt fotografata da Massimo Listri

In questo servizio ne interpreta le opere il fotografo Massimo Listri
Forlì. I Musei San Domenico, dal 28 gennaio al 17 giugno, ospitano la rassegna «Adolfo Wildt. L’anima e le forme tra Michelangelo e Klimt», curata da Fernando Mazzocca e Paola Mola, con l’allestimento di Wilmotte et Associés e Studio Lucchi e Biserni e l’organizzazione della Fondazione Cassa dei Risparmi di Forlì in collaborazione con il Comune (catalogo Silvana Editoriale). Ne parla, in questa intervista, lo stesso Mazzocca.
Perché Wildt, pur avendo raccolto molti riconoscimenti in vita, è stato poi quasi dimenticato?
Wildt è stato un uomo tormentato e un artista incontentabile, alla ricerca di sfide sempre più difficili e ardite. Lui stesso ricordava che nel 1906 era discesa su di lui una «notte mentale che mi tenne nella sua tragica ombra per tanto tempo. Soffrivo fino a rasentare la follia». Da questo stato emergerà dopo tre anni, siglando lo splendido e inquietante «Autoritratto», con la maschera tragica del suo volto scavato proiettata su fondo oro, con tre croci. Eppure doveva essere soddisfatto dei risultati raggiunti. Nel 1894 aveva iniziato un rapporto esclusivo con Franz Rose, un ricco latifondista prussiano, che per ben diciotto anni gli consentì di lavorare senza problemi e senza condizionamenti. Questa lunga relazione lo avvicinò all’Europa delle Secessioni e in quegli anni le sue opere furono presentate e premiate alle grandi esposizioni di Monaco, Dresda e Berlino. La svolta avvenne quando l’ultimo capolavoro creato per Rose, una grande fontana con tre figure («La Trilogia»), che ora giace pressoché dimenticata in un angolo remoto della Villa Reale a Milano, venne esposta alla Biennale di Brera del 1912 dove, nonostante la controversa accoglienza della critica, vinse il prestigioso Premio Principe Umberto. Da allora, pur tra molte polemiche, il suo successo fu inarrestabile: era detestato da molti, ma celebrato alla Biennale di Venezia, ammirato da D’Annunzio, Pirandello, Sarfatti, Ojetti, Carrà e Sironi che lo celebrò, alla morte avvenuta nel 1931, con uno splendido necrologio.
Quanto pesò la sua presunta prossimità al fascismo?
Su di lui è calato un velo di silenzio nel dopoguerra, ma non solo per essere stato ingiustamente considerato troppo vicino al fascismo. La vera ragione fu che la sua visione della scultura venne ritenuta antitetica a chi, come Medardo Rosso e Arturo Martini, furono considerati gli interpreti di una visione più moderna.
Com’è organizzato il percorso della mostra?
Abbiamo seguito un andamento cronologico che mettesse in evidenza il mutamento di temi e di soluzioni stilistiche da un periodo all’altro: da una fase iniziale pervasa da un drammatico spirito eroico, come nel «Vir Temporis Acti» o nel «Prigione», a una contraddistinta da una spiritualità al femminile, come nel «Rosario», nell’«Anima e la sua veste», in «Maria dà luce ai pargoli cristiani», alle successive invenzioni «surrealiste» come «La concezione» o il grande «Orecchio», allo scatto delle opere finali come il «Ritratto di Margherita Sarfatti» e il «Puro folle». Ma la mostra segue in realtà due percorsi, in un continuo confronto tra le opere di Wildt e quelle di Crivelli, Donatello, Bramantino, Ghirlandaio, Michelangelo, Bambaia, Dürer, Cosmè Tura, Bronzino, Bernini, Canova, Previati, Casorati, De Chirico, Carrà e Melotti e Fontana, suoi allievi a Brera.
Ci sono novità scientifiche e restauri importanti?
Questa mostra non sarebbe stata nemmeno pensabile senza gli studi di Paola Mola, a partire dagli anni Ottanta. Così diversi restauri, come quello del monumento a Nicola Bonservizi, hanno consentito di restituire alcune opere alla loro originaria bellezza.
Perché a Forlì una mostra del milanese Wildt?
Il Museo Civico di Forlì conserva un cospicuo nucleo di sue opere, capolavori eseguiti per il suo mecenate forlivese, il marchese Ranieri Paulucci de’ Calboli. Così l’atmosfera metafisica della città, che conserva l’impronta urbanistica e architettonica del Ventennio, la rende particolarmente adatta all’opera di Wildt.
Con quali caratteristiche emerge il suo linguaggio figurativo?
Sono proprio i confronti, direi tutti molto puntuali, con le opere cui lui si è ispirato e quelle dei contemporanei a farci capire finalmente l’originalità e la modernità di un percorso figurativo unico proprio per la capacità di trasformare le sue fonti in un’idea nuova della scultura, basata sulla smaterializzazione della materia (Ojetti diceva che era «capace di galleggiare»), e su una sorta di annullamento dei confini tra la scultura e la pittura. La sua è un’arte sperimentale, sempre alla ricerca di soluzioni ogni volta sorprendenti, per rappresentare contenuti che possono apparire sofisticati e difficili, temi come quello privilegiato della maschera.
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di Stefano Luppi, da Il Giornale dell'Arte numero 316, gennaio 2012