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Notturno, composizione per “restare umani” nell'incertezza della contemporaneità

  • Pubblicato il: 14/11/2016 - 23:26
Autore/i: 
Rubrica: 
LA PAROLA AGLI ARTISTI
Articolo a cura di: 
Stefania Crobe

Romano, classe 1980, oggi a New York. Dopo le ‘Sette Stagioni dello Spirito’, un colossale romanzo itinerante che ha abitato Napoli  tra il 2013 e il 2016, torna nella città partenopea per la grande mostra che il Museo Madre gli dedica, dal 17 dicembre.  Per la rubrica LA PAROLA AGLI ARTISTI, che apre ogni nostro numero mensile, in una moderna corrispondenza epistolare che è un andirivieni di sollecitazioni, dialoghiamo con Gian Maria Tosatti. Con lo sguardo immerso in un presente accecato dal bagliore delle contraddizioni, il suo poetare percepisce e naviga il buio. Le lucciole non sono scomparse, ma solo la notte può svelarle*


 

“Contemporaneo è colui che tiene fisso lo sguardo nel suo tempo, 
per percepirne non le luci, ma il buio”
Giorgio Agamben
Che cos'è il contemporaneo, 2008

“La luce è sempre uguale ad altra luce.
Poi variò: da luce diventò incerta alba, … e la speranza ebbe nuova luce”
Pier Paolo Pasolini
La Resistenza e la sua luce, 1961

“Mio secolo, mia belva, chi potrà
guardarti dentro gli occhi
e saldare col suo sangue 
le vertebre di due secoli?”
Osip Mandel'štam, Il secolo, 1923

 


Mi piacerebbe conoscere il tuo rapporto con lo spazio. Il rapporto tra te, la tua arte e lo spazio che essa produce e che abita.
E' una domanda complessa quella che mi fai perché quando parliamo di spazio, in realtà ci riferiamo al suo plurale, ossia agli spazi. C'è innanzitutto lo spazio del contesto in cui un'opera prende forma. C'è poi lo spazio dell'opera stessa (che a sua volta va diviso in spazio come volume e spazio della visione). In fine, c'è lo spazio esperienziale del visitatore che si connette alla sua dimensione interiore.
Io cerco di far sì che l'opera sia un ricamo intessuto fra questi differenti livelli al punto da non essere più in nessun modo posta su un piano differente da quello della vita. Ecco, è proprio questo il concetto di spazio che più mi interessa, quello di un luogo assoluto in cui opera e vita coincidono perfettamente in una continuità mai interrotta da una didascalia, una cornice, un cambio di registro. 

Cosa vedi dalla tua finestra? Sono curiosa.
C'era un vecchio film di Celentano, in cui ad una domanda del genere lui rispondeva che dalla sua casa in via Montenapoleone vedeva il mare. Non posso non citarlo. Fa parte della cultura pop in cui la mia generazione è cresciuta. Poi da grande ho iniziato a leggere la Ortese e ad ascoltare storie su di lei. Una di queste raccontava che una sua amica, un giorno le chiese se non le mancasse Napoli. Allora lei la portò vicino alla finestra della sua casa nel nord Italia, e le mostrò le antenne dei televisori che emergevano dai palazzi, rispondendole che quel che ancora vedeva oltre i vetri erano alberi di navi. Io per tre anni, invece, il mare e le navi le ho viste davvero a Napoli. Ho vissuto in una casa che mi era stata generosamente messa a disposizione dalla Fondazione Morra. La mia camera da letto aveva sei grandi finestre, tre delle quali affacciate sul golfo. Ho visto il sole e la luna levarsi e tramontare ogni giorno sul più bel paesaggio del mondo. Oggi sono ad un oceano di distanza. Sono tornato a casa, a New York. Dalle finestre della mia camera da letto vedo il mio quartiere amato, Williamsburg che non riesco a lasciare. E' dal 2008 che vivo sulla stessa strada pur avendo dovuto cambiare casa tante volte. Dal mio studio presso l'Artists Alliance Inc. vedo, invece, l'infaticabile crescita di Manhattan, torri che continuano a salire verso il cielo, rispecchiando una società che proprio come a Babele pare stia perdendo il suo fuoco. 

Un andirivieni di sollecitazioni.
Partiamo da Babele/Manhattan, emblema della città contemporanea e di quel mito del progresso che la società iperliberista insegue ostinatamente.
Un verticalismo che rispecchia un’autoreferenzialità che caratterizza molta della progettualità, in ogni campo, dalla modernità ad oggi. Scenari che non rispondono più a bisogni né desideri e rivelano  una mancanza di autenticità del progetto, una mancanza di aderenza alla realtà. Una crisi che ha un orizzonte di inquadramento molto ampio – dall’ambiente, all’economia ai diritti umani - e in cui quella cui oggi assistiamo è solo la fase finale di un processo iniziato da tempo.
Ragioni e degenerazioni che tu hai esplorato nella tua investigazione sugli archetipi..
Il lavoro che sto sviluppando in studio in questi mesi si concentra su un'indagine molto particolare e molto connessa con quel che dici. Anche dal modo di pensare la città e di costruirla, ti accorgi che Stati Uniti sono un paese rimasto inchiodato al XX secolo. E non è certo per caso. Diciamo che qualcuno ce l'ha inchiodato, qualcuno che siede a Wall Street e dall'inizio del secolo si sta battendo come un leone perché il capitalismo resti saldamente il sistema operativo esclusivo di questa nazione e di questo tempo storico. E' una battaglia destinata al fallimento, perché il capitalismo ha dimostrato ampiamente di non dare più risposte al mondo nuovo, ma ogni secondo strappato è prezioso per chi ha interessi. E' un fenomeno che val la pena osservare questo del controllo del tempo. Ho iniziato ad accorgermene due anni fa a Istanbul, studiando le mosse di Erdogan sullo scacchiere nazionale. C'è un libro di Ahmet Tanpinar chiamato "L'istituto per la regolazione degli orologi". E' un libro illuminante. Scritto nel 1954 dipinge con una esattezza chirurgica la Turchia di questi anni. Poi vedi che negli Stati Uniti le cose sono più o meno le stesse. Gli stati in crisi tendono a voler fermare il tempo per non affrontare una evoluzione traumatica. Il potere ha sempre da perdere nei cambiamenti dello status quo. Per questo tra la coscienza (del popolo) e l'evento (politico) si incunea volontariamente uno scarto temporale in cui la coscienza invecchia, si indebolisce e non partecipa più alla realizzazione dell'evento. Così tutto resta rassicurantemente com'era prima. E a New York assistiamo ad un'ennesima replica della "città che sale", un film che Boccioni ci aveva mostrato nel 1910... E' passato un secolo e questo paese continua a dare risposte che erano buone un secolo fa, a cominciare dalle elezioni presidenziali che hanno visto trionfare Donald Trump, un uomo con pensieri, parole e ideali decisamente fuori corso. Ma non è uno scenario solo americano. La sospensione è la risposta ad un qualunque stato di crisi. E non è proprio questo uno dei sintomi più forti del morbo che affligge la mia generazione? Una città nuova, una città del XXI secolo ce l'avevamo, l'avevano fondata i migranti di tutto il mondo, vicino a Calais. Era una città orizzontale, una città radicalmente nuova, capace di impostare nel modo giusto i problemi per cui cerchiamo soluzioni. Ma l'abbiamo distrutta. Il governo francese l'ha rasa al suolo alcuni giorni fa dopo averla messa in ginocchio per un anno. Io ho dedicato l'ultimo mio anno a questa città chiamata "Jungle". Ho iniziato pensando di realizzare un grande progetto, un gigantesco arcobaleno che avrebbe dovuto attraversare l’intera città e ho finite per cercare di costruire coi migranti una lingua per poter parlare del futuro. E' stata un'esperienza essenziale per me. Che, tuttavia, questa Europa ha mandato in cenere. 

Ma – dice Heiddeger commentando Hoelderlin – “poeticamente abita l’uomo su questa terra”, ove il poetare porta all’essenza delle cose.
Occorre forse allora partire da una critica degli ordinamenti spaziali esistenti e dotarsi di lenti analitiche diverse da quelle tradizionali per indagare criticamente le realtà, riscoprire la polisemia degli spazi leggendo segni e tracce, tornare ad un primato simbolico, decolonizzare lo sguardo di una società anestetizzata per creare 'luoghi', paesaggi continui?  Cosa fa o può fare l’arte?
Su queste riflessioni di Heidegger la mia compagna Lucrezia Longobardi sta costruendo, proprio in questi mesi, un bel progetto critico e curatoriale. Quindi, diciamo che ultimamente, in casa, le sue considerazioni sono frequentemente dibattute. Ed ovviamente Heidegger imposta il ragionamento correttamente essendo consapevole dello scontro fra umano e disumano. E credo che questa sia la vera guerra civile che è in corso nel mondo. Un mio lavoro recente rifletteva sul fatto che ogni anno per delle decisioni politiche ci assumiamo la responsabilità di un milione di morti innocenti per cause legate all'inquinamento atmosferico. Siamo perfettamente in grado di abbandonare le fonti d'energia non pulita, eppure non lo facciamo per scelta. Questa scelta fa, ogni anno, lo stesso numero di vittime dei campi di sterminio nazisti - anche quelli pensati e costruiti per ragioni "politiche". Sulla disumanità dei lager siamo tutti d'accordo, ma è forse meno disumana la volontà che produce oggi lo stesso numero di morti nelle nostre famiglie? Ecco, affrontare questa disumanità, svelarla, inseguirla quando si nasconde, questo è quel che può fare l'arte. Siamo abituati a ragionare in termini di numeri, di pro, di contro legati alla stretta attualità. Non ragioniamo mai secondo prospettive filosofiche. E' così che molti uomini aderirono al nazismo negli anni '30, non erano mostri, ma tenevano d'occhio solo i numeri, i dati, non guardavano la prospettiva. L'arte, invece, indaga l'assoluto di ogni gesto, l'arte non è giornalismo che ogni giorno affronta la nuova schiuma dell'onda per dimenticarla il mattino seguente. L'arte va al midollo. Ed è per questo che Brecht diceva che nei tempi oscuri la cosa più imperdonabile è il silenzio dei poeti. Perché la loro parola è l'unica che aiuta a ritrovare il senso dell'essere umani quando si sta cedendo, per abitudine o per inerzia, alla disumanità.

La mercificazione – del tempo come dei sentimenti – insita nel DNA del capitalismo, giunge ora a occupare monopolisticamente l’immaginario collettivo del tempo e dello spazio sociale. Prima hai citato Boccioni e mi hai acceso il ricordo di una lettura di qualche tempo fa. Vito Acconci  nel '90 scriveva: «Un tempo si poteva camminare per le strade di una città e sapere che ora era. C’era un orologio in ogni negozio; bastava soltanto guardare attraverso le vetrine mentre si passava. […] Ma i tempi cambiarono e il tempo sparì. […]. Non c’era più bisogno di mettere il tempo in quello spazio dove eravamo, dal momento che portavamo con noi il nostro tempo. Il tempo pubblico era morto; non esisteva più un tempo per lo spazio pubblico; anche lo spazio pubblico era destinato a sparire» (Vito Acconci, Lo spazio pubblico in un tempo privato, 1990). L'arte come anticipazione. Ma non sempre sappiamo ascoltare.
La descrizione di Vito Acconci torna, ma le conclusioni non mi trovano d'accordo. Cosa vuol dire pubblico oggi? Nel trionfo dell'individualismo esiste una dimensione pubblica? 
In realtà penso che oggi la dimensione pubblica sia ancora più forte che in passato. Te ne accorgi facilmente osservando che l'individualismo diffuso non muta mai in anarchia neppure in zone e momenti periferici del vivere civile. La ragione è che c'è una struttura sociale molto forte, ma mimetica. Non si vede se si osserva con sguardo superficiale, ma la si riconosce in controluce, osservando i movimenti delle masse "individuali". Lì ti accorgi che tutto è molto ordinato e che anche il tempo ha una dimensione peculiare e coerente con questa dimensione pubblica. E' vero, infatti, che oggi come mai prima nessuno è padrone del proprio tempo e neppure di porzioni di esso. Il tempo è uno dei grandi "regolatori" di questa danza collettiva delle masse. Lo notò Tanpinar nel 1954 con “L’istituto per la regolazione degli orologi”. Erano gli anni in cui si iniziava a capire che il totalitarismo moderno non agiva più attraverso mezzi di polizia, ma attraverso condizionamenti dell'orientamento. Lo spazio pubblico, quindi, per contraddire Acconci, esiste, ma non è più uno spazio di libertà, è uno spazio totalitario e noi, infatti, non siamo mai stati "schiavi" del tempo come oggi.

Calais come archetipo.
Sulla costruzione della città informale, molti studi urbani riconoscono quella discontinuità, quel margine, quello 'spazio di confine' in cui far nascere – proprio come dici tu - qualcosa di nuovo, dal punto sociale, economico, culturale.
 Un 'terzo spazio' capace di abbracciare le dicotomie attivando processi di cambiamento. Ma la sospensione di cui parli – che è principalmente credo una sospensione della scelta, del giudizio critico – fa di Calais l'ennesima occasione perduta. A Calais ti sei situato in quel territorio, sei stato, ti sei relazionato con ciò che c'era e con ciò che non sarà forse mai (oltre ad avere incontrato gli amici di sempre, penso ad Alessandro Bulgini).  Provi a raccontarci una pagina del tuo diario nella jungle?

La Jungle è stata. Non so se ne verrà un'altra. Ma io sono un romano e so che la mia città è nata dalle rovine di Troia, bruciata e rasa al suolo proprio come la Jungle. Con questo intendo che talvolta dalla storia di una città che forse tra vent'anni qualcuno crederà non esser mai esistita, potrà nascere una nuova capitale dell'Europa. La Jungle era questo, in fondo: la capitale di un'Europa del XXI secolo, in cui tutto ciò che da noi è istituzionalizzato, lì era ormai vuoto, insensato. Non era un luogo perfetto, ma era un ottimo magma in cui fare la propria parte. 
Io l’ho fatto iniziando a lavorare sul linguaggio, perché parlare vuol dire definire - proprio come nella Genesi - e più di tutto vuol dire "definirsi". Ho cercato di costruire con gli abitanti della Jungle un linguaggio che desse chiarezza a quei valori di cui erano portatori (a volte inconsapevoli) e che io, come poeta, già riuscivo a vedere nitidamente. E' nata così la ricerca sull'arcobaleno come simbolo. Ma il mio non poteva essere solo un lavoro all'interno. Per cui ho provato ad essere ponte non solo per favorire una comunicazione verso l'esterno, ma anche nel portare in città altre figure che potessero aiutare nella costruzione di quel luogo in termini di identità. Nacque da lì la volontà di invitare Alessandro Bulgini a raggiungermi in uno dei miei soggiorni lì. E molti altri artisti o anche semplici lettori di questa rivista forse sarei riuscito a portare in quella città se il governo francese non avesse deciso di distruggerla senza, per altro, risolvere minimamente i problemi che ne avevano determinato la costruzione.

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Dall'ancora 'troppo umano' di Nietsche all'appello di Papa Francesco a 'restare umani' nell'enciclica Laudato sì, una poesia per un'umanità 'laica' (mi piace leggerla così).
 L'arte come unica via per 'rendere sensibili' e creare un 'quarto paesaggio', ciò che non esiste ancora?

In realtà la sovrapposizione di nuovi paesaggi è ciò che dovremmo smontare e in cui riconosco quelle strutture imposte e totalitarie di cui abbiamo parlato. Dobbiamo tornare alle radici dell'umano, al paesaggio primario. Al di fuori di questo c'è il disumano, l'umanoide. Gli artisti fanno lo stesso mestiere da millenni: si prendono cura dell'anima dell'uomo e nella loro attività non vedrai mai la costruzione di paesaggi ulteriori, ma solo un costante scavo per ritrovare i sentieri originari. I preti sono venuti dopo. Hanno dato a quest'ufficio una declinazione un po' differente, talvolta costruendo un paesaggio secondario che, tuttavia, in alcuni casi, è parallelo. Questo papa è un gesuita. Appartiene ad un ordine fondato da un condottiero, un soldato, Sant'Ignazio di Loyola. E' per questo che le sue parole sono così opportune oggi e forse così vicine anche alla dimensione etica degli artisti, che sono militanti, sempre, e in alcuni casi ed alcuni tempi particolarmente oscuri, finiscono per dover essere anche militari.  

Una militanza che talvolta ha bisogno di compagni di viaggio. Quali sono i riferimenti letterari che ti accompagnano?
Compagni di viaggio ne ho tanti. Direi che forse non ho altro e che non vale la pena avere altro. L'ho imparato nella Jungle, quando un anziano signore iracheno mi disse che il governo francese gli aveva dato una casa a trenta chilometri da Calais. Lui ci era andato, ma si era sentito solo. Così aveva riconsegnato le chiavi e se n'era tornato a vivere nella tendopoli sulla spiaggia, senza acqua, senza elettricità, col freddo, il fango e i topi, ma coi suoi compagni di viaggio. Per un poeta i compagni di viaggio sono spesso figure letterarie del passato, come Céline, Solzenicyn, Longanesi, Malaparte, Ortese, o talvolta sono figure contemporanee, con cui si è intessuto un rapporto di amicizia reale capace, comunque, di fornire strumenti essenziali per affrontare il proprio percorso: penso a Mariangela Gualtieri o a Romeo Castellucci. E poi ci sono i compagni critici, la cui letteratura aiuta a capire meglio la dimensione della strada che si è intrapresa. Penso agli unici due, forse, che hanno tentato nella mia generazione di costruire un panorama critico coerente che via via, pur partendo da posizioni diverse, finisce per convergere con sorprendente esattezza: Alessandro Facente e Christian Caliandro. Ma penso anche alla mia compagna Lucrezia Longobardi la cui ricerca critica sull'arte e sullo spazio mi ha aiutato indirettamente in questi mesi a stabilire delle dialettiche con altri artisti, filosofi o architetti che hanno centrato la loro riflessione sul tema dell'esistenza.

Torniamo a Napoli, che ha ospitato le Sette Stagioni dello Spirito, e che tra poco ti riaccoglierà al Madre.
La mostra al Madre sarà qualcosa di molto complesso e diverso rispetto a quanto fatto da me fin ora e di quanto già realizzato a Napoli. “Sette Stagioni dello Spirito” è stato un intento colossale, un’opera che ha installato in tre anni l’intera città, con oltre 20.000 partecipanti, sette interi palazzi monumentali trasformati in opere, in capitoli di un enorme romanzo visivo, un romanzo di formazione attraverso cui attraversare l’intera spettrografia dell’anima umana tesa tra i limiti estremi di bene e male. Questo è ciò che si è consumato tra il 2013 e il 2016 e che è stato organizzato e promosso dalla Fondazione Morra con il sostegno della Galleria Lia Rumma. La mostra che, invece, si terrà al Madre, prodotta dal museo è qualcosa di connesso ma al contempo profondamente diverso. Essa è nata dalla mia personale necessità di aprire una prospettiva più intima rispetto a quella dello spazio dell'opera. Quel che mostreremo è il racconto dei tre anni passati in città dalla prospettiva dello studio, ossia da quella solitudine dell'artista che sempre deve superare se stesso per poter essere all'altezza del suo compito nel momento in cui incontra il pubblico. Ma nel suo studio, quando è solo l'artista chi è? Ecco. La mostra credo racconterà questo, in fondo. Sarà una specie di notturno che segue la grande edificazione di Sette Stagioni dello Spirito.

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My dreams, they’ll never surrender [installation view]

© Riproduzione riservata

Gian Maria Tosatti (Roma, 16.04.1980 - vive a New York) ha compiuto la sua formazione nel campo performativo, presso il Centro per la Sperimentazione e la Ricerca Teatrale di Pontedera. Nel 2005 torna a Roma per intraprendere un percorso artistico nel territorio di  connessione tra architettura e arti visive realizzando principalmente grandi installazioni site specific. I suoi progetti, abitualmente, sono indagini a lungo termine su temi legati al concetto di identità, sia sul piano politico che spirtuale. I primi cicli di opere che ha sviluppato sono stati  «Devozioni» (2005-2011) - dieci installazioni per dieci edifici di Roma sugli archetipi dell’era moderna - e «Landscapes» (2006-), un progetto di arte pubblica in aree di conflitto. Attualmente la ricerca dell’artista è legata a due nuovi progetti, «Fondamenta» (2011-), basato sull’identificazione degli archetipi dell’era contemporanea, e le «Le considerazioni...», ciclo dedicato agli enigmi che risiedono nella memoria personale. Tra il 2013 e il 2016 la sua ricerca si è concentrata su un’opera in sette parti che ha abitato l’intera città di Napoli dal titolo “Sette Stagioni dello Spirito”.  Tosatti è anche giornalista. E’ stato direttore del settimanale «La Differenza» e ha collaborato con molti giornali italiani come editorialista. E’ editorialista per Artribune e scrive su Opera Viva. Scrive saggi sull’arte e sulla politica. Nel 2011 ha curato RELOAD, prototipo di intervento culturale urbano sul riutilizzo temporaneo di spazi improduttivi ed è fondatore del progetto “La costruzione di una cosmologia”,       (www.unacosmologia.com). Ha esposto anche presso l’Hessel Museum del CCS BARD (New York – 2014), il Lower Manhattan Cultural Council (New York - 2011), American Academy in Rome (Roma – 2013), Museo Villa Croce (Genova – 2012) Andrew Freedman Home (New York - 2012), Tenuta dello Scompiglio (Lucca - 2012), Palazzo delle Esposizioni (Roma - 2008), Chelsea Art Museum (New York - 2009), BJCEM (2014), Centrale Montemartini – Musei Capitolini (Roma – 2007), Museo Wilfredo Lam (L’Avana - 2015), Casa Testori (Milano – 2014), MAAM (Roma - permanente), Castel Sant’Elmo (Napoli - permanente)

Ph cover | Gian Maria Tosatti, Sette Stagioni dello Spirito, 7_Terra dell’ultimo cielo, 2016. © Gian Maria Tosatti. Si ringrazia Fondazione Morra, Napoli; Galleria Lia Rumma, Milano/Napoli.

SAVE THE DATE:

MUSEO MADRE
GIAN MARIA TOSATTI. SETTE STAGIONI DELLO SPIRITO

a cura di Eugenio Viola
Project room (piano terra) e secondo piano
opening: venerdì 16 dicembre 2016, ore 19.00
DAL 17 DICEMBRE AL 20 MARZO

Il riferimento è a Didi Huberman, Come le lucciole, Bollati Bolinghieri, Torino, 2010