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I LUOGHI DEL PENSIERO SONO LE ZONE TROPICALI

  • Pubblicato il: 16/09/2016 - 22:00
Autore/i: 
Rubrica: 
LA PAROLA AGLI ARTISTI
Articolo a cura di: 
Andrea Bruciati

L’incontro con Andrea Galvani, artista veneto da diversi anni trapiantato tra Stati Uniti e America Latina, conferma una posizione coraggiosa poiché conferisce ancora importanza alle capacità razionali di analisi dell’uomo . La sua voce ci parla di una dimensione quasi alchemica, che ricerca l'invisibile e si rinnova nell'incanto della scoperta, in una prospettiva aperta, poliglotta e poliedrica. Il passo che ha scelto di David Malin è significativo. Andrea Bruciati, direttore di ArtVerona, lo ascolta per la rubrica “Voce agli artisti”

 
"Only with the invention of the telescope did we begin to understand that this planet is not at the centre of all things.
Only with the arrival of photography did we realize that there was no centre.
"
David Malin, A View of the Universe

Che posto occupa la pratica scientifica nella tua ricerca?
Quando le cose diventano molto calde o molto fredde cambiano. A volte lo fanno in modo così radicale che non le riconosciamo più. Si modificano così tanto che nulla, alla vista, ci può far più pensare che la loro composizione molecolare sia rimasta invariata. Allo stesso tempo, oltre i 780 nm, la soglia dello spettro visibile, l’occhio umano precipita nel buio, un buio cosmico in cui le onde elettromagnetiche trasmesse dagli oggetti non sono più percepibili. C'è uno spazio ulteriore, un ponte tra la manifestazione di un fenomeno e il meccanismo che lo origina. Uno spazio a volte disarmante e denso di interrogativi. Mi interessano questi nodi, questo dualismo che contiene nuove prospettive.

Da dove nasce questo interesse?
Da ragazzino ero ossessionato dall'invisibile, dall'infinitamente piccolo, dai territori interiori delle cose. Sono cresciuto in un ambiente famigliare in cui la ricerca, la sperimentazione scientifica, ma anche una particolare sensibilità all'arte e alla musica erano linguaggi quotidiani. Papà è stato un pioniere della nefrologia chirurgica; nel 1968 formò parte dell'equipe che eseguì il primo trapianto renale umano in Italia. Della mia infanzia ricordo le domeniche pomeriggio in cui con gioia potevo stare con lui ad ascoltarlo per ore rispondermi con estrema chiarezza e semplicità a questioni complesse. Quella sete di conoscenza, quell'irrefrenabile desiderio di capire mi accompagna ancora oggi ed è di fatto il motore di molti dei miei progetti.

Il tuo lavoro si sviluppa spesso con il supporto tecnico di istituti di ricerca e in forma collaborativa. In una delle tue ultime azioni "The End (Action#1)" hai coordinato oltre trenta operatori distribuiti sulla linea dell'equatore per riprendere simultaneamente l'alba il giorno dell'anniversario della morte di Galielo Galiei. Qualche anno prima per "Higgs Ocean Project" hai attraversato il Polo Nord con alcuni ingegneri accumulando energia solare che è stata poi riproiettata oltre la ionosfera verso le profondità più remote dell'universo. Che rapporto hai con l’ecosistema e queste geografie estreme?
Il pianeta si consuma, la sua topografia si va inesorabilmente appiattendo da milioni di anni nel processo di erosione eppure questo disfacimento è cosi lento che le montagne, le vallate e la geografia dei luoghi ci appaiono come elementi immobili, solidi, in grado di sopravvivere al nostro sguardo.
All'inizio del romanzo-diario “La nausée” di Sartre, durante un passeggiata il protagonista Antoine Roquentin, afferra un sasso e lo stringe. L'episodio è irrilevante, eppure tenere quel sasso in mano gli produce una strana sensazione: si accorge che quella cosa esiste. Che non ha soltanto una massa, un peso e una dimensione: esiste in senso stretto, ha una sua presenza.
C'è una dimensione metafisica, un atteggiamento psicologico che ci pervade completamente quando entriamo in contatto profondo con gli elementi naturali che ci circondano, quando improvvisamente ci spostiamo da una dimensione personale ad un tempo e uno spazio geologico. The End (Action #1) è un risveglio, uno spostamento di scala. I fenomeni di interferenza geografica e atmosferica: le nuvole, la bruma, la diversa densità dell'aria cosi come la differenti tecnologie usate per le riprese generano un precipizio. La linea dell'orizzonte oltre la quale sparisce il nostro campo visivo soggettivo si riapre verso una dimensione nuova e collettiva dello spazio. E' la documentazione simultanea e poliedrica di un solo importantissimo evento, un evento che scandisce i nostri giorni e la nostra fragile condizione umana, estendendola verso una prospettiva e un tempo più grandi.
Deleuze diceva: «Spetta a noi andare nei luoghi estremi, alle ore estreme, dove vivono e si levano le verità alte più profonde. I luoghi del pensiero sono le zone tropicali, consuete all’uomo tropicale. Non le zone temperate, non l’uomo morale, metodico e moderato». (G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, Colportage, Firenze, 1978, p. 160) 

Quando la sfida diventa prometeica, conferendo alla nostra tensione un valore sociale?
E' interessante questo tuo riferimento a Prometeo. Credo che soprattutto oggi, in un epoca di smarrimento, di labirinti di immagini e messaggi di imperativi assoluti, i miti dell’antichità abbiano ancora qualcosa da insegnarci. Sono degli universali, degli archetipi che appartengono all’umanità nella sua totalità, al di là di uno spazio geografico e di un tempo storico. Dentro ci ritroviamo le nostre esperienze fondamentali: l’amore e l’odio, la trasformazione, il bene e il male, ma anche il fallimento, la morte e la salvezza.
La mitologia ci racconta che l'immortale Titano Promētheús era stato condannato alla sofferenza eterna proprio per aver consegnato agli uomini il segreto del fuoco rubato a Zeus; ma quel fuoco non era il fuoco divino, il fuoco cosi detto "celeste" e immortale che brillava in permanenza nelle mani degli dei. Prometeo aveva potuto consegnare agli uomini solo un fuoco generato da un seme. Un fuoco flebile la cui fiamma aveva bisogno di essere protetta; un fuoco terrestre, che si spegneva e moriva e che andava vegliato.
Questo ultimo passaggio raccoglie cosi metaforicamente non solo uno spaccato del dramma della condizione umana ma, a mio avviso, ci parla trasversalmente anche del rapporto dell'uomo con la conoscenza e con le arti. C'è una responsabilità nel dono del fuoco, ci vuole una predisposizione ad accoglierlo. Bisogna proteggerlo e condividerlo per farlo diventare strumento sociale.

Questa prospettiva quasi alchemica rende il tuo percorso nuovo in quanto antico e questo mi affascina oltre ad interessarmi molto. E quindi, secondo te, produrre arte apre solo a degli interrogativi e o può condurre anche a delle soluzioni?
Guardo con sospetto all'arte che offre soluzioni, l'arte che inchioda, che propone risultati. La forza di un opera si misura con la sua resistenza, sta nella sua capacità di essere ampia, flessibile, aperta all’imprevedibilità del suo risultato. Einstein qualche anno prima di morire ci ricorda che "la cosa più bella che possiamo sperimentale è il mistero ".

Anche nel linguaggio scientifico la scoperta non è un vago ampliamento del sapere: è un atto istantaneo, una rivelazione; ha un momento preciso, che è l'attimo in cui il velo, "la coperta" dell'ignoto si alza davanti allo scopritore. Ma le scoperte di fatto dischiudono nuovi interrogativi, ci chiamano a nuove responsabilità e sono l'inizio di un nuovo cammino. In quest'ottica l'arte per me è una porta, un tunnel sotterraneo, assomiglia più al mercurio che al marmo, è un metallo di transizione.  
Mi interessa condividere una prospettiva, aprirla al dialogo, metterla alla prova, attraversarla e vederla cambiare. Mi affascina l'instabilità. 
Il linguaggio dell'arte non è mai un fatto strettamente privato. Prende forma nel singolo, ma transita, respira, si espande e di fatto contiene e rinnova il suo mistero attraverso altri sguardi.
 

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Andrea Galvani (Verona, 1973), vive e lavora da diversi anni a New York e Città del Messico. Il suo lavoro è stato esposto a livello internazionale in importanti musei e spazi istituzionali tra cui ricordiamo: il Whitney Museum di New York, la 4th Moscow Biennale of Contemporary Art di Mosca, Mediations Biennale di Poznan, Aperture Foundation, Calder Foundation, Art in General (New York) la 9 Bienal de Centro America (Managua, Nicaragua), MART, Trento e Rovereto, MACRO (Roma), GAMeC (Bergamo), De Brakke Grond (Amsterdam), Oslo Plads (Copenaghen) e Unicredit Pavillion (Bucarest). 
Galvani è stato New York University Visiting Artist nel 2010, ha ricevuto il premio New York Exposure ed è stato candidato al prestigioso Deutsche Börse Photography Prize nel 2011. Tra le moltissime esperienze internazionali ricordiamo la sua partecipazione a Location One International Artist Residency Program a New York (2008), LMCC Lower Manhattan Cultural Council (2009), e il MIA Artist Space / Columbia University Department of Fine Arts (2010). Dal 2006 al 2009, è stato docente di Linguaggio Fotografico e Storia della Fotografia Contemporanea presso l’Accademia Carrara di Belle Arti di Bergamo. Dal 2010 collabora con l’AMS Advanced Media Studio del dipartimento di Visual Art della New York University e con ICP International Centre of Photography di New York. 
A dieci anni dalla prima personale italiana in uno spazio pubblico (GC:AC Monfalcone , 2006) il MART, gli dedicherà in ottobre un’ampia antologica presso la Galleria Civica di Trento.

ph | Andrea Galvani © 2009-2010, Higgs Ocean #7, C-Print mounted on aluminum, white wood frame, UV glass. 90 x 130 x 5,5 cm cm framed. Courtesy of the artist, Courtesy of the artist, Artericambi, Italy and Revolver Galeria, Lima