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Il direttore manager: un’opportunità per indirizzare il percorso del settore culturale

  • Pubblicato il: 09/08/2016 - 12:44
Autore/i: 
Rubrica: 
SPECIALI
Articolo a cura di: 
Marcello Minuti
Ph | Alfredo Jaar – Questions Questions. Progetto pubblico per Milano

SPECIALE MECENATE '90. Terza riflessione per il Forum sulle riforme proposto da Mecenate 90 sulla nostra testata ad esperti di politiche culturali. “Se la direzione del cambiamento viene oramai delineandosi con una certa chiarezza, chi deve - e come - assumersi la responsabilità del suo compimento e interpretarne il senso? Quali possono, quindi, essere gli strumenti utili per provare a sbloccare resistenza, prassi, convinzioni consolidate? “. Marcello Minuti rilegge le innovazioni nelle politiche culturali dal 1993, con i relativi strumenti. Operazioni che l’autore giudica interessanti, ma non perfettamente concluse: dai concessionari della Legge Ronchey, ai distretti culturali, al principio del bene comune e oggi i manager dei musei autonomi. Ci sono le condizioni per non perdere l’ennesima buona occasione? Al direttore manager va attribuita la possibilità di governo delle risorse umane, ancora saldamente ancorato alla struttura centrale. Con musei dotati di personalità giuridica

La riflessione intorno ai sistemi di offerta culturale, alla necessità di una loro riconversione, di una ri – progettazione dei loro contenuti, affinché questi siano sempre più attuali, più utili alle persone, meno autoreferenziali, è uno dei temi cardine su cui si gioca oggi la grande scommessa delle nuove politiche di valorizzazione.
In altri termini, musei, teatri e biblioteche vinceranno la sfida della legittimazione nella società – e quindi poi nella strategia politica della nazione - solo se inizieranno ad aprirsi alle persone, solo se torneranno ad essere popolari e parte della vita comune di tutti. E dovranno farlo scegliendo una logica di sostenibilità, più attenta alle condizioni locali e nazionali di sviluppo e riuscendo, infine, a pesare meno sulle casse del settore pubblico e su quelle degli enti locali in particolare (i 40 miliardi di tagli alle finanze degli Enti Locali tra il 2008 e il 2015 sono sufficientemente eloquenti della situazione vissuta da Comuni, Regioni e Province)1. Per fare questo, per compiere questo passaggio, occorre capire non tanto la direzione del cambiamento, che viene oramai delineandosi con una certa chiarezza, ma chi deve - e come - assumersi la responsabilità del suo compimento e interpretarne il senso. Quali possono, quindi, essere gli strumenti utili per provare a sbloccare resistenza, prassi, convinzioni consolidate? 
La soluzione è stata individuata prima nei concessionari della Legge Ronchey, poi nei distretti culturali, poi nel principio del bene comune e oggi nei manager dei musei autonomi.
Penso che ognuna di queste quattro soluzioni, che traggo dalla storia recente delle politiche culturali, abbia in sé qualcosa di interessante e che però ciascuna rappresenti un’operazione non perfettamente conclusa.
Prendiamo il caso dei concessionari privati, introdotti nel nostro ordinamento nel 1993 con la Legge Ronchey (L. n. 4/93). Si trattò allora di una grande e positiva innovazione che però avrebbe avuto un grande bisogno – negli anni a venire – di qualche “refresh”. Ad esempio, immaginando un ruolo più decisivo dei privati nella definizione del progetto di gestione, ideando sistemi di offerta in grado di mettere in campo un po’ di sana creatività imprenditoriale, anche favorendo il ricorso a procedure “innovative”. Penso, quindi, al dialogo competitivo (art. 58 del DLGS n. 163/2006, ora art. 64 del DLGS n. 50/2016), al project financing dei servizi (artt. 153 ss. del DLGS n. 163/2006, ora artt. 183 ss. del DLGS n. 50/2016), alla concessione di valorizzazione (art. 3bis del DL n. 351/2001). Come anche innalzando i margini trattenuti dal privato sul prezzo del biglietto (oggi fissati al 30%), o, fornendogli qualche altra “P” rispetto a quelle che quando eravamo all’università ci insegnavano essere le 4 “P” del marketing: il prezzo (del biglietto, che non decide lui), la promozione (cosa, come, quando, dove comunicare, su cui decide molto poco), il prodotto (assolutamente nella piena disponibilità della soprintendenza), il punto vendita (distribuzione, su cui forse qualcosa il privato può fare). Per un disegno di questo tipo, che oggi vedrebbe un privato “partner” e non già fornitore, bisognerebbe poi rafforzare il ruolo del pubblico in materia di indirizzo e controllo. Un privato libero di agire ed inventare, richiede un pubblico integro e competente a monitorare le azioni, incoraggiare e premiare, correggere e punire. Le concessioni di servizi rischiano di diventare, altrimenti, brutali e ingiuste privatizzazioni, di cui nessuno di noi sente il bisogno. Vale la pena a tale proposito ricordare che qualche strumento utile a sopperire alla carenza di strumenti di misurazione dei risultati inerenti la gestione dei servizi al pubblico nei luoghi della cultura statali esiste già. Nel 2011, il MiBAC sperimentò, infatti, un sistema organico di monitoraggio e valutazione per il settore culturale (POAT MIBAC OB. II.4 del PON GAT FESR 2007-2013), che potrà (anzi, dovrà) essere recuperato nelle prossime gare. Questo, ovviamente, laddove si deciderà di procedere concretamente per uscire dal regime di proroga perenne in cui stallano le attuali concessioni.
Venendo alla seconda questione, quella dei distretti, l’esperienza ci ha insegnato che molto spesso quelli che venivano raccontati in convegni e libri come dei nuovi distretti a matrice culturale, erano in effetti dei sistemi che lavoravano soprattutto su azioni di comunicazione integrata. Oggi i distretti non vanno più di moda, ma l’integrazione tra risorse culturali rimane una via molto valida per raggiungere economie di scala, di scopo e di conoscenza, in modelli che mettano insieme grandi attrattori con il patrimonio minore e che lavorino non solo per produrre la “brochure unica”, ma per condividere uffici, strategie, persone2. Quella dell’integrazione, se ben studiata, è una via che potrebbe ad esempio risolvere un problema che non avremmo mai immaginato potesse raggiungere i livelli toccati in questa estate: mi riferisco al sovraffollamento di turisti nelle città d’arte e alla saturazione dei turni di visita all’interno dei grandi attrattori, fattori di cui il mercato turistico italiano ha, suo malgrado, beneficiato a seguito dei drammatici avvenimenti di terrorismo internazionale verificatisi oltre i confini nostrani.
Vengo poi al punto dei beni comuni, “refrain” in voga già tempo in vari convegni e tale rimasto, senza che si giungesse alla fine di tutte le discussioni alla definizione di modelli reali di intervento, lasciando così che esperienze come quella del Teatro Valle (con l’occupazione dell’edificio da parte della Fondazione Teatro Valle Bene Comune tra il giugno 2011 e l’agosto del 2014) celassero dietro lo slogan del bene comune, iniziative di privatizzazione; in quel caso, sì, davvero ingiusta. Sono convinto dello straordinario ruolo che potrebbero fornire gruppi organizzati di persone - motivati da sensibilità e da un profondo senso civico per i beni culturali - come parte integrante del sistema e ritengo per questo necessario che si definisca un nuovo paradigma del rapporto tra pubblico e privato, che sia in grado di creare le giuste condizioni per una collaborazione proficua tra questi soggetti.
Ma è giunti a questo punto che dobbiamo uscire dalla retorica: quando si parla di rapporto pubblico privato dobbiamo interrogarci seriamente su chi sia il pubblico e chi sia il privato e sul ruolo “culturale” che questi debbano assumere. Se possiamo, infatti, permetterci delle politiche di valorizzazione che siano in grado di regolare il coinvolgimento di soggetti privati anche a fine di lucro per la valorizzazione di grandi attrattori, per il patrimonio “minore” e per quello diffuso dobbiamo iniziare a ragionare su politiche speciali che favoriscano e agevolino la partecipazione e la presa in carico di tali beni da parte di questi soggetti.
Infine, riguardo la figura del direttore museale, la recente riforma del Ministro Franceschini (DPCM n. 171/2014 e DM n. 44/2016) ha permesso la definizione di ampi gradi di autonomia gestionale a favore di questi nuovi manager. Manager che oggi, a tutti gli effetti, possono controllare il prezzo, possono definire le politiche di valorizzazione, possono definire gli orari di apertura. In sostanza ai direttori vengono affidate la produzione e il marketing, vale a dire le due funzioni che rendono un’azienda tale. Rimane, però, un vuoto. Al direttore manager non è ancora permesso di controllare, se non entro i limiti di margini ridottissimi, il fattore produttivo più importante, maggiormente determinante: il personale, ancora saldamente ancorato alla struttura centrale. Ritengo, dunque, che un importante passo in avanti potrà essere fatto dotando definitivamente i nuovi 30 musei e siti archeologici autonomi di personalità giuridica. Solo così anche il personale potrà transitare in capo ai nuovi soggetti e i margini di autonomia del nuovo direttore delle aziende museo potranno definitivamente esplicare gli effetti attesi.
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Marcello Minuti è economista della cultura, fondatore e presidente di Struttura Consulting.

 
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