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Ritorniamo a progettare la cosa pubblica

  • Pubblicato il: 06/01/2012 - 01:14
Autore/i: 
Rubrica: 
OPINIONI E CONVERSAZIONI
Articolo a cura di: 
Carlo Olmo
Carlo Olmo

La progettazione delle opere pubbliche in Italia esemplifica, in maniera sin troppo didascalica, quale triste eredità ci lasciano troppi anni di cattiva gestione di quella che un tempo si sarebbe chiamata «cosa pubblica»: l’uso improprio d'infrastrutture ed edifici pubblici (per creare posti di lavoro o per rilanciare [?] l’economia) insieme con nuovi strumenti di aggiudicazione dei lavori (l’appalto integrato in primis) hanno quasi aperto le porte alla cultura dell’emergenza. E con l’emergenza sono persino spariti gli spazi di un…pensiero critico. Al di là delle infiltrazioni della malavita organizzata e degli sprechi (un esempio quasi provocatorio è lo stadio del nuoto progettato a Roma da Santiago Calatrava, rovina di se stesso) quel che colpisce è l’impoverimento ideativo e progettuale che questa longue durée della Protezione civile ha generato.
Costruire una strada o una linea ferrata è diventato solo collegare due punti su uno spazio geometrico: si è tornati un po' grottescamente a una cultura insieme futurista e a una riduzione del tempo a una dimensione solo economica.
In altri settori delle opere pubbliche, come l’edilizia scolastica (dove l’Italia negli anni settanta era all’avanguardia), si è arrivati al paradosso di escludere la pedagogia e lo studente dal progetto. Come avviene nelle opere pubbliche forse più importanti, gli ospedali, dove non solo il malato non è al centro del progetto, ma dove gli ospedali sono macchine edilizie che ripropongono, persino nella distribuzione spaziale, davvero con molta tristezza, ancora i modelli penitenziari denunziati da Michel Foucault. Le carceri poi segnano il punto più dolente, ma anche più delicato, del distacco che esiste tra progettazione e scelte davvero complesse e spesso contraddittorie che una progettazione, così sensibile al clima poco civile instauratosi sulla sicurezza in Italia nell’ultimo decennio, deve affrontare. Progettare un carcere senza che la società che lo reclama sia chiamata a riflettere sui rapporti possibili tra delitti, pene e recupero possibile di chi sbaglia, appare davvero sintomo di ottusità sociale.
Le opere pubbliche in Italia denunziano in realtà un problema culturale molto più radicale: una loro riduzione a funzioni (circolare, curare, apprendere, punire…) che genera, nel migliore dei casi, tipologie da replicare, del tutto decontestualizzate: cattedrali nel deserto per richiamare una metafora degli anni ottanta.
Si sottolinea in queste pagine come il tema della progettazione delle carceri sia uscito dagli esercizi, più o meno accademici, delle Facoltà di architettura. Ma non è che si studino, così frequentemente, ospedali o, persino, scuole.
La nostalgia che assale colui che compie una passeggiata sulle Alpi di fronte al tracciato delle strade napoleoniche, va di pari passo con la rabbia di chi si trova, tra Chivasso e Novara, a provare ad attraversare il nuovo muro di Berlino eretto dall’Alta velocità. Il fatto che il progetto (non solo quello architettonico) sia fondamentale si coglie da infiniti particolari: dal disegno paesistico delle strade o dei ponti, come avviene, anche oggi, ad esempio in Provincia di Bolzano, sino alla costruzione di un sistema di accoglienza del malato, per cui purtroppo dobbiamo guardare a esempi francesi e tedeschi.
Quel che un po' provocatoriamente si può dire oggi in Italia è che la progettazione è diventata un «lusso». Insieme a una cultura dell’emergenza è prevalsa e sono divenute dominanti la cultura tecnocratica del problem solving e quella edilizia dell’opera che produce reddito e occupazione; culture che non interpretano le funzioni, guardando invece, come dovrebbero, al diritto di cittadinanza in tutte le sue espressioni.
Reclamare un ritorno a una progettazione delle opere pubbliche che si ponga il problema del contesto e dell’utente, non è certo una richiesta corporativa. La qualità (di natura funzionale, morfologica e sociale prima ancora che formale) è la grande assente dalle politiche, le quali non hanno saputo andare oltre le logiche che i tagli lineari di questi ultimi mesi esemplificano in maniera icastica.
La qualità non la si afferma per legge, anche se la legge sulla qualità architettonica giace da due legislature nei cassetti del Senato della Repubblica. La qualità nasce dalla messa in tensione di valori sociali, attori (non solo gli architetti) e politiche che, necessariamente devono ad esempio metter in rapporto una nuova densificazione urbana di funzioni (non solo e nuovamente immobiliari), con uno stop reale al consumo di una risorsa finita qual è il suolo. E questo Giornale non può che essere in prima linea nel rivendicare il ruolo civile di una simile progettazione e la sua importanza anche come misura non congiunturale ma strutturale. Anche perché, per ricostruire il paese e aiutarlo a uscire diverso da una crisi che non a caso è, in primo luogo, valoriale, il ricorso al solo vocabolario linguistico può nuovamente apparire desueto.

da Il Giornale dell'Architettura numero 101, gennaio 2012