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Politiche Culturali Possibili. Una lettera aperta

  • Pubblicato il: 12/09/2016 - 19:30
Autore/i: 
Rubrica: 
SPECIALI
Articolo a cura di: 
Stefano Monti

SPECIALE MECENATE '90. Stefano Monti replica al dibattito lanciato su queste colonne da Mecenate ’90 con il Forum sull’innovazione delle politiche culturali. Pur riconoscendo la svolta impressa dall’esecutivo agli investimenti culturali, evidenzia il gap tra le affascinanti teorie dell’economia della cultura e la traduzione “operaia” che si scontra con la ruvidezza del reale. E prospetta proposte concrete, a suo avviso fattibili

Uno degli aspetti meno indagati del divario che sussiste tra lo sviluppo teorico dell’economia della cultura e l’implementazione di policy concrete sta nel fatto che, spesso, questi due aspetti non solo sono di responsabilità di individui diversi per formazione ed esperienze professionali, ma anche e soprattutto perché, spesso, questi due rami parlano linguaggi differenti. Il linguaggio cattedratico è sexy, e si rivolge ad intere nazioni: parla di engagement, valorizzazione, brand e capitalizzazione degli asset immateriali. Il linguaggio concreto è invece operaio, e parla di bar, ristoranti, catene di alberghi, metro e stazioni bus. E ancora orari di ricevimento, pulizia dei locali, guardiania. Con un articolo non si colma un gap, ma intendo avviare una serie di riflessioni operaie della cultura, con proposte dal carattere concreto. Un esperimento per cercare di ridare senso a tante parole che risuonano da anni, quasi eco ovidiane prive ormai di qualsiasi riferimento se non la voce.
Questo esperimento è quanto mai necessario, perché mentre lo studio dell’Economia della Cultura conosceva uno dei periodi a massima espansione in Italia (tra il 1996 e il 2014), i dati legati ai consumi di cultura nel nostro Paese (fonte: Istat) registravano un andamento non altrettanto in espansione.
Nella serie di indicatori territoriali legati alle politiche di sviluppo, ne emergono due di particolare interesse, vale a dire l’Indice di domanda del patrimonio statale (alla cui base c’è il numero di visitatori degli istituti di cultura statali) e il grado di diffusione degli spettacoli dal vivo, (alla cui base il numero di biglietti su 100 abitanti). Questi dati dimostrano come le tendenze degli ultimi anni abbiano risultati molto differenziati su tutto il territorio nazionale: guardando il differenziale tra l’ultima e la prima rilevazione è possibile intuitivamente identificare in Roma una città che ha visto crescere i visitatori dei propri istituti culturali (registrando nel 2014, più del triplo dei visitatori del 1996); a fare da contraltare è Caserta (che nel frattempo ha perso circa l’87% delle visite)Sul versante degli spettacoli dal vivo si registra un andamento analogo, con città come Udine, Ancona e, di nuovo, Roma, a contendersi il podio per città con maggiore affluenza allo spettacolo dal vivo; città come Modena, Bergamo e Bolzano mostrano risultati opposti e non tanto rassicuranti. Per entrambi i casi, inoltre, se si guarda all’interno territorio nazionale, il segno complessivo è in rosso.
Le ragioni di questa fotografia possono essere molteplici, e certo non è possibile imputare tutto a un cattivo modello economico. All’intera organizzazione culturale va però forse attribuita la responsabilità per un duplice scollamento: da un lato il differente approccio che è possibile riscontrare tra programmazione in sede territoriale e quella invece a livello centrale (e qui di nuovo i professori da un lato e gli operai dall’altro), dall’altro è l’uso del tempo futuro nel linguaggio di programmazione strategica, che per un bel po’ di tempo ha svolto la funzione di cuscinetto, privando gli autori di strategie a lungo termine dell’onere della prova e del contatto concreto e semestrale con la realtà. La rilevanza di queste evidenze è imponente, al punto da determinare, di fatto, una assenza di programmazione strategica concreta.
Al di là delle opinioni personali, è innegabile che questo esecutivo abbia portato all’attenzione pubblica il problema delle risorse culturali e della necessità di interpretare l’investimento in cultura come un asset portante per la nostra economia.
Probabilmente, però, ci sono spazi di miglioramento. Ad esempio l’art-bonus ha lasciato pressoché invariata la situazione delle Piccole e Medie Imprese, rendendo di fatto lo strumento inutilizzabile (o inutile) per un settore (le PMI appunto) che rappresenta più del 90% del nostro tessuto imprenditoriale; la riduzione dell’IVA applicabile agli e-book non ha inciso nel rapporto tra produttori e grandi distributori internazionali; l’accenno al ripensamento dei flussi finanziari derivanti dal Tax Free Shopping non sembra essere stato realizzato; per l’elargizione dei crediti in cultura per diciottenni ed insegnanti potevano essere immaginati modelli di intervento più efficaci sul piano strutturale anche se forse meno d’appeal sul piano comunicativo. Anche la politica di ingresso dei super-manager: fatta salva qualche eccezione non ha portato a cambiamenti sensibili.

Ma il potere politico non è detentore di conoscenza assoluta e le sue scelte riflettono spesso la qualità del dibattito pubblico e specialistico su certi temi. Per aiutare i decision maker avanzo proposte oltre a esprimere opinoni:

  • Per quanto riguarda l’art-bonus, a esempio, è utile poter estendere la platea dei possibili beneficiari (non solo pubblici, ma anche privati) e restringere il campo attraverso la presentazione di progetti più dettagliati da finanziare, oltre che studiare un meccanismo meno machiavellico e più conveniente di detrazione delle spese sostenute da parte dei neo-mecenati.
  • Per la riduzione dell’IVA occorre estendere la nuova aliquota agevolata anche alle opere commerciate in galleria, ponendo fine ad una tradizione poco democratica che privilegia i redditi elevati e paragona, sul punto fiscale, chi vende opere d’arte con chi vende beni destinati al consumo tradizionale.
  • Si può entrare nel merito delle relazioni che legano le società di Tax Free Shopping con i grandi player nazionali e internazionali, e vincolare (o quantomeno tassare) i surplus che derivano da questi rapporti privilegiati.
  • Per i musei sarebbe stato forse più efficace destinare risorse alle strutture, provvedendo all’assunzione di più di una figura dirigenziale, al fine di creare un team con competenze sia tecnico-artistiche che di management in senso stretto.

A queste riflessioni se ne possono aggiungere tantissime, come un invito a riflettere sull’inserimento delle spese per consumi culturali (dai libri ai musei, dal cinema ai festival musicali) tra le detrazioni dalle dichiarazioni dei redditi. Ancora si potrebbe pensare per i Comuni che applicano la Tassa di Soggiorno alla Costituzione di un Fondo Dedicato che agisca seguendo una logica di capitali vincolati da investire su temi selezionati democraticamente con tutti gli operatori del settore turistico cittadino. Si potrebbe pensare ad una riduzione degli oneri previdenziali, o ad una piena abolizione di questi oneri per le imprese in fase di start-up culturali o innovative, al fine di azzerare davvero gli oneri statali sui ragazzi che decidono di uscire dalla condizione di NEET.
Sono temi complessi sui quali non esiste una verità assoluta, ma spesso interessi contrapposti. Ritengo che il compito della società civile sia fornire indicazioni a chi governa. Come dicono gli inglesi questi inviti saranno “un disegno vuoto”, ma mi sembra che per l’italia potremmo vederli come pars costruens.

 
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