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Le biennali di settembre: più fosforo e meno Bosforo, più Twitter e meno divi

  • Pubblicato il: 16/09/2011 - 09:51
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Articolo a cura di: 
Gareth Harris, Sophia Kishkovsky e Anna Maria Merlo
Un’opera della sudafricana Tracey Rose alla Biennale di Lione. © Nacho González/Courtesy dell'artista

Istanbul, Salonicco, Lione e Mosca. Nel mese di settembre, ormai tradizionalmente affollato di biennali d’arte contemporanea, mentre prosegue sino al  27 novembre la decana di Venezia (che ha già superato i 150mila visitatori), la zona calda è in area mediterranea, con  il confronto a distanza tra l’ormai consolidata rassegna di Istanbul e la terza edizione di quella di Salonicco. Se le biennali del XXI secolo possono essere diventate enormi mostri dai titoli astrusi e dalle oscure tematiche, i curatori della 12ma Biennale di Istanbul, aperta dal 17 settembre al 13 novembre, si prefiggono di mettere in discussione il modo in cui queste grandi mostre sono concepite. Adriano Pedrosa, il cocuratore brasiliano della 27ma Biennale di San Paolo nel 2006, e Jens Hoffmann, direttore del Cca Wattis Institute for Contemporary Arts di San Francisco, presentano opere di 110 artisti in cinque mostre collettive attorniate da mostre personali, più di 50 in totale, in un’unica sede centrale, il complesso di ex magazzini Antrepo, che data agli inizi del Novecento, sulle rive del Bosforo. Félix González-Torres, l’artista cubano-americano che morì di Aids nel 1996, è il nume tutelare della mostra. Tre delle collettive, organizzate sotto i titoli «Untitled (Abstraction)»; «Untitled (History)»; «Untitled (Passport)»; «Untitled (Ross)» e «Untitled (Death by Gun)», accolgono infatti opere di González-Torres. «La bellezza di questi lavori è che sono sempre stati molto politici e allo stesso tempo molto personali e formalmente progressisti», dice Hoffmann.

Il cavallo di Troia
La 12ma edizione prosegue nella tradizione delle precedenti biennali di Istanbul che esploravano una dimensione politica. «Abbiamo scoperto che l’arte è diventata sempre più politica, continua Hoffmann. L’11ma Biennale di Istanbul è stata in qualche modo una riconsiderazione del marxismo. Molte opere in mostra avevano un contenuto politico, ma, secondo Pedrosa e me, erano lacunose in termini di considerazioni estetiche e di forma. Con Pedrosa abbiamo discusso di un’arte che abbia la possibilità di essere politicamente progressista e allo stesso tempo esteticamente innovativa». Sembra di tornare agli anni Quaranta in Italia, quando i membri del gruppo astrattista Forma 1 si dichiaravano «formalisti e marxisti». González-Torres è l’ispiratore della posizione politicamente impegnata di questa Biennale: «Il suo uso di un vocabolario visivo riconosciuto e accettato come quello dell’arte postminimalista e forse concettuale era un modo per fare entrare l’opera nelle istituzioni artistiche e, una volta entrata, diffondere le sue idee radicali, specifica Hoffmann. Era, se volete, la strategia del cavallo di Troia». La sezione «Untitled (Abstraction)», ad esempio, è basata su «Untitled (Bloodwork-Steady Decline)» 1994, di González-Torres, un grafico che riproduce il conteggio ridotto dei globuli bianchi di una persona con l’Hiv. «Questa sezione comprende artisti che hanno a che fare con riferimenti modernisti astratti, in particolare la griglia, in un modo urgente, personale, corporeo o politico», aggiunge Pedrosa. Hoffmann fa anche notare che allestire la mostra in un’unica sede significa liberarla dal retaggio storico di Istanbul: la maggior parte delle precedenti edizioni, in effetti, erano sparse tra i siti monumentali della città.

Lista d’attesa
Alla domanda se questa edizione sia in qualche modo un’«antibiennale», per la sostanziale assenza di artisti consolidati e di un titolo, i curatori rispondono: «Volevamo evitare l’uso dei nomi per ragioni commerciali. Abbiamo ragionato a lungo sui titoli oscuri che hanno le biennali, e non volevamo finire con un titolo di quel genere».
Solo i nomi di otto artiste sono stati resi noti: si tratta di Claudia Andujar, Letizia Battaglia, Geta Bratescu, Teresa Burga, Zarina Hashmi, Dora Maurer, Tina Modotti e Martha Rosler. Queste affermate figure femminili «sono in controtendenza» rispetto agli artisti normalmente favoriti dagli organizzatori delle biennali, sostiene Pedrosa. Tra le indiscrezioni, è annunciata anche la presenza di Allora & Calzadilla, Claire Fontaine, Abraham Cruzvillegas e Mona Hatoum. Hoffmann preferisce parlare delle opere, il 20% delle quali, dice, è inedito, mentre un altro 20% è costituito da riconfigurazioni di opere realizzate in precedenza; una particolare attenzione sarà riservata  all’arte latinoamericana e del Medio Oriente. Non ci sono artisti cinesi e uno soltanto dall’Estremo Oriente.

Macedonia Hard Rock
Al titolo, e tantomeno alla lista preannunciata di artisti, non rinuncia Katerina Koskina, a cui è stata affidata la direzione della terza Biennale di Salonicco, aperta dal 18 settembre al 18 dicembre. Non solo: contrariamente a quella di Istanbul, la biennale macedone si disloca in 10 sedi, cinque edifici storici e cinque musei, e la settantina tra artisti e collettivi partecipanti è invitata a misurarsi con la specificità dei siti. Se «Old Intersections-Make it New» è il titolo generale della rassegna, anche in riferimento alle precedenti edizioni, «A Rock and a Hard Place» è lo slogan, in fatto di luoghi, che identifica il cuore della mostra, affidato a un team curatoriale composto da Paolo Colombo, Mahita El Bacha Urieta e Marina Fokidis. La mostra si snoda tra la moschea Alatza Imaret, i Bey Hamam (i bagni turchi), la Casa Bianca (un edificio modernista costruito nel 1912 dall’architetto torinese Pietro Arrigoni), l’Eptapyrgio (la fortezza bizantina e ottomana), il Museo della Cultura Bizantina, il Centro d’arte contemporanea, il Museo Archeologico, il Museo Macedone di arte contemporanea, la Teloglion Foundation of Art-AUTh e il Museo Statale d’arte contemporanea. Le mostre in ogni sede sono organizzate da diverse équipe di curatori. Il dubbio, il senso di precarietà e fragilità, e di insicurezza, sentimenti e situazioni tipici dell’area mediterranea, ancora recentemente soggetta a profonde trasformazioni politiche, sono i temi ai quali hanno lavorato gli artisti attraverso un frequente ricorso all’ironia. La lista degli invitati è un equilibrato mix tra artisti locali, qualche firma consolidata (William Kentridge, Bruce Nauman, Pae White, Keren Cytter, Olaf Nicolai, Francis Alÿs) e nomi meno noti. Gli italiani sono il gruppo di «Archive», Manfredi Beninati, Pierpaolo Campanini, Margherita Manzelli e Alessandro Pessoli. Alberto Savinio è l’ormai immancabile «pezzo storico» di ogni biennale. Tra i workshop e altre manifestazioni collaterali, si segnala il Thessaloniki Performance Festival dal 19 al 25 settembre.

La zampata della lionessa
L’undicesima Biennale di Lione, curata dall’argentina Victoria Noorthoorn, si svolge dal 15 settembre al 31 dicembre con la partecipazione di  60 artisti venuti principalmente dall’America Latina, ma anche dall’Europa e dall’Africa. Quattro le sedi: Sucrière, la Fondation Bullukian, il Musée d’art contemporain e l’ex fabbrica T.A.S.E. Il titolo, «Una terribile bellezza è nata», è ripreso da un verso di Yeats e, spiega la curatrice, «unisce due idee all’apparenza opposte; questa è la contraddizione che mi interessa». La Noorthoorn ha messo insieme «lavori sull’eccesso, un eccesso come chiarificazione, un modo per mostrare il potere delle immagini, capace di modificare in modo radicale l’ordine stabilito». Molti artisti  sono giovani e hanno in comune biografie dalla geografia incrociata, da Fernando Bryce, peruviano che lavora a Berlino, a Pierre Bismuth, nato a Parigi e attivo a Bruxelles, da Yun-Fei Ji, nato a Pechino ma stabilitosi a New York, a Héctor Zamora, messicano che vive a San Paolo in Brasile. Sono in mostra anche disegni raramente esposti di Alberto Giacometti, lavori di Robert Filliou, oltre a testimonianze dell’opera dei musicisti John Cage e Morton Feldman. Anche la Noorthoorn, come i suoi colleghi attivi a Istanbul, si prefigge di mettere in discussione lo status quo delle biennali degli anni recenti: «L’arte, spiega,  viene considerata prima di tutto un bene commerciale, ma la mia intenzione è creare una rete in cui le opere dialoghino fra loro, per mettere un freno al “sistema” dell’arte contemporanea in cui girano sempre i soliti nomi: è il sistema dell’arte da White Cube».

Fra Twitter e Youtube
Il titolo della quarta Biennale d’arte contemporanea di Mosca, aperta dal 22 settembre al 30 ottobre, «Rewriting Worlds (Riscrivere i mondi)» è stato coniato dal curatore della rassegna, l’austriaco Peter Weibel, capo del Centro per l’Arte e i Media di Karlsruhe, Germania. Il suo marchio di fabbrica, che vuole portare anche a Mosca, è l’attenzione per le forme d’arte multimediali e per i fenomeni culturali in costante mutamento. Le mostre principali di questa edizione sono allestite all’ArtPlay Design Center e alla Fondazione Tsum Art. Tsum, acronimo russo per «negozio o magazzino del dipartimento centrale», è oggi un emporio per la moda d’élite e fa capo al Mercury Group, comproprietario della casa d’aste Phillips de Pury & Co. La mostra multimediale alla Tsum ha lo scopo di suscitare una presa di coscienza politica attraverso l’analisi dell’impatto dei social network, come Twitter, Facebook e YouTube, attraverso i quali, dice Weibel, «l’atto performativo si è spostato dagli artisti al pubblico».  Tra gli highlight della rassegna, finanziata dal Ministero della Cultura, dalla Città di Mosca e da altri sponsor, c’è il video «Beijing: the Second Ring» (2005), del cinese Ai Weiwei: si tratta di un’indagine sulle trasformazioni e sull’incessante traffico della capitale cinese. Weibel ha messo in rapporto quell’opera con la trasformazione subita dalla cattedrale moscovita di Cristo Salvatore, rasa al suolo nel 1931 per lasciare il posto a un monumento stalinista e ricostruita negli anni Novanta.
«Sono esempi di riscrittura in architettura, dice Weibl. Ma anche il sociale ne può essere contagiato: la Russia era un Paese comunista e prima ancora una monarchia e oggi è, in un certo senso, una democrazia». Neo Rauch e Shilpa Gupta, sono fra gli artisti più noti in  una lista di 80 nomi scelti in più di 20 Paesi.
da Il Giornale dell'Arte, settembre 2011

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