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HOMO FABER. INNOVAZIONE, BELLEZZA, FUTURO NELLE MANI DEGLI ARTIGIANI

  • Pubblicato il: 15/10/2018 - 00:01
Rubrica: 
FONDAZIONI DI FAMIGLIA
Articolo a cura di: 
Giorgia Turchetto

Sul recupero nell’era digitale  dell’intelligenza delle mani teorizzata da Richard Sennet insiste nel nostro paese un autorevole dibattito accompagnato da pratiche innovative. La Fondazione Michelangelo ha recentemente offerto una occasione di dialogo scientifico e di relazione con il pubblico con una mostra dal format interattivo inedito, “Homo Faber”, sui mestieri d’arte d’Europa e porre sotto i riflettori, il meglio della produzione artigianale. Un’esperienza definita avvincente e memorabile dai visitatori, più di 62mila  in due settimane, alla Fondazione Cini di Venezia.  “il pubblico poteva parlare agli artigiani, entrare virtualmente nelle botteghe dei maestri, osservare i restauratori all’opera, immergendosi così nel mondo dell’eccellenza artigiana.” Ne abbiamo parlato con Alberto Vanderbilt Cavalli, Direttore della Michelangelo Foundation e della Fondazione Cologni.


 

In questi anni, intorno al tema dell’artigianato è nato un dibattito ampio e polifonico sostenuto da molte pratiche innovative.  Stefano Micelli con l’Università IUAV di Venezia sta portando avanti progetti e iniziative di disseminazione sul tema dell’artigianato digitale. La lezione di Richard Sennet insiste nel proporre il recupero dell’“intelligenza delle mani” come la nuova frontiera educativa per le nuove generazioni.   Pierluigi Sacco  ha scritto molto su come questo settore sia considerato strategico nelle politiche europee. Agli studiosi ed esperti si affianca l’impegno quotidiano di molte fondazioni e organizzazioni non profit. La Scuola Oliver Twist di Cometa, ad esempio, è concepita come un liceo scientifico artigianale che con programmi di alternanza scuola lavoro ha sviluppato un metodo pedagogico induttivo per l’apprendimento attraverso l’esperienza, creando un modello di scuola-impresa. I percorsi di diploma professionale sono organizzati come vere e proprie botteghe artigianali, in cui i ragazzi acquisiscono conoscenze e abilità in un contesto di formazione in assetto lavorativo. Fondazione Cologni dei Mestieri d’Arte con il suo programma di borse di studio per giovani artigiani favorisce l’inserimento nelle botteghe dei grandi maestri artigiani. A questo si aggiunge il Premio MAM, l’iniziativa biennale con cui la fondazione ha voluto per la prima volta creare in Italia un titolo di “Maestro d’Arte” indipendente, colmando una grave mancanza del nostro sistema, per valorizzare e portare all'attenzione del grande pubblico e dei media la straordinaria opera di alcuni dei più significativi protagonisti del nostro alto artigianato che si sono distinti per particolari meriti professionali. Nel, 2018, anno del cultural heritage, la Michelangelo Foundation, di cui uno dei co-fondatore è proprio Franco Cologni, ha organizzato alla Fondazione Cini di Venezia  “Homo Faber”, la prima inedita esposizione per celebrare i mestieri d’arte d’Europa e porre sotto i riflettori, il meglio della produzione artigianale, offrendo ai visitatori un’esperienza unica e memorabile. Più di 62mila visitatori in due settimane, un risultato avvincente, frutto della collaborazione di una squadra d’eccezione, che annovera personalità di spicco quali Michele De Lucchi, Stefano Boeri, India Mahdavi, Judith Clark, Jean Blanchaert e Stefano Micelli, che da “curatori” hanno avuto il compito di infondere alla mostra creatività ed energia. Principali partner della Michelangelo Foundation nell’organizzazione dell’evento, oltre alla Fondazione Cologni, sono stati la Fondation Bettencourt Schueller, il Triennale Design Museum e la Fondazione Cologni dei Mestieri d’Arte.
In mostra un’ampia selezione di materiali e discipline, dal gioiello alle biciclette su misura, dalle competenze artigiane che stanno scomparendo ad alcuni degli esempi più rappresentativi dei mestieri d’arte a livello europeo. L’esposizione è stata pensata come un’esperienza interattiva durante la quale il pubblico poteva parlare agli artigiani, entrare virtualmente nelle botteghe dei maestri, osservare i restauratori all’opera, immergendosi così nel mondo dell’eccellenza artigiana. Nell’intervista che segue abbiamo chiesto a Alberto Vanderbilt Cavalli, Direttore della Michelangelo Foundation e della Fondazione Cologni di raccontarci la lezione appresa.
 

Con Homo Faber è nato un nuovo format culturale. Quali sono i principali fattori che lo hanno reso così straordinariamente innovativo?

Homo Faber è stato concepito da Johann Rupert e Franco Cologni, per dar vita ad un momento di valorizzazione dei mestieri d'arte e della creatività umana che si distinguesse per originalità e autenticità.
Avevamo chiaro sin dall’inizio cosa l’evento non dovesse rappresentare: non un salone, non un market place dai risvolti immediatamente commerciali, tanto meno una fiera. Da questa definizione in negativo, attraverso un lavoro di ricerca, sono stati identificati quei tratti connotativi e irrinunciabili per rendere l’evento innovativo e unico.
Nel mondo dei mestieri d'arte originalità e autenticità costituiscono il valore stesso di quello che gli artigiani realizzano attraverso il genio delle loro mani. Era quindi necessario guardare a loro per comprendere quale fosse davvero la chiave giusta per raccontarli. Da questa consapevolezza, una serie di considerazioni sono andate in parallelo. In primis, la scelta del luogo: Venezia è stata una decisione praticamente aprioristica per i nostri fondatori che, in questa città d'arte e di cultura, ma anche di scambio e commercio, hanno riconosciuto il cuore pulsante di Homo Faber. A Venezia da sempre si parlano tutte le lingue del mondo, chiunque dal medioevo in avanti sia arrivato in questo luogo, con un prodotto bello, interessante e di valore è stato accolto trovando opportunità di scambio, di affari e commercio. Una città di grande tradizione, ma che si apre alla contemporaneità anche grazie al lavoro prezioso della Biennale e a questa sua spiccata capacità di accogliere contaminazioni. Poi la location: scegliere la Fondazione Giorgio Cini come "teatro" di Homo Faber è stato decisivo per capire in profondità cosa questo evento dovesse essere capace di dire. Non ci sono molti posti come la fondazione: più che un luogo straordinariamente suggestivo ed evocativo, siamo in presenza di un “essere vivente” che con i suoi spazi, i suoi tempi e i suoi tanti studiosi è un manifesto all'educazione delle giovani generazioni al lavoro, alla cultura, all'arte.
Proprio dal contatto e dalla relazione con la Fondazione Giorgio Cini è stato possibile capire il format di Homo Faber: un viaggio che si dipanasse all'interno degli spazi e delle discipline. Per renderlo vivo era fondamentale configurare ogni luogo della Fondazione con una “vocazione” particolare, capace di instaurare un dialogo continuo e specifico tra i mestieri d’arte e le principali discipline creative quali il design, la moda, le decorazioni d'interni e i loro legami con territori. Per dar vita a questo racconto autentico e contemporaneo è stato coinvolto un team selezionatissimo di curatori disposti ad aprirsi all’ibridazione di forme e linguaggi per trovare nella vita quotidiana dei mestieri artigiani nuovi territori da esplorare. Homo Faber rappresenta l’ambiente vissuto, dove contemplazione e consumo si intrecciano in un’esperienza sinestetica e poetica per i fruitori. Pertanto la contemplazione disinteressata, tradizionalmente connotativa dell’opera d’arte, in Homo Faber è sostituita da un’esperienza a più livelli che nasce dall’intersezione creativa tra bellezza e funzionalità. L’urgenza, infatti, era quella evitare di produrre una visione unica e monolitica o tanto meno un’enciclopedia dell’artigiano che non interessa a nessuno. Homo Faber ha messo in scena le molte, intense e speciali sfaccettature dei mestieri d’arte utilizzando un linguaggio che, però, doveva essere autenticamente reale. Per fare un esempio concreto, la mostra fotografica Venetian Way con gli scatti di Susanna Pozzoli ha raccontato quello che succede realmente ogni giorno nei ventuno atelier artigiani di Venezia e del Veneto, ma con un linguaggio così poetico e bello che invita a guardare con uno sguardo diverso quello che spesso è quotidianamente sotto i nostri occhi. Forse l’elemento di maggiore innovazione di Homo Faber è stato proprio quello di essere riuscito a lanciare un invito a guardare di "nuovo" tutto quello che di bello viene creato intorno a noi dalla testa, dal cuore e dalle mani di tanti creativi e artigiani. 

 
Se a soli tre giorni dalla conclusione dell’evento ti si chiedesse di dare una valutazione dell’impatto prodotto, quali sono i fattori che meglio lo descrivono?

Uno dei grandi meriti “misurabili” di Homo Faber è stato quello di aver saputo concretizzare una molteplicità di attese che già da diversi anni si sono create intorno al mondo degli artigiani e dei mestieri. Credo che queste diverse attese si siano riuscite ad incanalare in un unico grande momento generatore dove tutti a diverso titolo si sono ritrovati. Homo Faber è stato un momento di inclusione che per una "mostra d'arte" – parlo ora da curatore - è un obiettivo fondamentale da raggiungere. Sicuramente questo evento ha contribuito ad alzare il livello di attenzione verso i mestieri d'arte, proprio per la volontà di non volersi fermare ad essere solo una mostra di oggetti d’arte, di esperienze e di immagini, ma una narrazione culturale del lavoro quotidiano dei maestri e dei tanti artigiani eccellenti che abitano l’Europa, ma soprattutto delle infinite opportunità che queste professioni possono ancora offrire in un'epoca minacciata dall'intelligenza artificiale.
Un racconto che è ri-partito dal mettere al centro il prodotto culturale, mostrando non tanto l’oggetto finale quanto il suo processo di produzione e lavorazione. Artigiani e uomini al lavoro, storie straordinarie di prossimità per ciascuno di noi che, pur essendo ovunque in Italia e in Europa, rischiano l’invisibilità e la perdita di memoria, mettendo a repentaglio un patrimonio economico, sociale, culturale e identitario difficile da quantificare. La nostra speranza ora è che l’attenzione che abbiamo saputo suscitare non si arresti solo ad un’infatuazione, ma si riesca, grazie alla massa critica prodotta a scalfire in profondità la percezione del valore assoluto che salvaguardia e valorizzazione dei mestieri d'arte possono generare a tutti i livelli, non ultimo quello politico.

 
Con Homo Faber si è voluto dar vita ad un nuovo modello di innovazione nel settore dell'artigianato artistico? 

Non so dire se, quando è nata l'idea di Homo Faber, avessimo in mente così chiaramente la costruzione di un modello; sicuramente Homo Faber non si esaurisce nell’essere un grande evento e neppure può essere solo una buona pratica, troppo spesso confinata ad un territorio e troppo dipendente da mille diversi fattori umani e decisionali. Con Homo Faber si è voluto piuttosto offrire un’occasione poeticamente vera per entrare a contatto con un luogo visitato dall’ispirazione e dare così a ciascuno la possibilità di portarsi via qualcosa di utile, di nuovo, di inaspettato da innestare nelle proprie esperienze, senza per forza cercare di trasferire pratiche che funzionano solo in particolari contesti e a certe condizioni. La dimensione europea di Homo Faber ha permesso di selezionare esperienze di artigianato artistico dal Portogallo alla Russia, dall'Islanda alla Sicilia, dalla Lituania alla Serbia, coinvolgendo – grazie al nostro network internazionale - anche Paesi che generalmente non sono nel "radar" dei mestieri d'arte. Questo credo abbia dato vita ad un paradigma nuovo che in futuro potrebbe aiutare molto per definire quelle esperienze artisticamente e culturalmente più interessanti che, senza nulla togliere al craft tout court, consentono di capire che i mestieri d’arte, se vengono svincolati dal folklore e ri-connessi invece all'identità culturale di un territorio, rappresentano straordinarie opportunità di crescita e di rilancio.

 

Il mondo delle organizzazioni culturali, oggi certamente più che in passato, lotta con il tema della sostenibilità economica dei propri progetti, delle proprie attività ed eventi. Homo Faber è stato un progetto ambizioso e costoso, come l’avete reso sostenibile oggi e come lo renderete sostenibile in futuro?

La prima edizione di Homo Faber, per nostra scelta, non ha avuto sponsor. L’evento è stato interamente sostenuto dalla Michelangelo Foundation, perché volevamo davvero, attraverso questo investimento, dare un segnale forte di quanto abbiamo creduto in questo progetto fin da subito. Abbiamo cercato importanti partner istituzionali, come la Fondazione Cologni, la fondazione Giorgio Cini, la Fondation Bettencourt Schueller e il Triennale Design Museum. Sicuramente avere l’attenzione e la solidarietà di istituzioni così  legittimate nel mondo delle arti applicate è stato molto importante per la costruzione del consenso. Avvalerci del consiglio e dell’esperienza di realtà così consolidate è stato fondamentale per trasferire subito in Homo Faber grandi valori, visioni e soprattutto credibilità verso un progetto nuovo, ma capace di toccare l’interesse di molti. Anche partner tecnici come iGuzzini o Emu sono stati fondamentali nel dar vita ad un processo di co-produzione e co-progettazione creativo. 62mila visitatori rappresentano un risultato straordinario non imputabile solo alla gratuità dell’evento, ma alla capacità di Homo Faber di essersi presentato fin da subito come un grande cantiere creativo dove il lavoro di tante mani e teste ha saputo narrare e rendere visibili al pubblico un mondo straordinario e sommerso. Per la prossima edizione, fra due anni, cercheremo sicuramente sostenitori e credo che sarà possibile lavorare con partner davvero interessanti. Il nostro investimento, infatti, ha superato la sola dimensione economica, traducendosi in uno sforzo compiuto per costruire reti e solide alleanze tra persone e organizzazioni che riconoscono Homo Faber come un progetto credibile e possibile perché in esso riconoscono in primis se stesse, i propri valori, l’interesse a essere agenti di un cambiamento.
 

Homo Faber è anche un condensatore di coesione sociale perché capace di innescare processi di costruzione di comunità, cambiando le regole d’ingaggio in senso più aperto e inclusivo?

Assolutamente si; già l’aver innalzato il livello di consapevolezza dei mestieri d'arte nella contemporaneità è un passo verso questa direzione. In passato, per rilanciare una città, veniva chiamato un grande nome dell’architettura o del design che solitamente progettava e realizzava per la comunità un bel museo di arte contemporanea. Oggi le città ri-nascono dal lavoro. Ricollegare quindi la rinascita di un tessuto urbano sempre più complesso, stratificato, espressione della diversità con le attività di un alto artigianato creativo che sappia guardare al contemporaneo significa raggiungere comunità eterogenee, molto più ampie e attratte da nuovi modelli di fruizione, consumo e ben-vivere. La presenza di tanti giovani a Homo Faber, dagli artigiani che sono stati coinvolti, ai curatori, al pubblico che ha visto anche la presenza di scuole, nonostante l’anno scolastico appena iniziato, conferma che quello di cui stiamo ragionando non è soltanto attuale e presente, ma strategico per il futuro delle generazioni, certamente i milllenians, ma anche i nativi digitali.

 

Quale messaggio ci consegni a chiusura di questa intervista?
 

Credo che quello che oggi dovrebbe contraddistinguere l’impegno delle fondazioni è l’essere un po’ più fertili, per far sì che le loro azioni e i loro progetti generino qualcosa di nuovo: consapevolezza, lavoro, fiducia, strumenti con cui leggere diversamente il consueto. Homo Faber è stato un progetto estremamente generativo che ha dimostrato che insieme si riesce a fare meglio, di più e per tanti.  Nel sottotitolo di Homo Faber abbiamo voluto scrivere: “crafting a more human future”, creare un futuro più umano: un messaggio di consolazione e sostegno che consegno a tutte le fondazioni - e sono tante in Italia e nel mondo - che ogni giorno cercano di farlo.
 
Tanti studi e ricerche nazionali e internazionali raccontano di come nei prossimi anni, specie nei Paesi ad alto reddito crescerà la domanda di professionalità fondate sulle competenze delle mani che le macchine non possono sostituire: ingegno, creatività, maestria.
Già l’Unesco, nel 1997, proprio con l’art.7 sosteneva l'importanza della salvaguardia della varietà dei patrimoni culturali. Ognuno di questi patrimoni è inteso come bene immateriale che le generazioni conservano e trasmettono alle successive. Di certo, la peculiarità di ogni mestiere artigiano è proprio la conservazione di una lunga tradizione di tecniche e modalità di realizzazione di beni e servizi sviluppatesi e trasmessi nel tempo che compongono il vero patrimonio culturale di una comunità che, come tale va preservato e difeso. 
Preservare e difendere, però, non deve esaurirsi in un’operazione di pura salvaguardia e tanto meno in una “musealizzazione” del genio manuale e delle tante tecniche che oggi corrono il rischio di scomparire.
Il cambio di paradigma consiste nel ripensare al settore dell’artigianato come ad un ambito trasversale e pluridisciplinare dove gli artigiani, per citare Richard Sennet non saranno soltanto il falegname, il liutaio, il fabbro, il sarto, il carpentierie, il panettiere, etc, quanto chi, con un approccio creativo, sintesi di fantasia e concretezza, di tradizione e innovazione, mette impegno individuale e collettivo nelle cose che fa. L’abilità tecnica, dice Sennet, vive separata dall’immaginazione e l’orgoglio per il proprio lavoro è oramai trattato come un lusso. Cosi affermando, il sociologo propone una nuova definizione della parola “maestria” che, se sembra rimandare ai maestri artigiani del Medioevo e del Rinascimento, nella contemporaneità esprime quel desiderio di “far bene” per far star bene se stessi, gli altri, la comunità e il territorio.
Così, investire nell’artigianato e ancor più negli artigiani significa imparare a guardare diversamente ad un mondo di nuove possibilità. Ad esempio in quei territori dove la disoccupazione è altissima, questo settore può offrire un futuro diverso ai tanti giovani in fuga. Il “saper fare di qualità” resta, infatti, un ingrediente indispensabile per l’intero settore manifatturiero del nostro Paese che se saprà aprirsi al digitale, ma anche a sperimentazioni innovative con altre filiere, potrà tornare davvero ad essere un segmento di crescita straordinario per l’Italia.
E’ possibile creare nuove fonti di reddito sia per i laboratori individuali, sia per le botteghe tradizionali, sia per le piccole imprese locali a totale conduzione familiare. L’apertura al digitale, con i social, le piattaforme, le app, l’e-commerce, ma anche l’imparare a fare sistema con ambiti complementari, sono per gli artigiani, strumenti concreti per uscire dall’anonimato, per imparare l’arte dello storytelling, per essere sempre più glocal, per restituire valore ai territori di provenienza e soprattutto favorire la vendita di manufatti artigianali di produzioni su piccola scala, destinate a soddisfare le esigenze di un numero sempre maggiore di persone che scelgono la produzione fatta su misura, locale, biologica (ed ecologica) alla produzione industriale di massa.
Proteggere e valorizzare le filiere artigiane si traduce infatti nell’investire in un un’idea di futuro sostenibile, in antitesi alla filosofia industriale dell’usa e getta, che vede nella capacità di riparare e rigenerare oggetti di qualsiasi tipo, la risposta più adeguata alla sensibilità dell’opinione pubblica verso i temi del riuso-riparazione-riduzione rifiuti, fonti rinnovabili, risparmio.
Oggi le botteghe artigiane uniscono sempre più il luogo del lavoro con quello dell’abitare, risolvendo il problema della conciliazione famiglia–lavoro. Un’opportunità di crescita professionale soprattutto per l’occupazione femminile, poiché consente alle donne di sottrarsi alla difficile scelta tra famiglia e lavoro.
In realtà la bottega artigiana contemporanea può essere un luogo formidabile di sperimentazione che attraverso forme innovative di coworking e cohousing, percorsi di alternanza scuola lavoro che favoriscono lo scambio generazionale, esperienze di contaminazione con altre filiere (design, turismo, lusso), laboratori che facilitano l’inserimento dei migranti, dimostra tutta la forza dell’artigianato. Un settore, che, se adeguatamente accompagnato, può essere fattore di crescita economica e sociale, perché capace di aumentare la resilienza di territori e persone (giovani e vecchi), la coesione sociale, lo sviluppo di economie di scala e crosselling necessarie per uscire da forme di economia informale e lavoro nero che ancora troppo spesso lo caratterizzano.

 

PH. Creativity and Craftsmanship. Ugo La Pietra, designer. Artwork: Indoor / Outdoor. Open House: the last light (Interno / Esterno. CasAperta: l'ultima luce) by Ugo La Pietra, designer, and Giulio Candussio, mosaic artisan.
Photo: Lola Moser