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I primi quarant’anni del FAI a servizio del Patrimonio artistico, naturale e paesaggistico Italiano

  • Pubblicato il: 16/02/2015 - 13:11
Autore/i: 
Rubrica: 
FONDAZIONI PER LA CULTURA
Articolo a cura di: 
Elena Lombardo

Il FAI è una Fondazione non profit nata da un’idea di Elena Croce, figlia di Benedetto Croce, e per opera di Giulia Maria Mozzoni Crespi, Renato Bazzoni, Alberto Predieri e Franco Russoli che nel Aprile del 1975 ne firmarono l’atto costitutivo.
Con lo scopo di contribuire alla tutela, conservazione e valorizzazione del patrimonio d’arte, natura e paesaggio italiano, il FAI si ispira al modello inglese del National Trust finanziando le sue attività «grazie all’impegno di tutti coloro che hanno deciso di prendere parte a questo enorme progetto, e alla generosità di tanti, tantissimi cittadini privati, aziende e Istituzioni che hanno sostenuto e sostengono quotidianamente il nostro lavoro».
Dalla prima donazione del 1976 i numeri del FAI sono incredibilmente cresciuti. Ad oggi, la Fondazione gestisce 50 beni di cui ben 30 aperti al pubblico, conta più di 100.000 iscritti e donatori attivi, 116 delegazioni, 53 gruppi FAI e 57 gruppi FAI Giovani in 20 regioni italiane con oltre 7.000 volontari che si occupano di tutelare, proteggere e promuovere un Patrimonio inestimabile.

 
 
 
Ci incontriamo ad inizio 2015, quale è il vostro bilancio complessivo?
Abbiamo predicato per quarant’anni e finalmente quello speravamo succedesse si sta realizzando. Il bilancio è ottimo. Nel 2014, per il terzo anno consecutivo, abbiamo chiuso in pareggio di gestione. Il primo anno avevamo pensato fosse un miracolo, il secondo anno abbiamo cominciato a pensare che siamo bravini, il terzo anno ci stiamo convincendo di essere abbastanza bravi.
Naturalmente il risultato è stato possibile grazie alla beneficienza, intesa come il «far bene» di tanta gente che crede nella nostra missione e, più in generale, di una società che si è finalmente accorta che i beni culturali e paesaggistici sono un tesoro fondamentale del nostro Paese.

 
 
 
Su quanti iscritti potete contare?
Il consuntivo 2014 è senz’altro molto positivo anche in termini di iscrizioni e visitatori ai nostri siti che stanno crescendo moltissimo. Abbiamo superato abbondantemente gli obiettivi, molto ambiziosi, che ci eravamo dati in termini di numero di visitatori. . Questo è per noi il vero parametro da utilizzare per misurare il servizio alla collettività: quanta gente hai convinto che questa è una cosa importante e quante persone sei riuscito a portare a visitare i tuoi beni.

 
 
Una crescita che si registra anche nelle donazioni?
Siamo molto soddisfatti anche sotto un altro punto di vista molto rilevante, che può sembrare un tema spinoso, ovvero quello dei lasciti testamentari. Il FAI è nato sulla promessa di alcuni importanti testamenti, stiamo parlando di lasciti non istituzionali quindi non di castelli, ville e palazzi, ma di appartamenti, case e denaro. In merito a questo aspetto il FAI ha fatto da sempre, prima timidamente adesso in modo più impegnativo, una campagna lasciti. Bene, nonostante questo strumento sia ancora poco usato in Italia, dobbiamo dire che quest’anno molte persone si sono ricordate di noi e ne siamo molto felici.
Bisogna precisare che il National Trust, nostro modello di riferimento, vive grazie a legami testamentari di questo tipo. Nella tradizione anglosassone lo spirito civico è difatti più forte e le donazioni vengono fatte alla Chiesa, ma anche ai poveri e, moltissime, al patrimonio storico artistico, quindi anche al National Trust.

 
 
Quali le prospettive future?
La Fondazione ha appena approvato in consiglio di amministrazione un piano strategico decennale e stiamo per presentare il primo dei tre piani operativi triennali.
Parliamo quindi di un approccio completamente manageriale. Siamo dopotutto un’azienda che fattura 25 milioni l’anno, ci consideriamo un’impresa non profit e per questo ci muoviamo con piani strategici e operativi, abbiamo un budget previsionale, un bilancio e un ufficio di controllo di gestione mensile.
Trovo estremamente stupido, retrogrado e non lungimirante aver vergogna di dire che chi opera nei beni culturali deve assolutamente avere un atteggiamento da azienda. Laddove la tutela è il primo scopo, il servizio al pubblico l’altra faccia della medaglia, il terzo obiettivo è l’autonomia economica perché consente di guardare al futuro con serenità.
Per questo non concordo con il mio amico giornalista Tomaso Montanari quando scrive che il sito di Ercolano è un modello. Ercolano è un esempio stupendo, magari fossero tutti cosi, però ha avuto la fortuna di avere una Fondazione americana miliardaria che lo sostiene. Il giorno che la Fondazione Packard deciderà di chiudere i rubinetti cosa accadrà? E poi di Fondazione Packard ce n’è una, ma anche se ce fossero altre dieci, quello non può essere il modello. Il modello è l’autosostenibilità.
 
 
 
Qual è il modello FAI e quali i risultati che vi ha fatto ottenere in questi anni?
Il Ministro Franceschini, stupito dei risultati, ci ha chiesto di rendere pubblici i nostri «segreti» in un convegno che si terrà il 17 Aprile presso l’Università dell’Angelicum.
Copriamo l’83% delle spese di gestione ordinaria con gli incassi diretti delle nostre proprietà. Parliamo di bigliettazione, eventi, bookshop e servizi correlati. Risultati che con il nostro piano strategico decennale puntano ad arrivare alla copertura del 100%.
Faccio un altro riferimento ad un articolo di Enrico Rosio, ottimo giornalista dell’Espresso, sul MUSE di Trento, Museo strepitoso e gloria d’Italia. L’amministrazione trentina è stata geniale a puntare su una rete culturale per lo sviluppo economico della città: dal MART di Rovereto, al MUSE, fino alla Torre Aquila. Enrico Rosio spiega che soltanto il 56% dei fondi del MUSE arriva dal pubblico. Bravissimi certo, ma si rifletta sul fatto che su 25 dei nostri milioni il FAI riceve solo 200 mila euro l’anno di fondi istituzionali. 
Sono dell’idea che sia giusto così, perché come il National Trust inglese dimostra, l’autosostenibilità è possibile. Per carità, i grandi musei sono un servizio pubblico e non si discute che Brera, Palazzo Barberini, Villa Borghese richiedano importanti risorse, ma non è detto che per qualsiasi museo comunale o regionale, il finanziamento pubblico sia ciò che consente l’autonomia culturale.
 
 
 
Approfondiamo questo tema, cosa intende?

Troppo spesso si mette in contrasto l’autonomia culturale garantita dal servizio pubblico con la presenza di privati. Ad esempio se un imprenditore si occupa della gestione di un ristorante che guadagna si parla di rischio mercificazione. Ma perché? Certo, prima c’è sempre la tutela, ma se esercitata correttamente perché assumere queste prospettive critiche?
In quest’ultimo periodo si è aperta la querelle sulla copertura dell’arena del Colosseo, che a mio parere è un’ottima idea. Perché gridare allo scandalo e alla possibile mercificazione laddove fino all’800 l’arena del Colosseo era coperta? Per il timore della corsa delle bighe? I visitatori sarebbero contentissimi e organizzare una corsa di bighe finte non mette di certo a repentaglio la sicurezza del monumento. Nell’arena di Nimes lo fanno ed ha un successo strepitoso: i bambini, ma non solo, si divertono e approcciano la storia romana molto meglio. Noi facciamo i restii e poi fuori dal Colosseo ci sono i centurioni con i quali farsi le fotografie.
Ercolano e MUSE sono gli happy few, ma il patrimonio italiano è smisurato ed è inevitabile che chi fa il nostro lavoro si debba considerare un’azienda. Il FAI è organizzato con un Presidente, Andrea Carandini, un Direttore generale Angelo Maramai che si occupa di far funzionare la macchina e un Vice presidente esecutivo che sono io e che gestisce i contenuti culturali.
Se si pensa che la cultura sia antitetica alla gestione imprenditoriale si va al fallimento, come si nota da molti beni dello Stato.
  
 
 
 
Sempre mantenendo questa prospettiva imprenditoriale volevo ragionare proprio sul Brand FAI. Qualche anno fa in
un’intervista rilasciata proprio al Giornale delle Fondazioni parlava di una vostra immagine un po’ polverosa. Mi sembra che da allora molto sia cambiato. Vuole parlaci di questa evoluzione e del processo di riposizionamento sotto questo punto di vista?
Ci sono state delle fasi. Prima tra tutte, c’è stata la grande fase della Signora Maria Giulia Crespi, una donna che ha tutte le caratteristiche per essere mitica. È ovvio che lei, pur essendo orientata al mondo del sociale, abbia creato una Fondazione con delle precise caratteristiche e di cui faceva parte una certa élite che ai giorni nostri se non è sparita sta sparendo.
C’è da dire che se il FAI non fosse stato elitario all’inizio, non avremmo coinvolto quelle personalità che grazie alle loro disponibilità economica ci hanno consentito di venire al mondo. Già con la presidenza di Ilaria Borletti, ma molto di più con l’avvento della presidenza di Andrea Carandini, abbiamo deciso di adottare una politica differente, indirizzata verso una raccolta fondi sempre più parcellizzata nella direzione del National Trust inglese che ha 4 milioni e 200 mila soci.
In questa evoluzione il fatto che io sia andato a Striscia la Notizia ha aiutato enormemente. Sono dell’idea che gli italiani abbiano nel loro DNA la cultura di 2000 anni di storia, che la cultura sia entrata nelle nostre cellule. Una cultura talvolta dormiente, ma che si sveglia con molto poco.

 
 
Quali altri fattori fanno la differenza?
L’atteggiamento imprenditoriale di cui le parlavo e che prima non c’era. Il fatto che il FAI, grazie soprattutto alla presidenza Borletti e alla direzione Maramai, si sia dotato di un organico di persone giovani organizzato in cellule professionalmente competenti, ci ha consentito di fare enormi progressi su più fronti, dal fundraising alla comunicazione on e off line.
Altro aspetto fondamentale è stata la volontà di rendere le nostre proprietà sempre più friendly, la scelta di far sentire i nostri visitatori ospiti e non clienti. Abbiamo fatto delle indagini esperienziali e studi molto sofisticati appoggiandoci ad agenzie inglesi per capire come siamo percepiti e come posizionarci.  Tutto questo per venire incontro ad un pubblico di visitatori sempre più allargato che deve essere profilato con maggiore attenzione e per il quale è necessario creare delle proposte sempre più articolate.
Nel Castello di Masino abbiamo iniziato ad integrare l’offerta per poter venire incontro ad altre esigenze, non solo dell’appassionato d’arte ma anche di chi ama ad esempio andare a fare delle escursioni in bicicletta. Mantenendo sempre una grande attenzione verso i bambini: se si annoiano durante una visita è una tragedia, per questo a Masino stiamo creando percorsi e attività riservati alle famiglie.
Sempre in termini di servizi correlati e di cambio di visione, il primo bar a Masino era collocato in una zona nascosta del parco come a dire: prima vai a vedere il castello che è sacro, poi se vuoi bevi qualcosa. L’anno scorso lo abbiamo spostato dentro la proprietà su una terrazza favolosa perché questo servizio fa parte dell’enjoyment della visita ed è davvero molto apprezzato. Tutti questi elementi aiutano a favorire un’immagine rinnovata della Fondazione. I visitatori si sentono meno intimoriti e più accolti. Abbiamo assunto un atteggiamento più di apertura, più progressista, più semplice e alla mano. 
 
 
 
 
Parlando sempre di accoglienza ma spostando l’attenzione sul grande evento EXPO, avete progetti speciali? Come pensate influirà sulla vostra attività?

EXPO 2015 sarà sicuramente una grande opportunità per Milano e noi ci saremo, ospiti nel padiglione di Intesa San Paolo, nostro partner istituzionale per I Luoghi del cuore, e una volta al mese al Padiglione zero, con sei spettacoli serali che metteranno in scena la storia del contesto agricolo intorno alle nostre proprietà. Oltre a questo, non credo influirà particolarmente sulla nostra attività: dopo un’ubriacatura iniziale nella quale abbiamo pensato di tutto e di più, si è  riflettuto sul fatto che il visitatore medio si fermerà due giorni e mezzo uno dei quali all’interno del sito e l’altro dedicato alle grandi attrazioni e allo shopping. Per queste ragioni non penso che porterà a raddoppiare i nostri visitatori e, ad essere sinceri, nemmeno lo cerchiamo. Consideri infatti che le nostre proprietà possono supportare un certo tipo di flusso, non certo le grandi masse di EXPO.
Al contempo non posso negare di essere perplesso rispetto al modo in cui lo Stato sta intervenendo per fare in modo che questi visitatori dopo gli ipotetici due giorni estendano la loro permanenza in Italia. A prescindere dal sito Verybello.it di cui si sta parlando molto, ritengo che per un’occasione del genere si sarebbe dovuto lanciare un progetto di un’efficienza strepitosa in grado di creare un filtro efficace e una proposta adeguata a un flusso di visitatori di tale portata. Siamo famosi per il buongusto, per lo stile e poi cadiamo su verybello.it o su Foody.
Sono certo che comunque il sito funzionerà, anche se il problema vero resta il fatto che siamo al settimo posto come meta turistica internazionaleOggi, eliminato il Ministero del Turismo per referendum e integrandolo a quello dei Beni Culturali, non mi sembra che sia un tema centrale o che il Sottosegretario al turismo sia una persona di cui si sente molto parlare. Non vedo un’inversione di tendenzané un tentativo di innovazione del settore o del modello di offerta.

 
 
Cosa le dice la Sua esperienza sul turismo?
Che se c’è la volontà di creare nuovi flussi e nuove offerte, si può fare. Abbiamo portato lo scorso anno al Castello di Masino che è nel Canavese, dunque non una posizione esattamente centrale, circa 75 mila persone. Non è vero che la gente vuole andare sempre negli stessi posti, anzi, è felice di scoprire nuove destinazioni.
La diversificazione turistica nel Paese è possibile, ma va organizzata. Ed ecco di nuovo il discorso della gestione strategica. Occorre che funzionino l’ufficio stampa, l’ufficio comunicazione, avere un modo giusto di accogliere i visitatori e di risolvere efficacemente i problemi gestionali che affliggono molti dei nostri beni. Solo allora è possibile andare in pareggio.
Non come invece accade in casi come quello del Santuario di Ercole Vincitore a Tivoli, che ho visitato circa due anni fa: sono state investite risorse per la ristrutturazione e la costruzione di un piccolo museo, senza porsi minimamente il problema della gestione. È infatti impossibile arrivare comodamente al tempio, le strade sono troppo strette per i pullman e il parcheggio dedicato ha pochissimi posti auto. E’ stato speso molto denaro per un sito non è visitabile facilmente e assolutamente non in grado di richiamare grandi flussi. Va benissimo il restauro, ma bisogna tenere a mente che non tutto deve essere attrezzato per numeri enormi.
Nessuno mette in discussione il principio della conservazione e tutela, ma il compito del Direttore del museo non è solo quello, bisogna occuparsi di come far arrivare i visitatori, far comprare i biglietti, fare in modo che l’esperienza sia positiva, che i custodi siano educati e sorridenti, insomma, che l’intera macchina funzioni nel rispetto del Patrimonio ma senza mai dimenticare: le persone prima di tutto.
 
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