Come fare l'assessore senza soldi
La questione dei fondi per la cultura, oggi ancor più che in passato, è un campo minato. Penso che sia buona cosa cercare di sminarlo, almeno un po’.
La prima mina consiste nell’assioma che oggi non ci sono più soldi. Quanto c’è di finanziario in questo assioma e quanto di politico? Facciamo il caso di Torino. Si legge in questi giorni sui giornali che bisognerà ragionare su 23-24 milioni destinati ogni anno alla cultura da parte del Comune. Poiché il bilancio complessivo è intorno ai 1.300 milioni, se ne deduce che alla cultura viene assegnato meno del 2% del totale. Non spingiamoci fino alla città di Lione che destina il 20% alla cultura; limitiamoci a fare un po’ di benchmarking tra 10-15 città europee che dicono, come fa Torino, di considerare la cultura un motore di sviluppo di primaria importanza. Constateremo che siamo completamente fuori misura. Se la torta si è ristretta, non per questo la percentuale di bilancio destinata alla cultura si deve ridurre: se era, poniamo, il 6%, adesso lo sarà di una torta più piccola ma rimarrà quello. Se invece si riduce al 2% è perché si è scelto di saccheggiare la cultura per poter tenere fermi altri settori. Allora non è vero che la cultura è una priorità. Stiamo parlando di cifre che comunque non sbilancerebbero un bilancio generale di quelle dimensioni. Quindi ci sarebbe spazio, se lo si volesse, per la politica e per le sue scelte.
La seconda mina ha a che fare con il famoso coinvolgimento dei privati. In una bella intervista di Rampini («la Repubblica», 22 aprile), Gianandrea Noseda, direttore artistico del Teatro Regio di Torino, ribadisce che il Metropolitan di New York è sostenuto per il 98% da sovvenzioni che i privati detraggono dalle tasse. In Brasile è entrata da poco in vigore una legge che rende più conveniente devolvere alla cultura che pagare le tasse. In questo modo il sostegno alla cultura diventa più rapido ed efficace. Certo: tuttavia è lo Stato che paga, non i privati. Supponiamo comunque che i privati debbano collaborare anche al di là delle defiscalizzazioni. L’esperienza mi insegna che lo fanno solo se gli enti pubblici dimostrano di assegnare un ruolo significativo alla cultura, non se le destinano meno del 2% del bilancio complessivo. Se la cultura non è importante per il Comune perché lo dovrebbe essere per i privati?
La terza mina riguarda gli sprechi che io ho sempre assimilato alle armi di distruzione di massa in Iraq: si diceva che c’erano per avere il pretesto di invadere e di distruggere. Si saccheggiano i contributi alla cultura perché ci sono gli sprechi; poi si scopre che non ci sono ma ormai il saccheggio è avvenuto e non si torna più indietro. Gli sprechi vanno eliminati, ci mancherebbe; ma per gestire meglio il budget, non per ridurlo. Non a caso ho messo al primo posto la questione della fetta di bilancio che è «scientificamente» necessario assegnare alla cultura affinché ne traggano vantaggi i cittadini, le imprese, l’immagine della Città. È sacrosanto che quel budget vada utilizzato al meglio, ma innanzitutto ci deve essere.
Mi resta difficile dire che cosa può fare un assessore alla Cultura oggi che non ci sono più soldi. È fin troppo evidente che senza soldi non si può fare nulla specialmente se, per i motivi che ho illustrato, sono alquanto illusorie le scappatoie che puntualmente spuntano fuori quando si parla di questi argomenti: il coinvolgimento dei privati, l’eliminazione degli sprechi e via di questo passo. Come è già successo in passato bisogna avere fiducia nella ragionevolezza e nella mobilitazione e non arrendersi a visioni ragionieristiche che nascondono rappresentazioni mentali non molto diverse da quella che aveva portato un ministro a dire qualche tempo fa che «con la cultura non si mangia».
Fiorenzo Alfieri
Assessore alla Cultura della Città di Torino, 2001-11
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da Il Giornale dell'Arte numero 320, maggio 2012