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L’impresa va in scena con un’anima pop

  • Pubblicato il: 15/11/2015 - 19:53
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Articolo a cura di: 
Elisa Fulco

Dal 10 al 20 Novembre «L’impresa va in scena». In occasione della XIV Settimana della Cultura d’Impresa, promossa da Confindustria, aziende, musei, archivi e fondazioni d’impresa raccontano le forme contemporanee di investimento in cultura con spettacoli teatrali, mostre, convegni e rassegne di cinema industriale. Antonio Calabrò, responsabile Gruppo Cultura di Confindustria e consigliere delegato della Fondazione Pirelli, ci rivela le novità di questa edizione all’insegna del teatro, della responsabilità sociale d’impresa e di nuove relazioni tra industria e arte contemporanea

 

«L’impresa va in scena », oltre ad essere il titolo scelto per la Settimana della Cultura d’impresa, rappresenta la novità di questa edizione. Come nasce l’idea di unire teatro e storie d’impresa?

Si parte dall’idea che sia il teatro sia l’impresa sono entrambi soggetti sociali «popolari», che hanno cioè un radicamento sociale e una base collettiva che vanno recuperati e condivisi con un pubblico allargato. E’ un binomio perfetto. L’industria è il motore popolare dello sviluppo, non solo economico ma sociale e civile di un paese. E il teatro è lo strumento ideale per rappresentare il racconto dell’Italia in movimento, in grado di mettere in scena in chiave narrativa l’imprenditorialità, il lavoro, il saper fare, le relazioni tra persone e i valori connessi alla migliore cultura d’impresa italiana, dagli anni Cinquanta a oggi: intraprendenza, sapienza manifatturiera, operosità, che hanno una traduzione letteraria nei testi di Primo Levi, Ottiero Ottieri, Italo Calvino, Ermanno Rea, Carlo Emilio Gadda, etc. tratti dall’antologia Fabbrica di Carta, curata da Giorgio Bigatti e da Giuseppe Lupo, e dai romanzi recenti L’estate infinita di Edoardo Nesi e Cellophane di Cinzia Leone. L’obiettivo è restituire attraverso i reading teatrali il dinamismo creativo alla base dell’esperienza della fabbrica, dell’industria, senza nessuna rievocazione nostalgica ma, al contrario, con l’obiettivo di far proprio un passato, sia nell’esemplarità che nelle criticità, come stimolo al cambiamento per il futuro.

Qual è la formula e quali le risposte da parte degli imprenditori.
Come Gruppo Cultura di Confindustria abbiamo proposto i testi degli autori ma le associazioni e le imprese hanno liberamente interpretato e riadattato i materiali forniti. In qualche modo, l’eterogeneità fa parte delle stesse imprese che, per categoria merceologica o per attitudine, sono profondamente diverse tra loro. Il nostro compito è stato quello di dare unità alla diversità, fornendo una griglia che nove associazioni territoriali, delle ottantuno coinvolte per la Settimana della Cultura d’impresa, hanno accolto creando degli appositi spettacoli teatrali in nove dei più importanti teatri italiani (Teatro Parenti di Milano, Teatro Biondo di Palermo, Teatro Comunale di Bologna, il Piccolo Eliseo di Roma, la Fenice di Venezia, il Teatro di Rifredi a Firenze, l’Abeliano di Bari, il Teatro Cucinelli a Perugia e il Foyer della Rai a Napoli). Gli altri associati hanno rielaborato diversamente il tema, proponendo mostre, presentazioni, o piuttosto visite guidate, come ben testimonia il calendario di eventi promossi daMuseimpresa per la Settimana. Nel caso del Teatro Cucinelli, la proposta è andata ben oltre la nostra indicazione, e ha portato alla realizzazione di uno spettacolo i cui protagonisti sono gli stessi imprenditori e i loro figli che hanno voluto portare in scena la loro storia mediata dai testi letterari. E ai teatro si sono ispirate anche le iniziative della Fondazione Pirelli e della Zambon.

Il recupero della dimensione «letteraria» e teatrale della fabbrica rimanda all’attualità dell’umanesimo industriale, e sembra fornire un nuovo lessico alla cultura d’impresa italiana.
Siamo usciti dalla fase novecentesca dell’impresa e dell’imprenditore consapevole che in maniera verticale restituiva al territorio e alla comunità, secondo la logica del “faccio profitti e faccio del bene”, che aveva una traduzione anche nella conservazione della storia dell’impresa sotto forma di archivi e musei d’impresa come impegno per la tutela dei beni privati. Oggi siamo nella fase dell’economia collaborativa, dell’impresa e dell’imprenditore responsabile, che fa profitti perché fa bene i suoi prodotti e li fa in modo sostenibile e con ampi vantaggi sociali, in cui  la stessa storia aziendale diviene patrimonio condiviso e accessibile.  L’impresa è dentro una comunità allargata, all’interno di un modello orizzontale in cui viene meno la separatezza tra mondo imprenditoriale e civile. Un orizzonte che va oltre la stessa proposta di «comunità» olivettiana. La parola chiave è  legittimazione. Green economy, responsabilità sociale d’impresa, coesione sociale, recupero del kalòs kai agathòs (cose belle e ben fatte), alla base della cultura italiana, sono le vie per accreditarsi, anche internazionalmente. Resta centrale il fatto che l’impresa per sua natura deve fare profitto, non è la chiesa, né l’università. Ma appare chiaro pure che deve far proprie funzioni che sono«l pubbliche», come il benessere sociale, l’educazione, la sicurezza e la salute, che a lungo sono state considerate dominio dello Stato e del Pubblico. Sono gli stessi concetti di pubblico e privato che necessitano di un ripensamento di ruoli: pubblico non è un titolo di proprietà, ma una funzione.

L’impresa sembra rivendicare il suo ruolo sociale, proponendo un superamento della stessa responsabilità sociale d’impresa. Ci sono eventi, nel calendario della Settimana e nei programmi per l’immediato futuro, che raccontano questo cambiamento.
A Roma, il  20 Novembre Fondazione Anima e Sodalitas, due strutture collegate una a Unindustria Roma e l’altra all’Assolombarda, organizzano insieme l’incontro «L’inclusione sociale e le chiavi dello sviluppo» in cui verranno presentate delle case history di imprese che adottano strategie efficaci nell’affrontare le aree di più forte disagio, nella logica dell’inclusione come fattore chiave dello sviluppo. Confindustria Bari e B.A.T e Forum RSI organizzano l’incontro  CSR 3.0, ovvero un modello di responsabilità sociale d’impresa che lavora sulla creazione di un network in cui le imprese saranno affiancate da ONG e governi per incrementare la catena del valore e nuovi modelli di sostenibilità. Un approccio in linea con le nuove misurazioni del BES, ovvero del benessere equo e sostenibile, un indice che va oltre il mero impatto economico del PIL. Il famoso motto del premio Nobel Gary S. Becker, «escludere non conviene», acquista nuovi significati, che non rimandano al buonismo ma all’opportunità di non lasciar fuori nessun soggetto, il cui contributo può essere fondamentale per la crescita sociale e conseguentemente aziendale, per la competitività dell’impresa.

Tra le parole che si caricano di nuovi significati c’è anche la parola innovazione che acquista nuove accezioni nella cultura d’impresa italiana. A cosa di deve questo ampliamento semantico?
Siamo abituati a pensare l’innovazione dal punto di vista dell’hi tech più sofisticata e dell’information technology. Nella più ampia accezione italiana innovazione sta per sguardo curioso e aperto sul futuro, come attitudine al cambiamento che investe prodotti, processi produttivi, materiali, relazioni industriali, qualità e sicurezza, linguaggi della comunicazione e del marketing. Un’innovazione creativa e adattiva che sa trovare spazi di successo su mercati internazionali sempre più competitivi, e che sa combinare medium tech e hi tech, partendo da un radicamento territoriale, in cui anche le piccole e medie imprese sanno muoversi nel doppio registro della memoria e del futuro. Una cultura che si può riassumere nell’acronimo steam, nato in Assolombarda: science, technology, engineering, arts and manufacturing.

Tra i territori di attenzione della cultura di Confindustria c’è anche una riflessione sul rapporto tra impresa e arte contemporanea, che segna il superamento di una reciproca diffidenza.
Abbiamo avviato una riflessione comune, tra il Gruppo Cultura di Confindustria e la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, che porterà a un convegno in primavera. Ci unisce l’idea del ruolo essenziale dell’arte contemporanea come interprete privilegiata del cambiamento, dei suoi linguaggi, delle sue relazioni anche critiche con i pubblici: una caratteristica di frontiera, grazie alla sua capacità di ibridare e di fertilizzare linguaggi, materiali, forme espressive. Sono temi di estremo interesse anche per l’impresa. Dal confronto tra istituzioni pubbliche, imprese, protagonisti dell’economia e della cultura bisogna far emergere il ruolo chiave che l’arte contemporanea svolge nella creazione di una cultura politecnica, recuperando il dialogo tra creazione artistica e realtà produttiva che peraltro appartiene alla stessa tradizione artistica italiana. Gli artisti oggi, come in passato, guardano all’impresa anche per confrontarsi con modelli di sperimentazione e di ricerca. E’ una visione che va ben oltre la logica delle sponsorizzazione, o del mecenatismo e in cui si rafforza l’idea che l’investimento in arte contemporanea è funzionale allo sviluppo economico e sociale del paese e deve essere sostenuto anche con politiche di sgravi fiscali e di sostegno. L’esperienza di Pirelli con l’arte contemporanea dimostra il grado di innovazione che l’arte contemporanea può esprimere se contaminata con la ricerca tecnologica dell’impresa. Così come il libro Una musa tra le ruote. Pirelli un secolo d’arte a servizio del prodotto, curato dalla Fondazione Pirelli, fa ben comprendere il ruolo che la committenza industriale ha giocato nell’arte del Novecento.

La committenza è una parola che genera spesso diffidenza, soprattutto nell’arte contemporanea.
In realtà l’arte del passato, ma anche nel Novecento racconta un’altra storia.  Ovvero, come i limiti imposti dalla committenza abbiano dato vita a veri e propri capolavori in cui l’artista ha accolto la sfida di esprimere la propria libertà dentro vincoli precisi. Senza vincoli e senza conflitti per tenerne conto e per superarli con creatività, d’altronde, non ci sarebbe stata innovazione. Anche nel contemporaneo, a partire dal briefing, ci sono ampi spazi di libertà, purché a guidarci  nel dialogo tra impresa e arte, ci siano due dei valori aggiunti della cultura d’impresa contemporanea: responsabilità e cultura.

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