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Le Corbusier e l’Italia al Maxxi

  • Pubblicato il: 17/11/2012 - 14:45
Autore/i: 
Rubrica: 
FONDAZIONI E ARTE CONTEMPORANEA
Articolo a cura di: 
Carlo Olmo
«L’Itaia di Le Corbusier»

Roma. Una mostra è un dispositivo che costruisce le sue logiche in un dialogo continuo con le tesi di chi ha costruito il percorso di ricerca. Purtroppo oggi questa semplice regola, che permette di leggere una mostra per i suoi contenuti, è spesso trascurata. D’altronde non esiste una scuola né una pedagogia, se così vogliamo chiamarla, che insegnino a progettare o a percorrere una mostra.
Che la mostra sia un dispositivo appare ancor più evidente quando l’oggetto è assente, o meglio quando si tratti di rappresentarne un simulacro, come nel caso delle mostre di architettura. Se poi l’oggetto sono i viaggi e il modo con cui il protagonista rappresenta il suo rapporto con un paese, il racconto che la mostra sviluppa diventa il filo rosso che è necessario seguire, se il giudizio non vuol essere almeno… crocianamente fuori tema.
Come è costruito il racconto di Le Corbusier e l’Italia al Maxxi di Roma, nello spazio che Zaha Hadid ha riservato alle esposizioni di architettura?
Come si dipana il racconto che Marida Talamona e Umberto Riva hanno messo in scena? Il visitatore esce dalla mostra con quale rappresentazione di un incontro, quello tra Le Corbusier e l’Italia, durato quasi sessant’anni? L’allestimento, teatrale persino nel ricreare attraverso gli impalcati di legno la scena appunto di un teatro, scandisce con estrema forma, rendendo profonde persino le rientranze spaziali, ogni partitura.
Si entra «dentro» la Certosa del Galluzzo o l’Ospedale di Venezia.
Più che di un percorso si tratta di scene che mutano, interpretate in modi autonomi, il cui il filo narrativo è molto implicito. Una scelta che l’allestimento condivide con il catalogo, che manca di un’introduzione, di una guida ma anche di una presa in carico del senso dell’esposizione.
L’autonomia di ogni quadro ne rafforza anche la possibile lettura separata con la totale immersione del visitatore, quasi che fosse possibile, se non auspicata, una visita per tappe.
È una scelta allestitiva molto forte, cui corrisponde quasi sempre la forza dei materiali esposti. Una scelta come questa rende molto più evidente il documento, nel caso di questa mostra il disegno, la foto d’epoca, l’analogia tentata con la pittura o la fotografia del tempo. È una scelta che sottolinea la forza dell’originale.
Non a caso le stanze più riuscite sono quelle dove esiste una sequenza di disegni, dove si sviluppa un racconto iconografico se non iconologico.
L’autonomia delle stanze rende quasi ogni partitura la tappa di un unico viaggio costruito lungo circa settant’anni, ed enfatizza (non appaia un paradosso) il rapporto tra Le Corbusier e l’Italia, isolandolo non solo, ad esempio, dagli altri riferimenti «classici», ma persino dagli scritti con cui Le Corbusier li accompagna.
È una mostra dove centrale e quasi unico protagonista è il disegno del maestro svizzero, il suo mutare di stanza in stanza, il suo passare dai codici della scuola d’arte di La Chaux-de-Fonds alla sintesi estrema, quasi provocatoria, dei disegni finali dell’Ospedale di Venezia.
Scansioni così forti, una scelta tanto radicale su un unico repertorio, quello iconografico, si prestano a molte discussioni, come la rinunzia doppia a un percorso narrativo. Ma ogni scelta autoriale ha a che fare anche con lo spazio in cui si tiene l’esposizione. In questo caso con lo spazio davvero difficile del Maxxi.

La scelta della scansione rompe completamente lo spazio curvilineo disegnato da Zaha Hadid, non si pone in dialettica, ma in contrapposizione, costruisce stanze talmente profonde da lasciare al passaggio continuo quasi un corridoio, Inoltre, usa le pareti di destra solo in un caso e con un accompagnamento ripreso da un’altra mostra.
L’allestimento è lo specchio, quasi zdanoviano se mi si consente l’ironia, anche del catalogo. Le stanze, episodi autonomi e sufficienti a se stessi, trovano riscontro in saggi iperspecialistici per i quali valgono le stesse considerazioni fatte sull’allestimento. L’assenza di un filo narrativo ne fa quasi un dizionario che va letto per voci o per parti.

Sono scelte radicali che come tali vanno assunte. Il giudizio non può prescindere mai dal dispositivo che una mostra mette in scena, ancor meno quando, come in questo caso, la scelta dell’allestitore e della curatrice sono tanto radicali.

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da Il Giornale dell'Architettura numero 110, novembre 2012

«L’Itaia di Le Corbusier», Maxxi, Roma, fino
al 17 febbraio