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Salvatore Arancio: un viaggio immaginario tra sogno e realtà

  • Pubblicato il: 15/12/2017 - 00:00
Autore/i: 
Rubrica: 
LA PAROLA AGLI ARTISTI
Articolo a cura di: 
Elena Inchingolo

Passando da Londra alla Biennale di Venezia ad Artissima, ascoltiamo il punto di vista dell’artista sulla sua carriera artistica, il suo processo creativo e le sue ultime collaborazioni.
 

Salvatore Arancio (Catania, 1974) è uno tra gli artisti emergenti più promettenti nel panorama dell’arte contemporanea internazionale.
Con una specializzazione in fotografia presso il Royal College of Arts di Londra, Arancio abbandona lo “scatto fotografico” e focalizza la propria ricerca artistica sul potenziale delle immagini, ovvero come esse possano essere riqualificate e reinterpretate, giocando con simbologie e significati ambivalenti. Questa pratica si manifesta attraverso l'utilizzo di una vasta gamma di supporti quali la ceramica, l'incisione, il collage, l'animazione e il video.
Ogni aspetto della processualità artistica di Arancio implica un dualismo di essenza e rappresentazione dell’immagine: naturale e artificiale, minerale e vegetale, bidimensionale e tridimensionale, scientifica e fantastica. Il suo lavoro si configura come un atlante articolato in figure ibride e ambigue che riflettono la ricchezza e la confusione visuale contemporanea.
Dopo essere stato selezionato da Christine Macel tra gli artisti italiani presenti alla 57° Biennale di Venezia, ritroviamo Salvatore Arancio ad Artissima, nello stand della galleria Federica Schiavo, Milano-Roma; qui le sue opere sono presentate in solo show, nella sezione Present Future della fiera torinese, terminata da pochi giorni con ampio successo di critica e pubblico.
Durante la settimana dell’arte torinese abbiamo incontrato l’artista e gli abbiamo rivolto alcune domande.
 
La tua carriera artistica inizia con la fotografia. Da cosa è nata la necessità di dedicarsi alla sperimentazione materica sulla ceramica?
Ho sentito il bisogno di avere un contatto immediato con la materia e poter creare qualcosa che non avesse una relazione diretta con la realtà e, come la fotografia, non fosse percepito come strumento per documentarne i tratti. Mi intrigava l’idea di proporre e inventare scenari nuovi a partire dalla mia fantasia. E’ pur vero che già con il mezzo fotografico e i primi collages sperimentavo la pratica scultorea presentando elementi tridimensionali fuoriuscenti da immagini bidimensionali. Ho poi attivato il confronto con la ceramica grazie ad una residenza molto formativa presso il Museo Carlo Zauli di Faenza avvenuta nel 2012.

Quali fonti letterarie sono state d’ispirazione per le tue opere?
Colleziono libri che trattano le scienze naturali, la geologia, tematiche che sono meno attinenti alla storia dell’arte, ma che a livello estetico mi affascinano molto. Spesso l’ispirazione per le mie opere nasce da un’attrazione visuale per le immagini. Apprezzo in particolare i “racconti visivi” di Jules Verne e le suggestioni fantascientifiche. Mi interesso in particolare alla letteratura cinematografica che influisce maggiormente sul mio immaginario, prediligendo, in un iter piuttosto variegato, registi-scrittori come Luis Buñuel, Luchino Visconti, Andrej Tarkovskij, Jean-Luc Godard, Alejandro Jodorowsky e direi Carmelo Bene.

Puoi descrivere il tuo processo creativo?
Normalmente l’opera scultorea deriva da una forte suggestione per un’immagine prelevata dal mio archivio/collezione di libri e materiale visivo, raccolto su internet e durante i miei numerosi viaggi visitando musei per lo più di scienze naturali oltre che d’arte. Ciascuna visita diventa per me motivo di piacere personale e di ricerca artistica. E’ a partire da una singola immagine posta in relazione con il contesto e il luogo in cui verrà poi presentata l’opera che prende avvio e si sviluppa il processo creativo. In ogni caso ciascuna opera non è mai la traduzione precisa dell’immagine primigenia che avevo selezionato: ogni suggestione ed elemento si trasforma nella pratica creativa fino ad assumere forme nuove cariche di ogni esperienza vissuta per raggiungere l’esito finale.
Per esempio quando nel 2016 preparai la mia prima mostra personale torinese The Water They Dwell In per Quartz Studio, le opere realizzate per l’occasione restituirono l’intensità di un periodo di residenza presso La Castellamonte, azienda specialista nella lavorazione delle ceramiche, e seguirono ispirazioni suscitate soprattutto dalle grandi conchiglie presenti nel salone di Casa Mollino.

Qual è la colonna sonora del tuo fare arte?
La musica è per me molto importante soprattutto nella misura in cui mi dà la possibilità di astrarmi trasferendomi in un altrove mentale e d’altra parte suggerendomi gestualità e spunti che verranno proiettati nella processualità della lavorazione ceramica. Ascolto musica elettronica e sperimentale come quella dei Coil, dei Kraftwerk o Broadcast che ispirano specifiche atmosfere. Spesso anche i titoli delle canzoni ascoltate mi suggeriscono la denominazione delle opere che diventano a tutti gli effetti elementi costitutivi di quel mondo immaginario nato dal rapporto simbiotico tra ascolto musicale e suggestione visiva.

Puoi raccontarci come sei stato selezionato per la Biennale di Venezia di quest’anno alla quale partecipi con alcune opere allestite presso il Giardino delle Vergini all’Arsenale?
La mia partecipazione alla Biennale di Venezia è avvenuta in maniera piuttosto casuale, nel senso che io conoscevo il lavoro di Christine Macel, ma non avevo mai avuto occasione di collaborare con lei per qualche progetto espositivo. Tra il 2014 e il 2015 ho presentato il mio lavoro in Francia nell’ambito delle mostre personali presso il YGREC, lo spazio espositivo dell’École Nationale Supérieure d’Arts di Paris-Cergy e il Centre d’Art Contemporain La Halle des Bouchers, a Vienne, nei pressi di Lione. Può essere che Christine Macel abbia notato il mio lavoro in quelle circostanze.
In ogni caso l’anno scorso, a marzo, mentre stavo preparando a Castellamonte la mostra per Quartz Studio, ricevetti un’email dal Centre Pompidou e pensai fosse un invito a visitare una mostra del museo. Solo ad una lettura più approfondita capii che si trattava dell’invito per uno studio visit da parte della Macel che era stata nominata da poco direttrice della Biennale di Venezia.
La incontrai poi a Londra qualche mese più tardi e lei mi selezionò con il video Mind and Body, Body and Mind (2015), che avevo realizzato per un’azione performativa alla Whitechapel Art Gallery.
In un primo momento pensò di esporre solo il video, ma da un confronto successivo le esplicitai la mia preferenza a presentarlo insieme alla produzione ceramica. Si decise, così, di comune accordo, di procedere in questo senso purché il video e l’opera scultorea fossero strettamente connessi.
Realizzai Mind and Body, Body and Mind nello stesso periodo in cui utilizzavo l’ipnosi per esorcizzare la paura di volare. Pensai di condividere questa pratica con lo spettatore e su Youtube mi capitò di vedere “How to Become a Better Artist” una seduta d’ipnosi concepita con questa finalità. Incuriosito e divertito da questa idea mi ispirai alla Dreamachine ideata negli anni Sessanta da William S. Burroughs, Brion Gysin e Ian Sommerville, in cui alterazione mentale e rilassamento si alternavano grazie al lampeggiamento della macchina che stimolando il nervo ottico sollecitava l'attività elettrica cerebrale a occhi chiusi. Visioni colorate caleidoscopiche "proiettate" dietro le palpebre potevano evolvere fino ad assumere forme concrete e dare l'impressione di stare sognando - da qui il nome dreamachine, ossia "macchina dei sogni". Pensai così di creare la connessione di cui parlava Macel proprio calandomi in una seduta d’ipnosi e realizzando le opere scultoree in questo modo portando a compimento la buona pratica e diventando così un artista migliore. Si trattava di un’azione ironica, una sfida esistenziale per crescere e compiere un upgrade come artista in soli 16 minuti di video!
Christine Macel accolse entusiasticamente la mia proposta e così in soli tre mesi realizzai grazie alla collaborazione di Ceramiche Gatti di Faenza le 3 imponenti sculture, in ceramica smaltata e non, con interventi in resina epossidica - It Was Only a Matter of Time Before We Found The Pyramid and Forced It Open (2017) - esposte al Giardino delle Vergini in Arsenale. L’idea del progetto nasceva dall’intento di accompagnare il visitatore, al termine della visita in Arsenale, attraverso un “healing garden”, un giardino terapeutico, migliorativo e di buon auspicio per il futuro.

Puoi descriverci il lavoro che hai allestito nello stand della galleria Federica Schiavo, per la sezione Present Future di Artissima 2017?
Ad Artissima ho pensato di presentare un’installazione composta da tre opere differenti. La prima A Soft Land No Longer Distance (2017) è un inedito gruppo scultoreo che ho realizzato presso le Ceramiche Gatti di Faenza dando seguito alla collaborazione nata in occasione della 57° Biennale di Venezia. L’opera si ispira a due sculture di Louise Bourgeois Nature Study e Soft Landscape e crea un’atmosfera sospesa grazie a enigmatiche protuberanze primordiali in ceramica, a tratti iridescente grazie alla tecnica della finitura a lustro, che emergono da una base scura e opaca assimilabile a formazione lavica. Il visitatore fruendo dell’opera approda, metaforicamente, con successo (Soft Land), su un altro pianeta come una navicella spaziale e si trova di fronte ad un paesaggio sconosciuto e nuovo, una stravagante carta topografica che potrebbe essere anche una visione di un passato lontano o dis-topica del futuro.
La seconda opera proposta in stand s’intitola Mineral Being (2017) e include una serie di lavori su carta, più precisamente sulle pagine di un libro di mineralogia degli anni Settanta preso dalla mia collezione personale. Si tratta di un intervento su immagini di minerali con smalti a base di solventi - realizzato durante la mia recente residenza in Messico - a creare quasi una liquefazione delle immagini stesse suggerendo un processo di metamorfosi delle parti, d’ispirazione fantascientifica.
Il terzo e ultimo elemento corrisponde ad un video, realizzato nel 2016 in occasione della mostra personale presso la Kunsthalle di Winterthur. L’opera dal titolo These Crystals Are Just like Globes of Light è l’esito del viaggio in Messico che feci nel 2015 con l’intento di visitare la Grotta dei Cristalli Giganti, di selenite, scoperta circa vent’anni fa sotto una miniera d’argento. Purtroppo non sono mai riuscito a visitare la grotta, perché non mi sono stati concessi i permessi necessari.
Ho però riflettuto sul fatto che Jules Verne, in Viaggio al centro della Terra, descrive una Caverna di Cristalli Giganti con la fantasia ed ho pensato di fare lo stesso immaginando uno spazio sotterraneo composto da immagini recuperate da fonti diverse, in particolare da un’animazione intitolata Fantastic Planet nella quale alcuni cristalli bianchi spuntano dal terreno e poi esplodono. Ciascuna immagine inclusa nel video è stata distorta e potenziata da inserimenti di mie sculture nell’intento di creare una sorta di viaggio fantastico per arrivare alla caverna: un modo per condurre lo spettatore in una dimensione surreale distante dalla quotidianità.

Progetti futuri?
Diversi, di confermato per ora un group show che girerà alcune istituzioni del Regno Unito e un progetto site specific a Matera.
 
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