Come orientarsi nella maratona del legislatore
Si è aperta la stagione della legiferazione nel tempo dei «modelli ibridi». Proviamo a leggere le novità con una “passeggiata giuridica” con il prof. Francesco Florian tra Codice Beni Culturali, Definizione di Imprenditore, Nuovo codice Appalti, Società Benefit, Low profit, Decreto Musei e Industria
L’industria culturale italiana vive una duplicità che, per quanto possa apparire ovvia, in realtà connota fortemente l’intera indagine in materia. Se in linea generale fanno parte dell’industria beni e servizi, che potrebbero essere sussunti nella categoria dei “prodotti”, dall’altro lato, per quel che concerne la cultura vi sono prodotti culturali (beni mobili o servizi che siano) che vengono realizzati in un contesto immobiliare culturale o paesaggistico.
In altri termini, nei nostri “beni culturali e paesaggistici” si produce cultura sia in termini di servizi culturali resi alla collettività sia in termini di prodotti. Se, poi, su quest’impianto si innesta una vocazione sociale e/o socio assistenziale della cultura e del bene culturale, in un contesto di contaminazione culturale e personale, l’industria culturale assume in sè tutto un portato comunitario proficuo anche per il bene culturale.
In sostanza, il più delle volte il bene culturale è culturale anche e soprattutto in termini identitari per la comunità di riferimento. E’ quindi evidente che esso è più sentito e vissuto dalle persone; laddove, quindi, il suo impiego consista nell’ essere contenitore di “socialità” oltre che di “culturalità”, innanzi a che tipo di industria ci troviamo? In concreto: vi sono musei, teatri, spazi espositivi, auditorium, cinema contenuti in beni culturali o innestati su beni paesaggistici; ma vi sono pure ville liberty, con annesso parco e giardino, sottoposti a prescrizione di tutela diretta od indiretta, nonché a vincolo di notevole interesse pubblico, che sono sedi ASSL o ASP, con annesso laboratorio per persone diversamente abili che iniziano un percorso di realizzazione di orti all’insegna del recupero della biodiversità (non sto inventando, esistono), ovvero sono residenza per anziani all’insegna della loro integrazione in un contesto di welfare di comunità.
Se è vero, come è vero, quanto sinteticamente delineato, l’approccio deve essere complesso, nel senso che deve avere di riferimento diverse normative. E che questo sia stato tenuto presente dal legislatore è dimostrato da quella che era la cd spending review (Governo Monti) laddove si prevedeva per i soggetti pubblici il divieto di costituzione di nuovi enti, comunque denominati, ad eccezione di quelli operanti nel settore socio assistenziale o dei servizi ed attività culturali. I due settori, infatti, al di là di rappresentare una tipicità del nostro paese, possono essere sempre più connessi tra loro.
In questo contesto è bene partire dalla considerazione, tutta di fatto, che, vuoi per titolarità giuridica, vuoi per titolarità del servizio e competenza, non si può non tener conto del soggetto pubblico. Ma occorre nel contempo avere altrettanto presente il ruolo, attivo, del privato in senso stretto e del privato istituzionale.
Occorre poi condurre un’altra riflessione di carattere generale, che in parte deriva da quest’ultima considerazione. La presenza del “proprietario pubblico di beni culturali” ovvero del “titolare pubblico del servizio ed attività culturale” è un dato facilmente riscontrabile.
Quanti teatri, auditorium, musei, pinacoteche, “festival” (musicali e letterari) vedono nel soggetto pubblico un attore indispensabile ed immanente. Dall’altro lato, che la parte pubblica voglia ed abbia necessità di aprirsi ad esperienze gestionali innovative, andando a coinvolgere i soggetti privati, è altrettanto evidente.
Gli strumenti quali istituzioni, consorzi, aziende speciali e società miste, corredo ammnistrativo da sempre a disposizione dell’amministratore pubblico, non sono efficienti nel settore che ci interessa. Da qui le molteplici esperienze consistenti nell’adozioni di istituti tipici del diritto privato (associazioni, comitati, fondazioni) ai fini della gestione di una impresa culturale. Tale circostanza è confermata, anche sotto il profilo fiscale, dalla recente previsione nel nostro ordinamento del cd “art bonus”. Orbene, la situazione descritta fa sì che qualora un Comune voglia restaurare un teatro, ovvero una accademia, magari dotandosi di uno strumento giuridico ad hoc per coinvolgere la comunità in questo percorso (e ciò anche in termini di risorse), ebbene a tale processo si applicava la stessa normativa afferente alla realizzazione di una metropolitana. Mi spiego. In un settore come quello della cultura, che strutturalmente vive un regime di non concorrenza (si pensi a quello museale, delle pinacoteche piuttosto che dei teatri nazionali ovvero di tradizione), che strutturalmente prevede, nella migliore delle ipotesi, un pareggio di bilancio, trovano applicazione sia la normativa sui contratti pubblici sia quella sugli appalti, concepita, credo, per ben altri casi. Con questo non si vuole sostenere che al settore culturale non si debbano applicare norme e regolamenti volti a sancire correttezza e trasparenza nella gestione di un bene/attività pubblica. Si vuole solo osservare che tutto il settore è gravato da una serie di normative che, concepite per la realizzazione di opere pubbliche suscettibili di produrre lucro distribuibile ai soci sia in fase di realizzazione sia in fase di gestione, finiscono per apparire perfino sproporzionate rispetto al bisogno.
Sul punto, il nuovo “Codice degli appalti” è intervenuto pesantemente e bene (in particolare, oltre alla ratio dell’intero provvedimento, artt. 145 e ss del Decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50,Attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE sull'aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture). Dato il sistema costituito dal codice dei beni culturali e del paesaggio, credo si sia posta (non sono un amministrativista, però) la opportunità di concepire un altro sistema volto a disciplinare le “opere pubbliche culturali” secondo le loro proprie specificità. Si è trattato, in buona sostanza, di adattare i principi dettati per infrastrutture e servizi pubblici aventi rilevanza economica ad un settore talvolta privo di rilevanza economica (come ormai pacificamente ammesso) ed in cui “l’infrastruttura culturale”, talvolta presupposto per la realizzazione e l’erogazione del prodotto culturale, respira questa dinamica.
In questa cornice, ben si potrebbe affermare che l’industria culturale italiana abbia, con il tempo, costituito un sorta di “sistema culturale non lucrativo” tra produzione di ricchezza, innovazione e permeabilità, esportato anche in altri settori (ricerca, assistenza, cooperazione), ed anche esso, sotto un profilo giuridico, epifania squisitamente culturale.
A costo di apparire fuori tema, infatti, è opportuno considerare un dato codicistico che ha varcato, e potrebbe varcare ancor di più, il mero dato giuridico.
Con l’introduzione nel nostro ordinamento dell’istituto relativo alla trasformazione eterogenea (artt. 2500 septies e ss del codice civile), i confini tra gli enti del Libro Primo del Codice Civile (associazioni, comitati, fondazioni) e gli enti del Libro V (società) non si caratterizzano più in termini di “barriere dogmatiche”, quanto piuttosto ne risulta esaltata la permeabilità, ferme restando le rispettive e peculiari regole di funzionamento.
E ciò è tanto più vero ove si ponga attenzione ai rapporti sostanziali che detto istituto tende a salvaguardare e, per certi versi, rende possibili.
In altri termini, con l’introduzione della trasformazione eterogenea, il Legislatore ha inteso dare prevalenza all’impresa (potremmo anche dire: industria per restare coerenti al tema) piuttosto che alla forma giuridica che le parti hanno individuato in fase di start up. Il tutto, evidentemente, nel rispetto di precise disposizioni codicistiche onde evitare che una equilibrata duttilità di sistema si trasformi in anarchia.
Del resto a ben vedere nella stessa definizione di imprenditore di cui all’art. 2082 c.c, la finalizzazione lucrativa non è definita: lucro oggettivo si, quanto al lucro soggettivo ampio è stato il dibattito in ordine alla sua necessità.
Il dato economico attuale, anche nel settore culturale, ci insegna come sia difficile non applicare la definizione di cui all’art. 2082 c.c., ad es., ad istituzioni culturali; la stessa definizione, peraltro, ci appare de plano applicabile iniziative di produzione culturale o “sociale” assolutamente e soggettivamente lucrative.
E’ la realtà economico/imprenditoriale, insomma, a dover prevalere sulla scelta della forma giuridica, ben consapevoli, però, di come il diritto non sia mero strumento ma anche “ordinatore” e quindi capace di fornire la forma giusta ad una determinata impresa economica (nello sforzo di far coincidere forma e sostanza), come pure di rendere “le forme più sicure”, tra interessi perseguiti e tutela dei soggetti terzi .
In altri termini, pare possibile un consolidamento tra settore profit e settore non profit, arrivando alla definizione di un settore low profit diffuso.
Tutto questo potrebbe essere l’effetto, ma pure l’obiettivo sotteso, a quello che potremmo definire il sistema culturale degli enti non profit od anche il sistema degli enti non profit culturali.
Nel tempo, infatti, si è affermato, pur tra diversi settori dell’ordinamento e delle discipline (talvolta con sovrapposizioni ed antinomie), un vero è proprio ”sistema non profit” con principi e precise regole gestionali, fiscali, civilistiche, economiche e giuslavoristiche.
È sotto gli occhi di tutti il dato culturale e sociale di questo sistema. Ma è altrettanto vero come sia riscontrabile un tasso d’innovazione delle architetture gestionali che non fa altro che rafforzare il concetto di sistema stesso. Si pensi alla strutturazione e coordinamento tra associazioni e s.r.l., tra fondazioni e s.p.a. o viceversa, nonché a tutti gli eventi di natura giuridica ed economica che possono sorgere nella vita di questi enti.
Si pensi, ora, all’introduzione nel nostro ordinamento delle Società Benefit, enti nei quali oltre alla massimizzazione del profitto si affianca una finalità a vantaggio di persone, collettività, ambiente, beni ed attività culturali e sociali. Che cosa è quest’istituto se non l’attualizzazione della sintesi profit/non profit?[1]
In buona sostanza, però, tutto questo sistema, complesso per definizione, è stato ed è anche la testimonianza di un approccio culturale diverso che intercetta e converte, a vantaggio della società (scopo ultimo anche del diritto), interessi e bisogni diffusi tanto da non bastare più, per il loro concreto perseguimento, un unico istituto od un’unica forma d’impresa.
Il fine ultimo è la risoluzione di problemi non evasi, con produzione immanente di ricchezza (vuoi in termini “monetari”, vuoi in termini di capitale umano e di formazione, vuoi ancora in termini di servizi accessibili), in un contesto in cui il profit è funzionale al non profit, come pure il contrario, mitigandosi vicendevolmente.
Non credo che si possa dubitare che tutto il sistema culturale italiano contenga, sia in nuce sia in atto, quanto sopra evidenziato. Non solo. Ad oggi, questo settore è connesso, implicato ed implicante, pure in termini normativi, il turismo, nella sua accezione più sensibile e aderente alla realtà culturale e paesaggistica del nostro paese. Tale connubio, se apre anche tematiche che devono essere attentamente valutate (le attività turistiche sono per lo più “profit” con quello che ne consegue), di sicuro si è nuovamente posto all’attenzione del legislatore e ci riporta ad una complessità di sistema, ove gli istituti giuridici si collegano e contaminano tra loro, in una rilettura istituzionale ed economica di un industria, quella culturale, che deve operare, opera e concorre “a preservare la memoria della comunità nazionale e del suo territorio e a promuovere lo sviluppo della cultura”, come ci insegna il Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio in attuazione della Costituzione. Anche perché, nel cd. Decreto Musei, è rintracciabile una definizione di bene culturale che sintetizza quanto si è cercato qui di argomentare: “testimonianza materiale e immateriale dell’umanità e del suo ambiente”.
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[1] Legge 28 dicembre 2015, n. 208, commi 376-384 secondo cui le «societa' benefit» sono quelle società che nell'esercizio di una attivita' economica, oltre allo scopo di dividerne gli utili, perseguono una o piu' finalita' di beneficio comune e operano in modo responsabile, sostenibile e trasparente nei confronti di persone, comunita', territori e ambiente, beni ed attivita' culturali e sociali, enti e associazioni ed altri portatori di interesse.