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L’innovazione sociale tre anni dopo

  • Pubblicato il: 16/01/2014 - 23:42
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Articolo a cura di: 
Luciano Abburrà

Quando, quattro anni fa, iniziarono i lavori che avrebbero portato, nel luglio 2011, alla pubblicazione del primo Rapporto sull’innovazione sociale in provincia di Cuneo, il tema dell’innovazione sociale, che nei Paesi anglosassoni godeva già di una certa attenzione, in Italia era seguito principalmente da alcune cerchie ristrette di operatori e studiosi attenti a quanto avveniva oltre confine.
Nei mesi e negli anni successivi alla pubblicazione del Rapporto, invece, il tema dell’innovazione sociale ha visto una crescita esponenziale di interesse pubblico. Sì è iniziato a parlarne nei titoli e negli interventi dei convegni e in iniziative pubbliche di comunicazione; ha conquistato l’attenzione di studiosi italiani che lo hanno reso familiare tra gli operatori di settore; è stato oggetto di iniziative formative; ha assunto rilevanza nei documenti di grandi organizzazioni di terzo settore; è stato messo al centro di “competizioni” che premiano le migliori idee; è diventato il marchio di organizzazioni e movimenti che si fanno assertori di modelli innovativi e, infine, ha assunto rilevanza nelle strategie delle politiche pubbliche a tutti i livelli istituzionali, a partire da quelle promosse dall’Unione Europea.
Se nello scorso triennio vi è stata, nel nostro Paese come in Europa, un’attenzione crescente al tema dell’innovazione sociale, i motivi sono molteplici e riguardano molti attori in gioco.
Il primo trae alimento dalle tensioni sulle capacità di spesa delle amministrazioni locali. Come far fronte a bisogni crescenti con risorse calanti? L’innovazione sociale diventa, in varie declinazioni, una possibile risposta: per offrire servizi a costi minori, per coinvolgere soggetti privati nella produzione e finanziamento di servizi prima sostenuti integralmente dall’ente pubblico, per riattivare risorse umane e finanziarie disponibili nella società e per aiutarle a prendersi carico direttamente di una parte dei problemi, e così via.
Più in generale, a fronte della persistente situazione di crisi economica, l’opzione di dare spazio e sostegno a “buone idee innovative” è stata considerata una strada promettente anche per cercare di promuovere un rilancio imprenditoriale del Paese, soprattutto nelle aree di maggiore arretratezza economica in cui, peraltro, si registra una maggiore disponibilità di risorse comunitarie da destinare a politiche di sviluppo.
Sempre sul fronte delle politiche pubbliche, il tema dell’innovazione è venuto a configurare anche una possibile linea di risposta a questioni “sensibili” come la disoccupazione giovanile e la fuga dei cervelli. In questo caso si è assistito quasi ad una sovrapposizione di politiche e riflessioni su innovazione sociale e politiche giovanili mediata dal riferimento comune al tema delle start-up (l’avvio di nuove imprese innovative): un tentativo di affrontare un grave problema sociale in modalità non assistenziali, ma anzi vedendo i destinatari come potenziali risorse da valorizzare.
Le organizzazioni non profit, da parte loro, hanno intravisto nell’innovazione sociale una possibilità per rovesciare un rischio in opportunità, se è vero che la scarsità di risorse rischia di appiattire il welfare pubblico su un’offerta di prestazioni individuali ben codificate ai soggetti in più grave stato di bisogno (non autosufficienze e disabilità), tralasciando invece gli ambiti e gli interventi mirati ad una trasformazione del contesto dei bisogni sociali di medio lungo periodo (infanzia, famiglia, conciliazione, educazione). Sempre nell’ambito del terzo settore l’innovazione sociale ha intercettato anche una parte delle aspirazioni a sviluppare azioni in ambiti diversi da quelli socio assistenziali: ambiente, cultura, arte, energia, trasporti, consumo. Una tendenza motivata sia dalla percezione di una maggior debolezza dei servizi del welfare, sia da una crescente aspirazione ad assumere un ruolo anche in altri ambiti rilevanti per la qualità della vita delle comunità locali.
Negli stessi anni, poi, è (ri)emersa in vari luoghi una sensibilità anche da parte del mondo delle imprese for profit per tematiche sociali, che si è esplicata dapprima sul tema della Corporate Social Responsibility (CSR). Successivamente è confluita da un lato in nuove sperimentazioni di welfare aziendale, dall’altro in prime esplorazioni della tematica dell’innovazione sociale come ambito potenziale per autentiche iniziative imprenditoriali volte al contempo a dar risposta a bisogni sociali e a garantire un ragionevole rendimento a risorse finanziarie private. Si tratta ancora di sondaggi i cui esiti e la cui portata saranno chiari solo nei prossimi anni. Certo, manca ancora nel nostro Paese qualcosa che assomigli al “filantrocapitalismo” d’oltreoceano, che ha visto l’entrata in campo di risorse prima inimmaginabili, ma l’esplorazione si è avviata e merita attenzione.
Insomma, in questi anni l’innovazione sociale sembra la classica soluzione che ha trovato il suo problema. I soggetti pubblici sono alla ricerca di soluzioni per fronteggiare la crisi, il sistema di welfare si interroga su come rispondere a bisogni crescenti con risorse calanti, il terzo settore è alla ricerca di strategie per uscire dall’angolo che lo vede anello finale (e debole) delle tensioni sulle finanze pubbliche, nonché per emanciparsi da ruoli subalterni in cui era suo malgrado caduto. Sull’altro versante, i soggetti di mercato sono alla ricerca di strade per affermare un ruolo sociale diverso da quello di corresponsabili della crisi economica, ma ancor più per individuare nuovi ambiti di domanda verso cui indirizzare l’attività imprenditoriale, potendo contare su bisogni in crescita, capacità potenziali di spesa dei privati suscettibili di essere stimolate e prospettive di rendimento dei capitali meno alte, ma più stabili di quelle prospettate da impieghi finanziari più convenzionali.
Ancora, l’innovazione sociale viene rappresentata anche dalle istituzioni internazionali come uno dei pochi ambiti in cui è ancora ragionevole argomentare che le spese pubbliche – comunque inferiori rispetto a interventi “riparativi” – costituiscano un social investment: da finanziare anche con fondi strutturali a fronte di futuri benefici pubblici.
Resta ora da verificare quante delle molte aspettative verranno soddisfatte e quali iniziative innovative si dimostreranno più efficaci nel tempo.

Luciano Abburrà, IRES Piemonte

da Risorse, Rivista della fondazione cassa di RispaRmio di Cuneo, dicembre 2013