Italia Non Profit - Ti guida nel Terzo Settore

L’impresa di comunicare i musei d’impresa

  • Pubblicato il: 14/02/2016 - 11:39
Autore/i: 
Rubrica: 
CONSIGLI DI LETTURA
Articolo a cura di: 
Elisa Fulco

Domenico Liggeri nel libro «La Comunicazione di musei e archivi d’impresa. Metodologia dell’informazione e strategie mediatiche» traccia un ritratto inedito del settore, sottovalutato dalla museologia e dalle discipline economiche, la cui natura mutidsciplinare a servizio dell’impresa ne rallenta il riconoscimento culturale. Nell’intervista racconta come i musei d’impresa rivelino le strategie culturali avviate dalle imprese testimoniando lo stato di salute dell’intero sistema industriale
 
 
La premessa del libro è che sia necessario ripensare la comunicazione dei musei d’impresa, adottando nuove strategie mediatiche per migliorare l’immagine esterna e interna del settore, per valorizzare il territorio che li ospita e contribuire alla crescita economica e culturale del paese.
 
Quali sono le  criticità e le diffidenze da superare per ottenere un corretto posizionamento dei musei d’impresa?
I musei d’impresa rappresentano una vera e propria anomalia nel panorama museale perché sono cresciuti nel tempo senza che siano stati veramente oggetto di studio e di riflessione, e di fatto c’è pochissima letteratura sull’argomento. Per la loro natura multidisciplinare sfuggono a una definizione univoca e si prestano ad essere analizzati da diversi punti di vista: storia dell’arte, economia, marketing,  museologia, sociologia. Questa ricchezza si trasforma in debolezza se non si riesce a trasmetterne le peculiarità. Nell’opinione comune il museo d’impresa racconta la storia aziendale, produttiva, o le gesta del fondatore, in realtà rientrano nella categoria tutte le istituzioni culturali che sono finanziate da un’azienda, anche se non si occupano  direttamente della storia del marchio o del settore merceologico dell’impresa. In questa chiave, la stessa Fondazione Prada rientra nella definizione ma è evidente che c’è una volontà precisa di prendere le distanze da questo mondo, e di segnalare la propria diversità culturale. Restano da analizzare le motivazioni che spingono a percepire queste strutture come marginali, capricci di upper class, se non curiosità, e perché molte delle discipline, che dovrebbero aiutare nella comprensione del fenomeno, continuano a tralasciare il settore che più di altri rappresenta un perfetto indicatore dello stato di salute del sistema industriale e delle azioni culturali avviate nel paese . In fondo, i musei d’impresa sono tra le prime testimonianze dell’investimento da parte dei privati in cultura e della capacità delle imprese di produrla e diffonderla, con esiti che spesso superano le ambizioni degli stessi imprenditori.
 
 
C’è anche una sorta di diffidenza rispetto all’autonomia di una governance che attraverso i musei d’impresa esprime i valori dell’impresa. Quanto incide l’impronta della cultura umanistica italiana in questa mancata valorizzazione? 
Di fondo, il fatto che i musei siano emanazione diretta delle imprese fa sì che vengano percepite dai più come entità commerciali e promozionali con poche finalità culturali. Nella realtà, è chiaro a pochi che i costi di fondazione e di gestione di un museo sono così alti che non può essere soltanto il ritorno economico la motivazione profonda che spinge le imprese ad investire in queste strutture, che presuppongono una visione di lungo periodo, tipica del mondo culturale.  Le scelte di investimento e le modalità con cui si esprimono ben raccontano il livello di maturità,  di ritardo o innovazione dello stesso imprenditore. I musei d’impresa sicuramente hanno aiutato nella comprensione e nella valorizzazione della cultura scientifica, del saper fare, recuperando la matrice politecnica della cultura italiana e l’importanza di metterla in scena e di trasformarla in una esperienza «pratica».
 
 
Che tipo di azioni possono favorirne la comunicazione e la comprensione?
E’ un settore che più di altri può ottenere grandi benefici nell’essere comunicato come sistema, come rete, capace di restituire la ricchezza merceologica, produttiva e inventiva delle eccellenze del Made in Italy. E’ evidente che la Galleria Ferrari con i suoli 35.000 visitatori annui ha una tale potenza che si comunica da sola, ma analizzando la comunicazione prodotta nel tempo, il gioco solitario non paga e non produce la massa critica necessaria per incidere e cambiare la percezione del pubblico. Come dimostra l’Associazione Museimpresa, che con la sua rete di cinquanta associati ottiene una copertura mediatica straordinaria in occasione della Settimana della Cultura d’Impresa, che ha ricadute su tutti gli associati, sia a livello locale che nazionale. Ugualmente sono i singoli musei che devono ambire essi stessi a fare rete con il territorio e il sistema culturale a cui appartengono, intrattenendo rapporti con i visitatori, anticipandone i bisogni, suggerendo già nella comunicazione social e online percorsi di visita per integrare il turismo industriale con altre eccellenze paesaggistiche, artistiche ed  enogastronomiche.
 
 
Come si può trasformare l’eterogeneità di musei e archivi d’impresa in un punto di forza?  Sicuramente la Galleria Ferrari è più facile da comunicare del Museo del Confetto.
Ci sono marchi e storie d’impresa che hanno un forte impatto emotivo sul pubblico, soprattutto quelle che producono oggetti legati al piacere, alla bellezza, al gusto (macchine, abbigliamento, cibo), ma il tema che resta uguale per tutti è come scaldare questi contenuti, e come trasformarli in mostre  interattive, in siti, in comunicazione per i social. Nella maggior parte dei casi, soprattutto per i brand meno evocativi, bisogna lavorare maggiormente sul contesto storico, sociale, imprenditoriale che li ha prodotti e trasformare questi dati freddi in narrazioni coinvolgenti. Il lavoro archivistico, alla base di queste musei, è spesso scientificamente ineccepibile ma a volte manca un utilizzo consapevole di questo materiale che ha possibilità di essere usato e valorizzato in tantissimi contesti comunicativi, dai più tradizionali  ai più innovativi (video, clip, storytelling digitale), anche con budget ridotti, soprattutto sui social media. Questi ultimi, se ben gestiti, possono contribuire al rilancio dell’immagine museale con risultati tangibili. Come dimostra la pagina facebook del Centro Storico Fiat che per numero di amici supera la Pinacoteca di Brera di Milano. Il problema è che oggi molti musei non hanno più risorse economiche da destinare alla programmazione culturale e alla valorizzazione della collezione, di conseguenza la stessa comunicazione museale passa in secondo piano pur essendo strategica per la reputazione aziendale.
 
 
Quali sono i vantaggi di una corretta comunicazione dei musei e archivi di impresa?
Se ben trasmessi all’esterno consentono alle aziende di ottenere grandi vantaggi sul piano della reputazione, della responsabilità sociale, delle relazioni istituzionali, e permettono di dialogare in maniera paritaria con Università, musei, fondazioni e amministrazioni, oltre a rappresentare un valore aggiunto per il territorio che li ospita e una risorsa turistica. Ci sono anche degli aspetti meno visibili che andrebbero maggiormente comunicati, per esempio quanto questi musei abbiano contribuito a cambiare e ampliare lo stesso concetto di bene culturale. Basti pensare al contributo che i musei d’impresa hanno dato all’inserimento dei Paesaggi Vitivinicoli del Piemonte: Langhe-Roero e Monferrato nella Lista del Patrimonio Mondiale Unesco avvenuta nel 2014.
 
 
In alcuni casi il riconoscimento culturale e l’attaccamento da parte della comunità va ben oltre la stessa storia aziendale
Il Museo Storico Alfa Romeo di Arese, o piuttosto il Museo Richard Ginori di Sesto Fiorentino hanno dimostrato come questi musei siano parte fondante dell’identità e della memoria del territorio, il cui valore culturale sopravvive alla stessa vita aziendale, e la cui perdita è percepita come un danno reale dalla comunità locale e nazionale. Non è un caso che la collezione d’auto Alfa Romeo sia sotto tutela della Soprintendenza, così come la collezione archeologica del Museo Martini di Pessione. Per paradosso sono musei che andrebbero difesi e tutelati soprattutto in tempi di crisi per impedirne la sparizione, in fondo rappresentano l’archeologia del prossimo futuro.
 
 
Ci sono dei casi di comunicazione aziendale che segnalano un cambiamento di prospettiva  nel settore?
La scelta di Branca di lanciare uno spot pubblicitario dedicato al Museo Branca nel palinsesto televisivo durante il periodo dell’Expo rappresenta un’interessante novità. Per la prima volta è la storia aziendale a comunicare il prodotto e il valore storico e culturale del marchio. Così come è nuova la scelta di Ferragamo di comunicare nei principali quotidiani  nazionali la mostra  «Il Palazzo e la Città» prodotta dal Museo Ferragamo. Se queste esperienze segnalano l’entrata dei musei nella comunicazione istituzionale delle aziende, la scelta del Museo Nicolis di offrire  la sede museale come set per video musicali rappresenta un modo nuovo di veicolare la collezione e di intercettare nuovi pubblici. C’è ancora moltissimo spazio per progettare nuovi format.
 
Domenico Liggeri è docente di Metodologia dei Musei d’Impresa alla Facoltà di Arti, Turismo e Mercati dell’Univer­sità IULM di Milano, all’interno della quale fa parte del Dipartimento di Arti e Media.
 
 
 
Domenico Liggeri, La Comunicazione di musei e archivi d’impresa. Metodologia dell’informazione e strategie mediatiche, Lubrina editore, 2015
 
© Riproduzione riservata