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TRUTH TO POWER. Quella innovazione necessaria per il Terzo Settore

  • Pubblicato il: 18/05/2018 - 08:06
Rubrica: 
OPINIONI E CONVERSAZIONI
Articolo a cura di: 
Francesco Mannino

A seguito dell’intervento di Carola Carazzone, segretario generale di Assifero, sulle nostre colonne, nasce  un intenso dibattito sui modi fin qui adottati per sostenere il Terzo Settore e le sue potenzialità sociali. Abbiamo chiesto a Mauro Magatti, sociologo ed economista, il punto di vista sulla posizione espressa da Carazzone e sulle implicazioni di quella riflessione. La trappola delfare molto con molto poco”. percorso quello che gli studiosi chiamano Starvation Cycle, o “ciclo della povertà (fame)”: un processo perverso, più che un circolo vizioso piuttosto una spirale elicoidale che spinge inesorabilmente le organizzazioni non profit giù verso il baratro; quelle organizzazioni che vivono prevalentemente di fondi provenienti da fondazioni o enti pubblici. Del perché tutto ciò avviene, e cosa potrebbe servire per invertire la rotta


Se state leggendo questo articolo è molto probabile che siate una organizzazione non profit, una associazione, una fondazione, una cooperativa o un’impresa sociale, oppure qualcuno molto interessato al variegato mondo degli Enti del Terzo Settore. È probabile anche che, con i vostri associati, abbiate una discreta capacità di produrre benessere per una porzione di comunità di riferimento: benessere fisico, mentale e sociale, con i mezzi del sostegno, dell’accompagnamento, dell'assistenza, dell’educazione, della cultura o dello sport. Magari avete le competenze, l’esperienza, e anche notevoli riscontri quando vi occupate di perseguire il bene comune, di elevare i livelli di cittadinanza attiva, la coesione  e  la protezione sociale,  favorendo  la  partecipazione,  l'inclusione  e  il   pieno sviluppo della persona.
 
Quindi probabilmente saprete che spesso queste attività non equivalgono alla automatica capacità da parte di chi ne usufruisce di corrispondere del denaro per coprire i costi che le attività stesse generano: pertanto è plausibile che voi e la vostra organizzazione siate  continuamente alla ricerca di fondi per raggiungere i vostri obiettivi. E sapete anche che per ottenere quei fondi dovrete giocoforza racchiudere le vostre attività in un progetto a tempo determinato, sintetizzabile in un cronoprogramma e in un piano finanziario che dovranno essere poi sottoponibili a precisa rendicontazione ex post.
 
Se tra i vostri finanziatori ci sono altri enti non profit (o probabilmente enti pubblici), è plausibile, forse avete sentito affermazioni del tipo «noi vi sosteniamo, ma siccome non abbiamo molta disponibilità e i progetti simili ai vostri sono davvero tanti, dovete fare uno sforzo e fare molto con molto poco». A voi, che passate gran parte del vostro tempo a cercare risorse, non pare vero innanzitutto di poter usufruire di quella (seppur contenuta) somma ventilata, e accettate il ragionamento consci che comporterà sì la realizzazione delle vostre attività ma a cinghia stretta, anzi strettissima: probabilmente non potrete pagare personale specializzato e dovrete ricorrere a volontari oppure a personale generico, e certamente a quel giro salterà la possibilità di investire in attrezzature nuove, formazione e aggiornamento professionale, consulenze (tutte le cosiddette “spese generali” o overheads) etc. Ma tant’è, chi si accontenta gode.
 
Addirittura, pur di poter avere la speranza di tornare a usufruire di quelle (magre) risorse, alla conclusione dei vostri faticosi e complessi progetti, quando arriva il momento di fare il vostro report finale, farete in modo che tutto ciò che è stato fatto sembri bellissimo anche se non è andata proprio così (misrepresentation): abbiamo fatto il massimo con il minimo, abbiamo raggiunto tutti gli obiettivi, abbiamo lavorato (quasi gratis) con il sorriso sul volto, consci che il fine giustifica i mezzi. E quasi certamente troverete nei vostri finanziatori un compiaciuto riscontro, soprattutto sul contenimento dei costi generali (sempre quelli).
 
Ma poi succederà qualcosa, quasi sempre. Succederà che, a seguito della vostra edulcorata auto-narrazione felice e ottimistica, i vostri interlocutori decideranno che quindi sarà possibile stringere ancora di più la cinghia: perché «quest’anno i soldi sono ancora meno», oppure perché «avete dimostrato di essere bravissimi a risparmiare» (funders' unrealistic expectations), o ancora perché «è giusto aiutare anche altri». E inspiegabilmente vi troverete a contare su ancora minori risorse, dovendo ottenere gli stessi risultati o anche migliori: chi si accontenta di fare sempre le stesse cose? (to do more and more with less and less). Nel frattempo i vostri omologhi (competitori?) si arrabbieranno con voi perché avete accettato una ennesima riduzione del budget, e la vostra reputazione ne potrebbe molto soffrire. Ma, pur di fare le cose che fate, siete di nuovo pronti ad accettare il ribasso delle risorse, coscienti che ancora per un altro giro (o progetto) dovrete agire davvero sulle leve del vostro reddito e dei vostri collaboratori, sulla qualità delle attrezzature, sulla salute del vostro mobilio, sulla scelta di una sede piuttosto che un’altra.
 
Bene, se tutto questo vi suona molto familiare, sappiate che avete appena percorso quello che gli studiosi chiamano Starvation Cycle, o “ciclo della povertà (fame)”: un processo perverso, più che un circolo vizioso piuttosto una spirale elicoidale che spinge inesorabilmente le organizzazioni non profit giù verso il baratro; quelle organizzazioni che vivono prevalentemente di fondi provenienti da fondazioni o enti pubblici.
 
Del perché tutto ciò avviene, e cosa potrebbe servire per invertire la rotta, ne ha parlato su Il Giornale delle Fondazioni Carola Carazzone, segretario generale di Assifero (Associazione italiana delle fondazioni ed enti della filantropia istituzionale) e membro dell’advisory board di Ariadne (European Funders for Social Change and Human rights) e di ECFI (European Community Foundations Initiative).
La Carazzone individua sostanzialmente due “miti” che, se non affrontati, possono portare il terzo settore dall’essere preziosa risorsa ad energia non rinnovabile in rapido esaurimento. Vediamoli, questi due miti: innanzitutto il “mantra” che le spese generali dei progetti di quelle organizzazioni possano essere fortemente contratte, incidendo addirittura meno del 15% sui costi complessivi (il settore profit si aggira sul 35% in media: eppure quelle voci sono identiche). In secondo luogo il fatto che, procedendo per cicli di progetti, si possa davvero raggiungere – complessivamente – un benessere diffuso per i destinatari e le loro comunità.
 
Il  segretario generale di Assifero fa però osservare che il primo “mito” incide progressivamente sulla struttura profonda delle organizzazioni, che ad ogni ciclo progettuale si indeboliscono disperdendo capitale umano qualificato e il senso ultimo del concetto di investimento, che si dovrebbe invece basare su una visione strategica di impatto prodotto sul medio/lungo periodo (outcomes) e non sull’intenzione di raggiungere degli obiettivi a breve/medio periodo (output), come tra l’altro stabilito ex ante in un momento assai precedente alla esecuzione del progetto stesso (sulla utilità di questi output il professore Stefano Zamagni aveva già messo in guardia il settore durante il quinto anniversario dell’azione di Human Foundation). Ancora: anche il metodo del secondo “mito” (PCM- project cycle management) non solo è controproducente perché pressoché obsoleto, inadeguato e inefficace, visto che le sfide sociali diventano sempre più complesse e necessitano di approcci strategici di lungo corso, ma anche perché producono di fatto precarizzazione e turn over continuo del personale dell’ente. La progettazione PCM ha di fatto «creato una pletora di consulenti, progettisti, esperti, ghost writer che vincono o perdono i bandi in base alle capacità tecniche di progettazione e non all’impatto reale sulla comunità e sui territori».
 
La Carazzone individua anche alcune strade da percorrere, rivolgendosi alle “sue” fondazioni filantropiche italiane, esortando ad una profonda trasformazione del modo di finanziare, di investire, di erogare diversa e lontana dalla logica dei bandi. L’invito è quello di spostare l’attenzione sui processi e sui risultati, o meglio sugli impatti producibili e prodotti: outcomes e non solo outputs. Un invito a scegliere gli enti del terzo settore su cui investire sulla base della costruzione di relazioni di fiducia basate sulla condivisione della missione e sui meccanismi di comparazione degli obiettivi strategici, ovvero uno stimolo a fondare una grammatica condivisa tra gli enti erogatori, che comincino a usare le stesse metriche per affrontare il tema della scelta delle non profit da sostenere, degli obiettivi da individuare, del tipo di accompagnamento da attuare.
 
Una rivoluzione che però non può riguardare solo gli erogatori, ma – come ci ricorda la citata ricerca di Ann Goggins Gregory & Don Howard del 2009, The Nonprofit Starvation Cycle (Stanford Social Innovation Review: i corsivi in lingua inglese succitati provengono da questo studio) – anche i destinatari dei finanziamenti, quegli Enti del Terzo Settore che, pur di avere qualche risorsa da utilizzare, sono pronti a ridurre o addirittura azzerare le spese generali, contribuendo all’innesco della spirale di impoverimento. Già dieci anni fa a Stanford i ricercatori invitavano le organizzazioni non profit ad una operazione truth to power, fermandosi a comprendere la vera forma dei propri costi di gestione e rinunciando ad una auto-narrazione edulcorata e falsamente rappresentativa, evidenziando invece l’importanza delle spese generali in un’ottica strategica di lungo respiro e la necessità di sostenerle economicamente. Un invito anche a fare le domande scomode sulla vera natura del contesto di intervento e sulla differenza tra obiettivi a breve termine e impatti sociali. Insomma, un invito ad “educare” i propri finanziatori.
 
Abbiamo chiesto un parere su quanto affermato dal  segretario generale di Assifero al sociologo ed economista Mauro Magatti, docente presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Secondo Magatti l’intervento è «utile, coraggioso e tempestivo». 
 
La riflessione della Carazzone ha generato un intenso dibattito, sia perché assai profonda e capace di evidenziare le criticità del rapporto tra fondazioni e altri enti non profit, sia perché proveniente “dall’interno”. Come incide il dibattito  sul percorso che il settore sta vivendo?
Da un lato l’intervento è un invito importante al Terzo Settore a capire che, se vuole avviare dei processi di innovazione e trasformazione, dovrà uscire da una eccessiva dipendenza dalle risorse pubbliche, e dovrà avere il coraggio di guardare ad altre risorse economico-finanziarie e a canali di finanziamento basati su alleanze con vari soggetti che hanno basi e forme diverse da quelle a cui ci si è abituati. Dall’altro, fa emergere che la burocratizzazione di tutto quello che si fa rischia di diventare una gabbia che trasforma i mezzi in fini.
 
Come affrontare questi nodi?
Serve una opposizione attiva: se chi tiene davvero al mondo del Terzo Settore e alle sue potenzialità non si oppone a quella deriva, alla fine distruggerà tutto.  L’innovazione, di cui abbiamo grande bisogno per affrontare la trasformazione in atto, ha bisogno di rischio e il rischio ha bisogno di alleanze, di fare un passo non assicurato insieme: e questo le procedure standardizzate lo impediscono. Tutto questo non può voler dire perdere gli aspetti positivi delle novità introdotte negli ultimi anni: gli atti devono essere pubblici, conoscibili; ci deve essere un’assunzione chiara di responsabilità su chi decide cosa, per fare che cosa; dobbiamo avere la capacità di misurare, con prospettive temporali adeguate, i risultati diretti o indiretti che si raggiungono. L’intervento della Carazzone non è un “libera tutti”, invece è al contrario un passo in avanti rispetto alle riflessioni venute a galla negli ultimi vent’anni, ma che oggi a loro volta si rivelano oramai inadeguate.
 
Hai sostenuto che serve nuova fiducia tra finanziatori e organizzazioni finanziate: ritieni che questo approccio sia davvero praticabile? In che cosa si può tradurre nei prossimi tempi?
Il discorso della Carazzone va collocato nel tempo e nello spazio, per contestualizzarlo. Noi stiamo vivendo una trasformazione, sta cambiando la forma delle cose a cui siamo abituati, da un punto di vista politico, economico e culturale. È dentro questa trasformazione che questa riflessione va collocata. Sui tempi va detto che i cambiamenti sono molto difficili, soprattutto quando avvengono per tre ragioni: se ci sono forze di causa maggiore, problemi o difficoltà che costringono a cambiare, e in parte questo sta avvenendo per il Terzo Settore; se cambiano le regole interne o esterne, e questo è difficile perché ci sono tendenze molto forti alla conservazione; infine se ci sono delle forti leadership. Cambiare non è mai facile, anche per il Terzo Settore, ma siamo in una fase in cui dove non arriva l’intelligenza arriva la necessità. Per un mix tra la prima e la terza ragione succederà qualcosa in tempi ragionevolmente brevi: qualcuno andrà avanti, qualcuno rimarrà indietro, ci saranno delle resistenze e delle opposizioni. Ma i processi saranno più veloci di quello che pensiamo.
 
Come questa riflessione può raggiungere, oltre Assifero, anche altri soggetti erogatori, che siano altre fondazioni o enti pubblici? Molti dei bandi che vengono pubblicati ogni anno sono fortemente incentrati sull’approccio “per progetto”...
Stiamo parlando di un processo di innovazione, che avviene sempre perché ci sono degli esploratori che intravedono un problema:  il problema c’è, anzi nell’articolo sono enumerati diversi problemi. Il modo in cui ci siamo organizzati, le pratiche e le modalità che abbiamo adottato non sono in grado di soddisfare le esigenze del Terzo Settore e del suo sviluppo, ma di conseguenza anche dei beni e dei servizi che il Terzo Settore è  in grado di erogare in questa società contemporanea. La questione è che per fare innovazione da qualche parte si deve cominciare. Si deve costruire una cultura del problema parlandone, prenderlo sul serio andando al di là della provocazione, perché l’innovazione, contrariamente a quello che pensiamo, avviene passo dopo passo: non avviene né per decreto né perché cambi il mondo in cinque minuti. Questo ce lo insegna l’economia di mercato: l’innovazione avviene perché qualcuno apre una strada nuova che prima non c’era. Non c’è solo l’innovazione di prodotto o di bene che si offre, ma anche quella di processo. In questo caso si tratta di innovare il Terzo Settore, che ha un modo di finanziare le proprie risorse particolare, in quanto non di mercato: si tratta di innovare il modo di finanziamento.
Naturalmente questo deve avvenire nel rispetto delle esigenze contemporanee: prima di tutto la trasparenza, ma anche la disponibilità a misurarsi e a tenere conto del discorso dell’impatto. E questo approccio basato sugli impatti non va visto in chiave meccanicistica e quantitativa, ma anche qui dobbiamo un po’ per volta costruire degli strumenti che saranno imprecisi all’inizio ma che poi funzioneranno. Tutto questo è un processo di innovazione, e questo bisognerà fare: bisogna riconoscerne la necessità, avviare delle sperimentazioni, e poi pian piano imparare da loro, renderle note.
 
Ma sulla valutazione degli impatti sembra che nel Terzo Settore ancora non ci siano linguaggi, grammatiche e metriche condivise...
Viviamo in un’epoca in cui abbiamo la fissazione che dobbiamo avere per forza risposte. Non è così: ci sono tantissimi temi della nostra vita contemporanea che sono ancora senza risposta. Ci rendiamo conto del problema, ci rendiamo conto che in tema di misurazione degli effetti siamo ancora molto indietro: bene! Questo è il punto di partenza, qui sta l’innovazione. Una pretesa assurda della contemporaneità è quello di avere subito la soluzione di un problema. Il problema lo si risolve solo se si è disposti culturalmente a prenderlo sul serio, a riconoscerlo: per il Terzo Settore significa innanzitutto riconoscere che c’è un problema e non avere paura del tema della misurazione. Significa nella fattispecie non cedere ad una logica quantitativa ed economicistica, ed essere capaci di cercare delle soluzioni più articolate, provarle, metterle in rapporto alla realtà delle cose.
 
Quindi è un invito alle organizzazioni non profit a prendere l’iniziativa?
È chiaro che il Terzo Settore è diventato un soggetto importante, è chiaro che non può rivendicare una sorta di moratoria da tutto e da tutti in nome semplicemente delle “cose buone” che fa, e che quindi deve lui stesso introiettare questa questione, non averne paura e costruire poco per volta delle soluzioni con i soggetti – all’inizio pochi, solo alcuni – che hanno voglia di cercare e di ricercare.
È dall’interno che arriveranno le soluzioni, non dall’esterno.
 
 
Ph: Starvation Cycle secondo Stanford Social Innovation Review © 2009 by Leland Stanford Jr. University
 
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