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La cultura tra riforma e crisi economica: un approccio territoriale

  • Pubblicato il: 09/08/2016 - 12:56
Autore/i: 
Rubrica: 
SPECIALI
Articolo a cura di: 
Alessandro Leon
Ph | Alfredo Jaar – Questions Questions. Progetto pubblico per Milano

SPECIALE MECENATE '90. Secondo appuntamento del Forum lanciato da Mecenate 90 sulle politiche culturali. Carta bianca all’economista Alessandro Leon che con una lucida analisi della genesi, partendodagli anni ’80, porta in modo costruttivo l’attenzione ai passi imprescindibili per la valorizzazione del patrimonio e per lo sviluppo della creatività. Occorre “Riportare il settore culturale al centro dell’interesse politico per le finalità sociali e di sviluppo che rappresenta; individuare una strategia più concreta che dimostri sul piano applicato i benefici sociali e di sviluppo collegabili al settore culturale attraverso un approccio “territoriale”. La cultura come investimento e non mero centro di costo, “servizio essenziale”, come per la sanità, l’assistenza sociale, le scuole

Il settore dei beni e delle attività culturali è oggetto di scontro quotidiano sui principali media italiani. La disputa sembra travalicare a tratti i confini di una normale contesa tra punti di vista diversi per posizione politica od ideologica. Lo scontro prende la forma di visioni contrapposte e inconciliabili che non trova, attraverso i normali meccanismi di funzionamento democratici delle istituzioni, un’efficace mediazione all’interno dei processi decisionali dello Stato sia che abbiano l’ambizione di riformare gli assetti del sistema, sia quello di rimuovere errori, distorsioni o semplici confusioni. La stampa riporta gli esiti incontrollabili, paradossali e non voluti di questo confronto: il blocco del TAR sul provvedimento del Ministro di ripartizione del FUS 2016 impendendo la distribuzione delle risorse e mettendo a rischio la sopravvivenza delle imprese dello spettacolo dal vivo; il conflitto permanente tra Governo e imprese private per i servizi aggiuntivi ostacolando il ricambio o l’aggiornamento del contratto attraverso la proroga sine die delle concessioni; la mancata regolamentazione del lavoro temporaneo nelle fondazioni liriche, mettendo a rischio lo sforzo gigantesco per la ristrutturazione del debito cumulato imposto dalli Leggi Brai e Franceschini. Il settore culturale appare diviso in molteplici gruppi di interesse - a loro volta destinati a scomporsi - che rendono sempre più deboli le relative rappresentanze e sempre più strumentali le alleanze a seconda di interessi di breve periodo. L’indebolimento si traduce anche in una graduale perdita di ruolo e di identità. Il personale pubblico, soprattutto quello coinvolto in mansioni di gestione del patrimonio, mostra una scarsissima motivazione ed un’assenza di entusiasmo che lo induce ad allontanarsi dalle responsabilità indipendentemente dalle funzioni e dalle gerarchie a cui è sottoposto. Molte riforme approvate dal Governo Renzi per il settore culturale, accompagnate per altro da un incremento di risorse significativo, se fossero state proposte un decennio fa sarebbero state accolte molto più positivamente: concetti come l’autonomia museale, l’artbonus o la Soprintendenza unica, già oggetto in passato di approfondite analisi e valutazioni, costituivano un ambito di confronto costruttivo con pareri e posizioni differenziati, e non come oggi oggetto una disputa distruttiva.
La ragione di questa vasta frammentazione è originariamente economica, non politica. E’ generata dalla forte riduzione delle risorse pubbliche assegnate alla cultura, una diminuzione che non ha confronti con quella subita da altri settori dello Stato. La responsabilità di questo stato delle cose si situa nelle politiche economiche dell’Unione Europea ispirate alla cosiddetta “austerità” e risale all’accordo sottoscritto nel 1997 dai paesi membri dell'Unione europea e inerente al controllo delle rispettive politiche di bilancio pubbliche allo scopo di mantenere fermi i requisiti di adesione all'Unione economica e monetaria. Si trattava di evitare le eventuali irresponsabilità in merito alla finanza pubblica da parte di qualcuno dei paesi membri. L’UE ha obbligato gli Stati membri a promuovere una politica per l’offerta, un insieme di azioni volte a ridurre il ruolo dello Stato, della democrazia rappresentativa e del sindacato, a stimolare l’aumento della produttività e, riducendo i salari e peggiorando la distribuzione del reddito, a rincorrere una maggiore competitività. Maggiore produttività e competitività, insieme, offrirebbero attraverso le esportazioni (per la cultura, attraverso l’attrazione dei flussi turistici culturali stranieri) l’occasione per risolvere la crisi, e cioè la disoccupazione di massa e la riduzione della capacità produttiva, dimenticando che si tratta di manovre immediatamente depressive poiché incidono sul salario dei lavoratori. Confidando su questo indirizzo di mainstream di politica economica, un quarto dell’industria manifatturiera italiana è andato perduto e non si è prodotto alcuna intensificazione dei processi di sviluppo economico tali da compensare la riduzione del PIL. Ma a guardar bene, l’inevitabile conseguenza dei bilanci in pareggio ha determinato, non solo in Italia e non solo in Europa, un peggioramento sia nel reddito nazionale sia nella sua distribuzione a favore esclusivo dei cittadini più ricchi, ove uno strumento di finanza pubblica capace di riequilibrare tale disparità non è applicabile perché, appunto, non rispetterebbe il pareggio di bilancio. Sappiamo che i redditi da profitti sono cresciuti, mentre quelli da lavoro sono diminuiti o sono aumentati meno che in proporzione, ma forse la novità maggiore sta nella crescita straordinaria dei volumi e dei valori finanziari – pur nella crisi e/o nella stagnazione delle economie. La divaricazione tra percettori di reddito da lavoro, da redditi da profitti e da ricchezza e rendite finanziaria è la cifra fondamentale per comprendere il funzionamento del sistema capitalistico contemporaneo. Si capisce meglio, alla luce di ciò, perché la riduzione del ruolo dello Stato abbia preso la forma sia del taglio della spesa pubblica (preferibilmente per favorire la riduzione del cuneo fiscale delle imprese), sia delle privatizzazioni (la vendita di imprese pubbliche; le esternalizzazioni di servizi prima prodotti direttamente dalla PA), sia della vendita di asset (suoli, edifici, infrastrutture). Il patrimonio diventa oggetto di uno scambio sul mercato che, una volta liberato dai vincoli ed utilizzi pubblici (anche culturali, se possiedono un rilievo), si accompagna ad una parallela trasformazione finanziaria (garanzie, cartolarizzazioni, mutui, ecc.) che ne moltiplica il valore, valore poi concentrato in pochissime mani.

Come si è distanti dagli anni ’80. Per gli economisti di allora, il settore dei beni e delle attività culturali in Italia allora era considerato anticiclico e stabilizzatore dell’economia nazionale: dal FIO ai giacimenti culturali negli anni ‘80, dalle leggi sull’occupazione giovanile alle leggi sui servizi aggiuntivi degli anni ‘90, e forse sino a includere nella stessa fattispecie la più recente Tax Credit per il Cinema. Questi provvedimenti, pur con una diversa efficacia ed adeguatezza, individuavano la cultura come arma anticrisi. Le motivazioni in larga parte macroeconomiche che spingevano a privilegiare il settore culturale come motore per lo sviluppo erano variegate: settore a basso indice di importazioni, alta propensione al lavoro, bassi costi di produzioni unitari, alto rendimento di scala (per la componente dell’industria culturale come televisione e audiovisivo), forti esternalità positive con altre industrie, turismo in primis. A questi fattori si aggiungono benefici di natura collettiva, i cosiddetti valori di non uso, che hanno a che fare con la crescita dello spirito civico del cittadino, la capacità relazionale di accettare gli altri, sino ad arrivare agli “spiriti animali”, all’educazione, alla formazione: da qui la costante sottovalutazione da parte del Governo, resa ancora più evidente quando si è trattato di obbligare i singoli stati membri della UE a raggiungere il pareggio di bilancio, e ridurre il debito pubblico per compiacere i trattati e la tenuta del tasso di cambio dell’euro ad un livello di gradimento della Germania.
I processi di trasformazione riguardano l’intero sistema economico ma qui l’interesse particolare sta nell’individuare quelli che influenzano la cultura.
Ne individuo almeno due:

  • Una riduzione del perimetro del settore culturale “core” in quanto considerato puro centro di costo di cui non sarebbe possibile giustificarne più il peso sul bilancio pubblico;
  • Una diminuzione del reddito disponibile delle famiglie prodotta dall’intensificarsi della disuguaglianza economica che si traduce in una ulteriore riduzione di spesa per la cultura sia per la componente di mercato (audiovisivo, cinema, musica popolare, editoria, giornali ed informazione, ecc.), sia per quella non di mercato poiché i consumi pubblici sono accompagnati anche da quelli privati (beni culturali o spettacolo dal vivo prevedono biglietti d’ingresso per musei o per attività di spettacolo). L’effetto reale è moltiplicato negativamente riducendo la partecipazione complessiva dei cittadini ai benefici prodotti dalla cultura.

Una strategia per la cultura
Che fare allora? Aspettare che cambi il vento dell’integrazione politica europea? Che la BCE finanzi i disavanzi di bilancio dei paesi europei più indebitati? Che si modifichi l’atteggiamento nazionalista degli stati membri dell’UE? Una semplice attesa rischia di far implodere/esplodere il settore culturale sia quello di mercato, sia quello “core”. Imbastire una forma di resistenza è possibile e auspicabile su vari piani.
Ne individuo almeno due:

  1. Riportare il settore culturale al centro dell’interesse politico per le finalità sociali e di sviluppo che rappresenta;
  2. individuare una strategia più concreta che dimostri sul piano applicato i benefici sociali e di sviluppo collegabili al settore culturale attraverso un approccio “territoriale”.

Migliorare la sensibilità del Governo e della collettività verso la cultura
E’ necessario convincere i responsabili di Governo e più in generale la collettività che la cultura va salvaguardata sia per se, per garantire una disponibilità ed una fruizione a favore delle generazioni future, sia per i benefici generati dagli usi dei beni da parte della collettività italiana e straniera. Questa posizione sarebbe rafforzata qualora sia possibile raggiungere una maggiore coesione tra i responsabili di settore, gli operatori pubblici e privati e l’opinione pubblica più in generale. Oggi, al contrario, si litiga sulla ripartizione di risorse scarse in base ad una qualche discrezionale ed ambigua gerarchia settoriale e/o territoriale. Altri (come Salvatore Settis, vedi il suo “Venezia Muore”, Einaudi editore, 2015) cercano di ribaltare la perdita di legittimità sulla base di un’interpretazione giuridica di principi costituzionali tendente a salvaguardare nella forma, ma non nella sostanza, il perimetro culturale esistente. In questa forma, cultura ed economia (lasciamo da parte il mercato) sono “categorie” antitetiche, perché il valore della cultura sarebbe sempre inestimabile, non valutabile. Non ci si rende conto così che se il valore dei beni culturali è inestimabile (confondendo la differenza di significato tra prezzi e valori), nella sostanza esso è pari a zero, che per la contabilità nazionale l’inestimabile non esiste, come è assente nel PIL, ed è zero anche per chi oggi ripartisce le risorse date e decrescenti della finanza pubblica. Nessuno valuta il valore del Colosseo ad esempio, perché se così fosse dovrebbero forse rivedere i criteri di ripartizione delle risorse pubbliche, proprio perché la cultura possiede un valore molto più elevato di quello segnato dal mercato. Una difesa esclusivamente giuridica, infine, non può salvaguardare alcunché, poiché i fenomeni disgreganti sono incessanti e comprimono le risorse umane e finanziarie a tutti i livelli, anche dal lato della spesa privata, mettendo tutti contro tutti.
Bisogna dunque tornare ad una visione anni ’80, dove il finanziamento alla cultura si giustifica non solo per il valore in sé ma anche per gli effetti di mercato diretti, indiretti ed indotti che produce. Oggi non ha legittimità non perché sia meno valido di allora, ma perché la spesa pubblica è valutata esclusivamente in base agli effetti diretti in quanto puri centri di costo. Se fosse possibile dimostrare, come è facile, che ai centri di costo si contrapponessero centri di ricavo situati esternamente, la situazione sarebbe stata diversa, ma è più facile negare o ignorare queste eventualità, benché reale.

L’approccio microeconomico di mainstream con il quale si giustifica l’azione restrittiva della finanza per la cultura può essere superato attraverso una giustificazione macroeconomica perché solo a questo livello - quello collettivo – si può comprendere e misurare l’importanza della cultura. Ad esempio, si dovrebbe agire subito per modificare il trattamento fiscale della cultura tra i servizi pubblici locali: la cultura è un “servizio essenziale”, come per la sanità, l’assistenza sociale, le scuole. Oggi, purtroppo non è così, nonostante l’Art.9 della Cost.
Ma vi è un secondo piano, altrettanto importante, che il governo centrale e quello locale sono chiamati a dare risposte concrete. Le politiche europee allargano il fossato tra chi possiede un reddito elevato e tutti gli altri. La distribuzione ineguale del reddito e della ricchezza distingue il pubblico tra chi si può permettere una fruizione culturale e chi no. La tendenza, su spinta dell’Europa ed in analogia con quanto accade in altri settori che compongono il Welfare State italiano, è quello di garantire solo una parte residuale della collettività, rendendo meno universale il servizio culturale, garantendo solo i poveri, che se pur hanno bisogno di aiuti e servizi aggiuntivi, non controbilancia l’esclusione sociale di massa che riguarderebbe potenzialmente l’intera classe media del paese. Senza un serio presidio democratico, la logica dell’UE destinerebbe la cultura ad una elite ristretta, un’accusa frequente in Italia perché alcuni politici ed economisti hanno spesso accusato il settore culturale di acuire l’iniquità, un rimprovero indimostrabile ma che rischia di auto-avverarsi se non contrastato politicamente. Anche per questa ragione, coloro che danno priorità all’obiettivo della tutela e conservazione senza valorizzazione hanno torto: solo la diffusione della cultura a tutti i componenti della collettività, e non solo ai ricchissimi e ai poverissimi, garantisce il determinarsi di tutti i valori di non uso.

Le politiche per il territorio: un ambito concreto di sviluppo
Un secondo piano di azione più concreto è quello della valorizzazione territoriale. Per giustificare un flusso di risorse significativo a favore del settore culturale bisognerebbe dimostrare che queste azioni siano efficaci sia per sé sia per lo sviluppo locale. Nonostante esistano buone pratiche ed esempi significativi di valorizzazione in tutti gli ambiti culturali “core” e in varie aree del paese, nell’ultimo ventennio si è assistito anche a insuccessi e sprechi che non hanno prodotto risultati apprezzabili in termini di pubblico, di effetti economici diretti o indotti. Vi sono molte ragioni che spiegano questo risultato, le elenchiamo senza dare un ordine di importanza:

 

  • grandissima frammentazione degli interventi, sia a livello settoriale che territoriale;
  • assenza di progetti di grande rilievo in grado di fare da traino a un processo di valorizzazione territoriale;
  • notevole complessità dei processi di concertazione tra enti pubblici e partenariato socio-economico;
  • mancanza di adeguate competenze all’interno delle amministrazioni responsabili;
  • grandi lentezze nell’elaborazione dei progetti e ancor più lenta attuazione degli interventi;
  • asincronia tra gli interventi “infrastrutturali” (beni culturali) rispetto a quelli relativi al turismo (regimi d’aiuto, formazione) ed alla promozione (eventi, ecc.);
  • attuazione parziale e squilibrata degli interventi programmati, con prevalenza di quelli infrastrutturali per i beni culturali (di conservazione piuttosto che di valorizzazione) rispetto a quelli di carattere urbano e turistico;
  • forti difficoltà attuative dei regimi d’aiuto con la conseguenza di una riduzione drastica della spesa prevista ed erogata;
  • bassa qualità della progettazione, sia sul piano strategico che sul piano tecnico;
  • carenza assoluta o relativa di piani per la gestione dei contenitori culturali e dei sistemi culturali locali;
  • mancato presidio, all’interno delle istituzioni chiamate a gestire i contenitori culturali, di alcune funzioni chiave della gestione e della valorizzazione (come il management, il fund raising, la promozione, ecc.).

Si tratta di un lungo elenco ma vi sono due “fattori” che forse spiegano la gran parte delle difficoltà sopra elencate. Il primo fattore deriva da un’osservazione empirica: la grande complessità tecnica, amministrativa, economica, finanziaria per attuare un programma comprendente sia la fase di realizzazione delle opere (restauri), sia quella successiva gestionale. Tale complessità aumenta ulteriormente quando si ha a che fare con un sistema di beni e con organizzazioni gestionali unitarie ed integrate di area vasta
Il secondo aspetto attiene, invece, alla constatazione che la gestione di beni culturali richiede un coordinamento stretto e permanente tra un numero di responsabili e/o proprietari dei beni (musei, teatri, biblioteche, ecc.) molto elevato. Il fallimento di molti progetti di valorizzazione di beni culturali dipende proprio dall’incapacità di dialogo ex ante od ex post che emerge tra amministrazioni pubbliche e/o private, dialogo che la riforma costituzionale del Titolo V non ha aiutato a migliorare.
Questi due fattori possono essere gestiti e vi è molto da imparare sia dalle best, sia dalle bad practice del recente passato. Il fattore tempo è essenziale perché la realizzazione di questi progetti richiedono una tempistica lunga: sostenere la “motivazione” da parte delle amministrazioni pubbliche responsabili, nonostante i cicli elettorali, è necessario e forse un aiuto potrebbe provenire dall’intervento di organizzazioni intermedie come l’ANCI, i sindacati, le rappresentanze di quell’enorme e variegato movimento delle associazioni culturali.
In fin dei conti, è sempre la frammentazione - mancanza di dialogo interistituzionale e di quello “sociale -, il freno più importante allo sviluppo del settore culturale a livello locale, non importa quale sia il settore culturale coinvolto o prevalente. Dunque il fenomeno “disgregante” non riguarda solo il dibattito sulle riforme costituzionali o di settore, ma si ripropone con le sue varianti anche a livello locale. Si tratta perciò di una “malattia” analoga a quella che colpisce a livello nazionale, e che andrebbe analizzata per sé e trattata con strumenti adeguati. Avrebbe senso, dunque, ripensare gli strumenti e le politiche di intervento tornando nelle aree e nei luoghi che un tempo, negli anni ’80, avevano prodotto i migliori risultati, che sono le “città intermedie” ed il loro hinterland, molte delle quali sono città d’arte già riconosciute come tali a livello culturale o turistico.
Se ancora oggi si guarda a Torino, Ferrara, Mantova o Brescia come modelli di sviluppo locale, è anche perché queste erano state oggetto di investimenti molto consistenti in quegli anni e che hanno convinto intere generazioni successive di politici ed amministratori a sviluppare e differenziare ulteriormente il modello “città d’arte”.
Si tratta proprio di riproporre politiche culturali ed ambientali locali connesse alla rigenerazione urbana ed allo sviluppo della creatività in un ambito territoriale entro il quale sia possibile soddisfare tutte le condizioni tecniche ed amministrative, e soprattutto quelle economiche e finanziarie, che rendono fattibili quei progetti di valorizzazione. Non dovrebbe neanche essere difficile, a questa scala, trovare anche quelle condizioni minime per il successo dei progetti di valorizzazione: capofila di un comune “forte”, presenza di uffici tecnici con personale strutturato adeguato, collegamenti permanenti con il mondo delle imprese e quello del lavoro, e magari anche enti gestori già esistenti e da potenziare. In un contesto territoriale appropriato, non dovrebbe essere difficile trovare i necessari accordi di governance tra enti locali e tra questi ed altri soggetti interessati pubblici e privati, senza i quali non vi è valorizzazione possibile. Non ultimo, infine, assicurare a livello aggregato e su scala urbana una disponibilità adeguata di risorse finanziarie: senza risorse non è possibile creare alcunché, specie nella fase di gestione dei servizi culturali.

Alessandro Leon è Presidente CLES S.r.l.
www.cleseconomia.com