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Nomen Omen per il MUST

  • Pubblicato il: 06/07/2012 - 20:15
Autore/i: 
Rubrica: 
FONDAZIONI CIVILI
Articolo a cura di: 
Cecilia Conti

La Fondazione Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia Leonardo da Vinci (MUST) di Milano, nasce dalla trasformazione, nel 2000 - in base all’art, 4 del DL 20 luglio 1999, n. 258 -  del Museo preesistente, nell’ambito dell’ampio processo di privatizzazione degli enti pubblici diffuso a partire dagli anni ’90 alla ricerca dell’efficienza e dell’efficacia. Molti i processi di privatizzazione rimasti formali e non sostanziali. I primi anni di vita di MUST, sono stati connotati dalla mera trasformazione ex lege dell’ente, con l’assoluta prevalenza del finanziamento pubblico. E’ nel corso degli ultimi anni che la Fondazione si è privatizzata in modo sostanziale, con contributi da privati e ricavi propri, che hanno superato per entità il finanziamento pubblico. Un modello gestionale basato sull’autogenerazione di risorse, per sottolineare non la provenienza, ma la modalità con cui vengono generate: oltre alla biglietteria (17%), alle attività educative (6%) e ai servizi commerciali (13%, organizzazione di eventi aziendali negli spazi e shop), sono i progetti espositivi o educativi del MUST (37%) a creare opportunità di fundraising verso privati, istituzioni pubbliche e fondazioni. Valgono per il 27% i contributi dei partecipanti per il funzionamento: una quota in diminuzione dal 2010.
Questo è l’obiettivo che si era posto il legislatore con la privatizzazione degli enti pubblici, spesso disattesi. «Questa Fondazione è probabilmente il primo ente culturale pubblico non economico a essersi privatizzato in maniera sostanziale» dice Giovanni Crupi, determinandola sua esclusione dall’elenco delle pubbliche amministrazioni inserite nel conto economico consolidato dello Stato, ma non il venir menodel controllo pubblico sulla sua attività. Qualità e quantità dell’attività rappresentano, oggi, la garanzia di sopravvivenza economica-finanziaria della Fondazione, che negli anni ha investito sulle competenze legate alla missione, le ha potenziate e innovate, legate a obiettivi sociali, rese riconoscibili, note agli stakeholder. Il MUST costruisce il proprio sviluppo sugli asset dell’organizzazione ovvero sulla capacità di cogliere i temi cruciali contemporanei e renderli accessibili a tutti. La criticità, che emerge dallo stesso Statuto della Fondazione, è l’assenza di contributi fissi dei partecipanti e di accordi di programma tra istituzioni pubbliche, che garantiscano la coerenza del funzionamento del museo rispetto al disegno politico per il territorio. «C’è affinità tra musei contemporanei e innovazione: i musei della scienza e della tecnologia la raccontano nei diversi settori industriali o nella ricerca per le life sciences. Hanno la missione di creare esperienze per lo sviluppo della «cittadinanza scientifica», fornire strumenti e risorse culturali per l’interpretazione della realtà e per suscitare interesse su questi temi nelle nuove generazioni. I musei producono innovazione perché sviluppano modelli socio-culturali e modelli economico-gestionali per la sostenibilità, in tempi di semi-azzeramento dei contributi pubblici e di forte contrazione dei fondi per sponsorizzazioni delle aziende. Oggi la gestione deve confrontarsi con temi vitali, quali strategia della crescita, aumento e diversificazione dei pubblici, dell’impatto socio-educativo ed economico sul territorio, performance e controllo di gestione, razionalizzazione organizzativa e sfida al cambiamento. Proprio la pressione sulla progettualità, l’attenzione all’efficacia e all’efficienza nella gestione, la continuità nello sviluppo di partnership sono strumenti gestionali chiave, ma anche valori acquisiti nella cultura organizzativa dell’istituzione.
In assenza di concrete politiche delle istituzioni pubbliche che coinvolgano i musei leader nello sviluppo di tutto il sistema culturale, anche secondo logiche di rete o di partnership, e in presenza di timide azioni sulla governance, che identifichino traguardi e rendano disponibili risorse, il MUST ha elaborato negli ultimi anni un modello di co-produzione sociale, che chiama alla partecipazione responsabile stakeholder significativi, ovvero istituzioni pubbliche, fondazioni, aziende e associazioni industriali. Oggi parlerei d’imprenditorialità museale: essere al servizio dello sviluppo della società con un approccio secondo cui si analizza, si crea un’opportunità, che coincide con la rilevazione di un bisogno, si identifica una modalità di azione, che deve divenire beneficio culturale ed educativo per la comunità e nello stesso tempo economico per il MUST. Questa strategia fa leva sulla capacità di un’istituzione culturale di rispondere a bisogni reali, urgenti e non auto-referenziali. Negli ultimi anni i musei si sono più volte reinventati per rispondere alle sfide del contesto. “Museums deliver”, un recente manifesto della conferenza dei direttori dei musei inglesi, ne chiarisce il ruolo: i musei forniscono conoscenza e ispirazione, connettono le comunità, creano fiducia, stimolano creatività e innovazione, utili anche per il successo economico, rendono disponibili luoghi e risorse, che i fruitori trasformano in informazione e apprendimento, si prendono cura dell’eredità del passato mentre creano un patrimonio per il futuro.
Per la maggior parte dell'economia il settore culturale è comunque un afterthought, viene preso in considerazione dopo che tutto è stato pagato, i profitti sono stati registrati e i margini raggiunti. Fa spesso parte degli avanzi, di soldi e di tempo. Invece, poiché esistono un reale bisogno e una domanda autentica e non soltanto un elegante apprezzamento, i musei devono usare energia, creatività e imprenditorialità per trovare nuovi modi per inserire i risultati socio-educativi nell'economia. Devono imparare ad auto-generare risorse all'interno delle mura dell'economia, dove è possibile “vendere” il loro impatto, diventato un bene valutabile economicamente.
Come musei dobbiamo chiederci: cosa facciamo per essere rilevanti per la società? E poi, chi beneficia economicamente dei risultati che produciamo? Nel fare fundraising dobbiamo presentare i contenuti culturali dei programmi, ma anche la qualità dei risultati che possiamo determinare. Dobbiamo vivere i nostri social e cultural issues come i nostri business issues».
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(dal XII Rapporto Annuale Fondazioni)