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Teatro. Cronaca di una (non) morte (troppe volte) annunciata

  • Pubblicato il: 14/06/2016 - 06:40
Autore/i: 
Rubrica: 
SI FA TEATRO
Articolo a cura di: 
Stefano Monti

Dopo lo sgombro dell'occupazione del Valle, ceduto gratuitamente dal Mibact al Comune che ha stanziato 3 milioni di euro per la messa in sicurezza e il restyling, quando ancora stenta a partire la sua presunta 'rinascita',  arriva una riflessione di Stefano Monti sulle sorti del Teatro

 
Atto Primo: Conclusioni Affrettate
Il teatro soffre. Zoppica, arranca, cercando di colmare quel vuoto a forma di euro che i tagli al FUS e che riforme criticate e criticabili hanno provocato negli anni.
Ma non è morto. Perché piace, soprattutto a chi lo fa. Ovunque. Dai teatri comunali cittadini, alla provincia, nelle scuole, nelle città minori o addirittura nei paesini, nelle periferie, dove non arriva un’offerta culturale derivante da politiche e amministrazioni. In tutti questi territori, il teatro c’è. C’è nelle compagnie amatoriali e nei teatri off, c’è nei teatri indipendenti dalla programmazione innovativa, o nelle rassegne per gli addetti ai lavori.
E allora perché il teatro soffre? Le risposte che sono state date nel tempo possono essere riassunte in tre macro-settori: aspetto economico-gestionale, carenze del sistema pubblico italiano e rigidità dell’audience.
 

Atto secondo: i mille motivi di un fallimento
Cerchiamo di guardarle un po’ meglio. Punto primo. Il teatro tradizionale presenta una struttura dei costi piuttosto rigida: non importa quante persone siano in sala, il costo degli attori rimane lo stesso (così come il costo delle luci, dell’affitto dello spazio, etc.). Punto secondo. Il valore del Fondo Unico dello Spettacolo è calato drasticamente: pur mostrando livelli nominali crescenti, infatti, sono calati sia gli stanziamenti con riferimento ai prezzi 1985, sia l’incidenza sul PIL (dallo 0,0832% del 1985 allo 0,025% del 2014). Il terzo è che il teatro si rivolge ad una platea con caratteristiche di particolare inclinazione al consumo culturale (e quindi le solite classificazioni anacronistiche legate ai livelli di formazione, status sociale, etc.etc.).
Per quanto tutte accreditate e fondate, queste motivazioni non risolvono però la questione in modo definitivo, e di tutte, l’ultima è di particolare interesse. In un approfondito articolo sulle sorti del teatro italiano apparso recentemente sull’Internazionale, si fa riferimento ad un pamphlet, “La fortezza vuota” di Massimiliano Civica e Attilio Scarpellini, si legge che il “teatro è un servizio pubblico e per questo riceve finanziamenti statali. In qualche modo è equiparato alla scuola, ai musei e, anche e perfino, alla sanità pubblica: il teatro serve a far stare meglio l’anima”. Sulla fondatezza di questo “bene meritorio” si può essere o meno d’accordo, ma c’è qualcosa che forse dovrebbe essere sottolineato: nello stesso documento si legge infatti “In Italia nessun teatro potrebbe sopravvivere senza il finanziamento pubblico”.
Perché?
Anche qui, non esiste una risposta univoca, ma di certo si basa sul concorso di fragilità di politiche culturali e sulla visione (per quanto non esplicitata) vuole il teatro come consumo culturale di nicchia e considera che il teatro sia un prodotto “alto”, che non può piacere, fatto salvo gli spettacoli che strizzano l’occhio ai tempi e ai modelli televisivi. Perché c’è da un lato un pubblico ignorante (e qui la responsabilità è dello Stato che non ha provveduto ad educarlo) e dall’altro una grande ricerca che muore perché lo Stato non la finanzia.
Queste riflessioni, che vengono ormai date per scontate, sono in realtà il retaggio di una visione aristocratica della cultura. Le stesse cose si dicevano dell’arte contemporanea prima che il fenomeno della street art ribaltasse la prospettiva, e ora non si fa altro che parlare di come l’arte debba uscire dai musei e dall’autoreferenzialità.
Nel teatro questo, però, non è ancora successo, evidentemente. E la colpa è quindi di coloro che non vanno a teatro, sia che si pensi che la colpa è del teatro (allora deve diventare “commerciale” per favorire il consumo) sia che si pensi che è dello Stato.

Atto Terzo: Colpo di Scena. il sipario aperto al futuro
Queste evidenze, va detto, non coprono l’intero spettro dell’offerta teatrale, né tantomeno intendono indicare un destino ineluttabile, una dichiarazione di incompatibilità tra il teatro e la nostra società. Non solo perché le premesse sono appunto che il teatro continua a piacere e appassionare, ma soprattutto perché esistono virtuose eccezioni al generale mismatching tra programmazione, talenti e modelli di business che mostrano invece, come il teatro, quando strutturato secondo determinati criteri di management, riesca a creare intorno a sé un circolo virtuoso di partecipazione (umana e finanziaria) e ricoprire un ruolo di stimolatore culturale e di aggregatore di comunità. In questo senso vanno anche percepiti gli sforzi (sia finanziari che progettuali) che numerose fondazioni (in Italia) e che la stessa Unione Europea destinano al comparto teatrale. Stimoli che vogliono, spesso, fungere da pungolo per una visione del teatro in grado di conciliare modelli di business differenziati al fine di creare (come spesso accade) una serie di economie di sinergia.
In questo senso il teatro merita, oggi, di essere finanziato: non per la mera gestione caratteristica, ma per la ricerca di nuovi modelli, di nuove coniugazioni e di nuove capacità (di management ma anche più schiettamente di marketing) in grado di comprendere appieno la domanda che emerge dal territorio su cui l’organizzazione insiste ed opera, e fornire un set d’offerta con essa coerente.
Non si tratta di stimolare le gestioni teatrali a comportarsi come mere fornitricii di servizi che rispondono ad una domanda culturale preimpostata: se questo fosse il loro ruolo allora non ci sarebbero difficoltà; basterebbe comportarsi alla stregua di una banale multinazionale e fornire ai consumatori ciò che vogliono, o che credono di volere.
Si tratta di fare di più: si tratta di stimolare le gestioni teatrali a comportarsi come le migliori delle multinazionali: definire il campo in cui operano, comprendere le esigenze manifeste del loro territorio e sulla base di queste creare un percorso che guidi questa “domanda” verso sé, elicitando bisogni, creando desideri.
In questo senso, negli ultimi anni, qualcosa si è mosso, e lo ha fatto attraverso le residenze teatrali, che permettono di creare dei network in grado di far crescere non solo il livello culturale delle compagnie (anche di quelle cosiddette senza fissa dimora), ma di creare una vera e propria cultura teatrale diffusa sul territorio.
Attraverso la residenza teatrale a esempio, si possono iniziare a trovare nuove modalità di produzione degli spettacoli, nuove forme di collaborazione tra compagnie, la possibilità di porre in comune alcuni servizi fondamentali (dal personale tecnico all’utilizzo di materiali e attrezzature) e abbattere così le spese per il singolo spettacolo.
Ma ciò che la residenza teatrale ha permesso di intuire è che forse era necessario un altro modo di finanziare il teatro. Probabilmente, una risposta alla crisi permanente del teatro in Italia, è quella di avviare percorsi che permettano di finanziare nuove produzioni, e di rendere queste produzioni sempre più presenti sul versante territoriale. Creare percorsi di inclusione, piuttosto che arroccarsi nel bene meritorio, accettare che il potenziale di “audience” esiste, e che forse è l’offerta che non sempre risponde alle necessità.
Certo, la residenza teatrale non può essere la soluzione al problema della sostenibilità economica di un settore davvero difficile e complesso da gestire. Di certo, però, vale lo spunto, da cui però molte riflessioni vanno svolte. Creare un sistema economico culturale che metta l’evento teatrale al centro di un sistema d’offerta differenziato.

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