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Focus Impresa Culturale. Per una nuova definizione: riconoscimento, responsabilità e collaborazione

  • Pubblicato il: 18/07/2017 - 18:22
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Rubrica: 
DOVE OSA L'INNOVAZIONE
Articolo a cura di: 
Giovanna Barni

Proseguono i confronti a margine della prima conferenza sull’impresa culturali tenutasi a L’Aquila. Un commento di Giovanna Barni, Presidente di CoopCulture “manca una prospettiva prospettiva unitaria e di sistema Il tema del riconoscimento del valore dell’impresa culturale. (…) L’impresa culturale risulta di utilità pubblica per diverse ragioni - tutte concatenate tra loro - e come tale destinataria “naturale” di incentivi e misure agevolative. (…) Occorre ai diversi livelli, assumersi la responsabilità di una programmazione intersettoriale e territoriale di tipo sistemico e multistakeholders (…). La chiave di volta è l’individuazione di forme evolute e partecipate di partenariato pubblico-privato”.
 

“Ciò che più manca, spesso, è la sensibilità alla materia (anche da parte di quelli che dovrebbero averne più cura e i politici e professionisti più illuminati ne sanno qualcosa), manca visione di una economia diversa e più attuale, mancano prospettiva e coraggio. Cultura, anche.”
Così chiude Franco Broccardi (BBS-Lombard) la sua accurata analisi su Imprese culturali e creative alla ricerca di definizione. Da economista della cultura pone correttamente l’accento sulla mancanza di una visione economica diversa e più attuale ma parla anche di mancanza di prospettiva.
 
Anche dal mio punto di vista di imprenditrice e cooperatrice, manca una prospettiva prospettiva unitaria e di sistema del settore,  all’interno della quale possa essere riconosciuto anche il ruolo dell’impresa culturale, la sua capacità di generare utilità pubblica, anche economica, in specie se opera nell’ambito della fruizione pubblica del patrimonio culturale e se in forma no profit, restituendo il valore generato al territorio e alla comunità interessata.
 
Nonostante i molti cambiamenti nel settore degli ultimi anni - sia in ambito di politiche nazionali che di quelle europee - i dibattiti accesi e il proliferare di convegni, permane la sensazione che i promotori di questi interventi, pur con ottime intenzioni, perseguano una prospettiva parziale, la propria, poco propensa a conoscere e ri-conoscere contributi ed esigenze degli altri, seppure, come nel caso specifico della cooperazione che è quello che conosco meglio, si tratti di un apporto di oltre 1.500 imprese, presenti in 792 luoghi della cultura con oltre 15.000 occupati. La rappresentazione del settore resta quindi molto frammentata e, in questo contesto, il valore dell’iniziativa di Federculture, Alleanza delle Cooperative Italiane e Forum del Terzo Settore ed Agis, sta in primo luogo nell’aver riunito allo stesso tavolo di lavoro per circa un anno attori molto diversi - il mondo delle imprese pubbliche, le cooperative, le associazioni e la cooperazione sociale – che hanno potuto, scambiandosi il punto di vista, verificare la missione comune e distintiva (quello della fruizione pubblica del patrimonio culturale, pur nella consapevolezza di far parte del più ampio sistema delle imprese culturali e creative) e individuare le tematiche centrali non per la loro sopravvivenza ma per lo sviluppo del settore nel suo complesso.
 
Il tema del riconoscimento del valore dell’impresa culturale si è posto pertanto come quello più urgente rispetto al confronto con l’Amministrazione Pubblica  e, grazie ai contributi di ciascun partner, sono emerse le diverse componenti del potenziale che esso avrebbe: Federculture ha posto l’accento sulla capacità di fare impresa con autonomia organizzativa, economica e finanziaria, la Cooperazione ha puntato anche sui risvolti occupazionali di una forma basata sulla cooperazione tra persone e anche tra imprese, il Forum del Terzo Settore ha apportato la visione di una nuova economia solidale e delle comunità, l’AGIS ha puntato sull’importanza della tutela della creatività italiana. L’impresa culturale risulta così essere di utilità pubblica per diverse ragioni - tutte concatenate tra loro - e come tale destinataria “naturale” di incentivi e misure agevolative.
 
Alla pluralità degli attori corrisponde il tema delle responsabilità specifica di ciascuno nell’ambito di una visione necessariamente di sistema.
Ad esempio accanto alla riforma dei musei statali servirebbe una visione organica delle relazioni tra il museo e gli altri soggetti del territorio, gli interventi a favore delle start-up culturali dovrebbero preoccuparsi anche della infrastrutturazione dei contesti affinché quelle imprese non solo nascano ma possano anche operare, crescere, redistribuire reddito e generare occupazione, e quelle misure per far crescere il sistema produttivo, come “Cultura Crea”, dovrebbero sostenere non tanto singole iniziative quanto piuttosto filiere territoriali che siano moltiplicatrici di valore aggiunto. Infine, è ovvio che oltre ad un uso efficiente dei fondi per il restauro e le riaperture,  occorrerebbero anche misure volte a rendere sostenibile la gestione anche laddove esternalizzata.
 
Occorre in sostanza, ai diversi livelli, assumersi la responsabilità di una programmazione intersettoriale e territoriale di tipo sistemico e multistakeholder.  Questa visione emerge dalla  tipologia di  premiati con il premio di Cultura di Gestione che hanno mostrato una responsabilità di sistema:  una fondazione che, oltre a generare risorse, si impegna in un confronto continuo con la comunità, due cooperative che promuovono la fruizione culturale attraverso il coinvolgimento delle comunità, associazioni che rigenerano contesti urbani e territoriali con una funzione innovativa e non sostitutiva delle imprese.  
 
Infine il tema della collaborazione. Nell’era della ratifica della  Convenzione di Faro e dei commons, mi pare si stenti a comprendere che la chiave di volta è l’individuazione di forme evolute e partecipate di partenariato pubblico-privato (e magari anche regole certe che consentano anche alle imprese di programmare risorse e investimenti): il pubblico dovrebbe fornire le linee,  guidare e monitorare, le imprese dovrebbero fare da connettore e mettere know-how, investimenti, e professionisti specializzati, le comunità dovrebbero dare voce ai bisogni e contribuire a definire le risposte. Ecco, così credo dovrebbe funzionare.
Lo aveva chiaro il Costituente che all’art. 41 della Carta Costituzionale prevedeva “ L'iniziativa economica privata è libera./(Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.)/ La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali. “
 
Tornando allora alla questione della definizione, mi pare importante prima ancora che soffermarsi sugli aspetti strettamente giuridico-normativi, stabilire quale debba essere  ”l’essenza” di una impresa culturale. E mi pare che questo rinvii al suo potenziale portato di “interesse generale”, nelle sue tante accezioni da svelare, monitorare, misurare, all’interno di un settore economico rilevantissimo, seppure diversamente (per fortuna) collocabile nell’ambito dell’innovativa “economia circolare”.  Infatti non basta semplicemente progettare ed erogare un’attività culturale in grado di agire sui pubblici in termini di audience development (e quindi culturalmente sostenibile), è necessario che i proventi di quella attività restituiscano anche altro all’interesse generale: mediante la loro redistribuzione nel territorio in cui vengono realizzate con l’attivazione di catene del valore più lunghe (sostenibilità economica); mediante l’occupazione di forza lavoro di quello stesso territorio (sostenibilità organizzativa); mediante la crescita complessiva del senso di comunità che sul quel territorio si può generare.
 
Solo a valle della sussistenza di tale “pre-requisito”, si può lavorare alla definizione di una normativa ad hoc per l’impresa culturale che rimuova i fattori ostacolanti (frammentarietà dei contesti e delle programmazioni, complessità delle procedure, assenza politiche del lavoro ad hoc difficile accesso al credito, pressione  fiscale) e determini i fattori abilitanti (infrastrutture territoriali comuni, semplificazione delle procedure, politiche del lavoro incentivanti, contributi agli investimenti di sistema, accesso al credito agevolato).
 
Giovanna Barni, Presidente CoopCulture 
 
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