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2018 Anno europeo del Patrimonio Culturale: la «distruzione creativa»  come presupposto di conservazione e di sviluppo

  • Pubblicato il: 15/02/2018 - 08:07
Rubrica: 
STUDI E RICERCHE
Articolo a cura di: 
Valentina Montalto

Questo mese completiamo la recensione dell’edizione speciale di Cartaditalia dedicata al 2018, Anno europeo del Patrimonio Culturale. Il volume II fa il punto su questioni più tecniche che vanno dalla gestione, alla valutazione alla digitalizzazione del patrimonio culturale. Nonostante si tratti di temi noti e già trattati in più sedi, l’orientamento proposto è straordinariamente innovativo e per certi versi provocatorio. Vengono, infatti, proposti approcci e pratiche che hanno molto più a che fare con la « distruzione creativa »  e lo sviluppo sociale che con la mera logica di salvaguardia o crescita economica.


Come promesso, questo mese completiamo la recensione dell’edizione speciale di Cartaditalia dedicata al 2018, Anno europeo del Patrimonio Culturale, e curata da Pier Luigi Sacco, professore allo IULM di Milano e consulente del Commissario Europeo per l’istruzione e la cultura Tibor Navracsics.
Mentre il volume I delinea principalmente la visione e l’ambizioso quadro politico entro cui si inserisce l’Anno europeo del Patrimonio Culturale, il volume II fa il punto su questioni più tecniche che vanno dalla gestione, alla valutazione alla digitalizzazione del patrimonio culturale. Nonostante si tratti di temi noti e già trattati in più sedi, l’orientamento proposto è straordinariamente innovativo, attuale e per certi versi provocatorio. Il patrimonio viene, infatti, approcciato in un’ottica che ha molto più a che fare con lo sviluppo e la responsabilità sociale di questo sviluppo che con la mera salvaguardia o crescita economica.

C:\Users\Valentina\Dropbox\Personal\Articoli e contributi\Il Giornale delle Fondazioni\cartaditalia\wordcloud (2).jpgHo provato a testare questa mia impressione identificando le parole più utilizzate nel volume e mettendole in una « nuvola di parole » (wordcloud). Ne viene fuori un quadro interessante: oltre (ovviamente) alla parola «cultura », almeno altre tre parole saltano all’occhio: « sociale » in primis seguita da « Faro »  e « città ». E non è un caso. La Convenzione di Faro è, infatti, al centro del nuovo paradigma che si sta delineando e che mette al centro il diritto a partecipare alla vita culturale, la responsabilità individuale e collettiva nei confronti del patrimonio culturale e il suo uso sostenibile. L’importanza delle città quali principali beneficiari e co-gestori del patrimonio è inoltre sotto gli occhi di tutti. Come tutto ciò viene declinato nel volume?
Christian Ost (ICHEC Brussels Management School) e Francis Carpentier (BOZAR, Bruxelles) propongono un’ottica più pragmatica e contingente che guardi al patrimonio culturale come risorsa potenziale per le sfide odierne a livello economico ma anche sociale e ambientale. Il concetto di « distruzione creativa » à la Schumpeter è proprio quello che potrebbe venirci in aiuto per capire come e cosa conservare nei prossimi decenni. La proposta potrà sembrare ad alcuni blasfema, ma gli autori ci ricordano che nel Medioevo gli anfiteatri romani erano utilizzati per funzioni diverse da quelle per cui erano stati inizialmente progettati. La riconversione degli ambienti può contribuire non solo alla rigenerazione sociale ed economica delle città e dei territori, ma anche ridurre l’espansione urbana, evitando sprechi e conservando l’energia contenuta negli edifici. L’invito è chiaro: « Il settore del patrimonio culturale deve abbandonare posizioni di comodo, in cui ci si limita solo a ribadire quanto il patrimonio sia importante, e adottare una logica trasversale, in grado di affrontare le molteplici problematiche ad esso sottese » (Christer Gustafsson, Università di Uppsala, p. 284).

Per il settore professionale questo significa avviare collaborazioni intersettoriali che integrino diverse prospettive di studio, a fini di conservazione, di valorizzazione ma anche di valutazione degli impatti. Valutare il patrimonio significa pensare oltre i benefici turistici, allargando lo sguardo ai possibili impatti sull’attrattività dei territori per le attività creative e le persone altamente qualificate - come per altro dimostrato da un recente studio accademico (Backman & Nilsson, 2016), su know-how e competenze, nonché sull’innovazione, per esempio attraverso il ripensamento di mestieri tradizionali (Joanna Sanetra-Szeliga, Centro culturale internazionale di Cracovia, pp. 288-299).

Ma come valorizzare, concretamente, il patrimonio? Non si tratta soltanto di adottare una prospettiva olistica ma anche di sviluppare nuove competenze, principalmente improntate al dialogo con il pubblico. Fino alla metà del XX secolo questa operazione era più semplice perché il pubblico era molto omogeneo. Oggi, gli addetti alla mediazione museale devono far fronte a una società in trasformazione e a pubblici potenzialmente più ampi. « Ma se l’obiettivo è veramente quello di aumentare in misura significativa questa percentuale [di pubblico che frequenta i musei], i musei dovranno trasformarsi, mostrandosi aperti nei confronti della società. Un compito, questo, doppiamente importante, tanto per la società, che ha bisogno d’istruzione e di valori, quanto per gli stessi musei, che, nel lungo periodo, riusciranno a sopravvivere solo mantenendo vivo l’interesse del pubblico nei loro confronti » (Eckart Köhne, archeologo, p. 332). Nel panorama italiano, il Museo Archeologico Nazionale di Napoli (MANN) si contraddistingue per l’approccio inedito adottato negli ultimi anni in termini di audience engagement e audience development. Nel 2016, il direttore Paolo Giulierini ha commissionato la realizzazione di un videogioco ambientato nella città di Napoli e nelle sale del museo che ha dato vita a Father and Son. I risultati sono andati ben al di là delle aspettative: 650mila i downloads, circa 100 i paesi nei quali Apple e Google hanno scelto il videogioco come « app vetrina » e un voto medio degli utenti che va da 4,3/5 (App Store) a 4,7/5 (Android), secondo i dati riportati da Ludovico Solima (Università della Campania Luigi Vanvitelli). La digitalizzazione dell’Archivio Storico Ricordi è un altro esempio di progetto d’avanguardia che mira a potenziare la conservazione e l’accessibilità alla ricchissima raccolta di fotografie, testi e partiture iniziata a fine ‘800, grazie all’uso di nuove tecnologie. Forse più controverso ma non meno interessante il progetto Google Arts & Culture, in cui Google si propone come fornitore di servizi di digitalizzazione, lasciando la qualità del contenuto sotto la responsabilità dei musei aderenti.

Purtroppo, però, l’investimento culturale non è a costo zero. Da un lato, i rischi di deterioramento e di vandalismo diventano sempre più frequenti lì dove il numero dei turisti supera la capacità ricettiva delle città (Greg Richards, Università di Breda, pp. 397-411), dall’altro la gestione stessa del patrimonio si fa sempre più complessa proprio per la difficoltà di trovare il giusto equilibrio tra interessi molto diversi (Lluís Bonet, Università di Barcellona, pp. 301-319). Occorre dunque adattare quanto fatto finora per massimizzare i benefici e minimizzare i costi, passando da piani gestionali verticali a piani orizzontali, che coinvolgano stakeholders diversi, cittadini inclusi (Giorgio Andrian, Università di Friburgo, pp. 374-395; Luis Girao, Artshare, pp. 457-471). Prosper Wanner (ingegnere urbanista, pp. 445-455) immagina addirittura delle modalità di gestione che superano completamente l’ottica neoliberale e affidano il patrimonio alla comunità locale - qualcosa che in qualche modo sta già succedendo, in altri ambiti, con la tecnologia blockchain. Chissà che la logica sottostante non diventerà forza trainante anche per la gestione del patrimonio culturale. Sembra impossibile, eppure - parafrasando l’artista Friedensreich Hundertwasser - è il sognare insieme che determina l’inizio di una nuova  realtà.

Questa breve recensione senz’altro non rende giustizia alla ricchezza del volume. Gli autori dei singoli contributi non me ne vogliano se la sintesi ha eccessivamente semplificato il loro pensiero. Quanto ai lettori de Il Giornale delle Fondazioni, spero che questa recensione abbia stimolato la vostra curiosità e vi porti a leggere l’intera pubblicazione. Ne vale davvero la pena.

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