Un nuovo manifesto
Con una formulazione della quale non ho difficoltà ad ammettere che è un po’ forzata, sono solito affermare che in Italia, negli ultimi 40 anni, ci sono state solo tre «riforme istituzionali» positive. La prima è la nomina di Baffi a governatore della Banca d’Italia. La seconda è l’introduzione dell’elezione diretta dei sindaci. La terza è la nascita delle fondazioni bancarie come effetto della legge Amato che, all’inizio degli anni ’90, ha separato l’attività bancaria dall’attività di sostegno e promozione sociale (una volta si diceva: beneficenza) che, nelle casse di risparmio ed altri enti bancari secolari, erano unite.
La prima, con l’azione rigorosa e professionale di Baffi e dei suoi, ha ripristinato ordine e severità nella gestione bancaria, praticamente ripristinando una funzione bancaria che stava diventando un’altra cosa, la succursale della peggior politica. La seconda ha ridato voce, volto, vitalità, identità alle nostre città, prima schiacciate da un centralismo partitico soffocante. La terza ha completato l’evoluzione del sistema bancario e, al contempo, ha dato vita a nuovi soggetti, le Fondazioni bancarie, che concorrono alla promozione dello sviluppo economico e sociale, sostenendo, ogni anno, migliaia di iniziative a favore dei cittadini, alimentando solidarietà e coesione sociale.
E’ difficile trovare qualcuno che contesti un giudizio positivo sulle prime due. E’ invece, più facile trovare chi contesta il giudizio positivo sulle fondazioni bancarie. Vi è persino chi ha scritto che «le fondazioni danneggiano la società civile» (Roberto Perotti, Università Bocconi e Luigi Zingales, Università di Chicago). Questa spericolata affermazione è inserita in un articolo che dimostra che i «Chicago Boys» non conoscono, in questo caso, la materia sulla quale scrivono. La loro esternazione è talmente superficiale ed approssimativa che non meriterebbe, invero, di essere discussa, se non fosse che essa è anche espressione di un filone di pensiero importante, che va contestato alla radice. Le fondazioni bancarie hanno una duplice natura e funzione. In primo luogo sono «enti privati di utilità sociale», come li inquadrò la legge Ciampi e come confermò la Corte Costituzionale in una importantissima sentenza del 2003. E’ questa una categoria preziosa di soggetti che, alimentandosi da fonti private e non gravando quindi sui bilanci pubblici, svolgono, tuttavia, compiti di utilità sociale e di promozione dello sviluppo, compiti che, altrimenti, finirebbero per gravare sullo Stato che li svolgerebbe in modo certamente meno efficiente e più costoso . Non è, quella degli enti privati di utilità sociale, una categoria nuova nella storia italiana. In termini analoghi, ad esempio, si definiva la Società d’Incoraggiamento Arti e Mestieri che, nella seconda metà dell’800, diede un impulso determinante allo sviluppo della prima industrializzazione italiana. In secondo luogo esse sono anche, in parte, azioniste delle banche dalle quali derivano e, come tali, incassano i dividenti e svolgono le funzioni che spettano agli azionisti, compresa quella di contribuire alla scelta dei maggiori dirigenti, assicurando, così anche una certa stabilità azionaria ad alcune delle nostre maggiori banche (funzione questa assai positiva, come ha ripetutamente affermato anche l’allora governatore della Banca d’ Italia, Mario Draghi).
E’ proprio questo che indispettisce i «Chicago boys», ai quali qualunque soggetto non pienamente contendibile, cioè non prono ai voleri di «quella oligarchia finanziaria che chiamano mercato»(Giulio Sapelli), è un’anomalia da eliminare. Come se non fosse, invece, proprio questa oligarchia finanziaria di origine prevalentemente americana e questo pseudo mercato, che ci ha portato al collasso del 2008-2009 ed al pericolosissimo e folle sistema finanziario attuale.
Non è possibile ricostruire in questa sede la complessa evoluzione che ha accompagnato le fondazioni bancarie, nel primo ventennio della loro vita, fatta di leggi, sentenze fondamentali, autoregolamentazione, e che le ha fatte diventare soggetti positivi per il sistema bancario e utili per la società civile. Ed è solo possibile ricordare qui le nuove direzioni di marcia, come la Carta delle Fondazioni, progetto portato avanti per impulso del presidente dell’ACRI, Giuseppe Guzzetti che dovrebbe sancire incompatibilità, prevenzioni ai conflitti di interesse, criteri rigorosi per ricoprire cariche negli organi deliberativi e di controllo, sulla base anche di un serio codice etico.
Ma vorrei aggiungere qualche testimonianza personale, relativa alla componente delle attività per scopi di utilità sociale e di promozione dello sviluppo. Le mie esperienze concrete sono limitate alla Fondazione Cariplo ed alla connessa Fondazione Comunità Bresciana ed alla Fondazione con il Sud. Nel primo caso ho collaborato al progetto per il Distretto Culturale della Valcamonica e per il progetto, in fieri, di un Distretto Culturale dell’Alta Val Sabbia, e di un fondo Antonio Stagnoli. Porto testimonianza di una collaborazione condotta da parte dei responsabili delle due Fondazioni con un livello di competenza, professionalità, trasparenza, correttezza, molto alto. Si tratta di progetti preziosi per lo sviluppo dei territori interessati non solo grazie alle risorse finanziarie investite dalla Fondazione ed al suo contributo progettuale, ma anche perché esse suscitano e mobilitano altre risorse private, finanziarie e personali, attivandole a fini di sviluppo e di crescita culturale, civile, economica di questi territori, spesso colpiti da severi processi di cambiamenti economici.
Per quanto riguarda la Fondazione con il Sud, essa rappresenta una rara e preziosa presenza nel deserto istituzionale del Mezzogiorno, una delle poche voci capaci di dare sostegno alle volontà e sogni giovanili, che anche nel Mezzogiorno esistono e sono l’unica speranza su cui si può creare qualche cosa. Altro che enti «nocivi alla società civile» come affermano spericolatamente i «Chicago Boys».
Oltre a queste fondazioni che corrispondono a categorie specifiche, il mondo delle stesse è vasto, variegato ed in crescita. Bisogna, quindi, guardare oltre alla forma-fondazione e vedere i contenuti dell’attività concreta svolta dalle stesse. Io stesso ho dato un contributo, forse, decisivo, a trasformare in Fondazione, l’Orchestra Verdi di Milano, che rischiava di bloccarsi e che, grazie alla forma Fondazione, ha, invece, iniziato un iter, che la ha aiutata a consolidare la sua eccellenza come realtà musicale importante a livello nazionale. Ma lo stesso potrei raccontare per una scuola di management e per altri analoghi esempi.
Voglio, invece, chiudere lanciando un allarme. Mi è capitato, infatti, di osservare l’uso spregiudicato di fondazioni da parte di enti pubblici locali, in relazione a grandi eventi pubblici (come eventi sportivi), dove l’utilizzo della forma-fondazione era dettato solo dalla volontà di sfuggire alla contabilità e responsabilità pubblica, per poter utilizzare più disinvoltamente i fondi pubblici. In questi casi l’uso della forma-formazione diviene distorsivo e pericoloso, ed andrebbe rigorosamente limitato e controllato.
Ma, distorsioni ed abusi, così come la necessaria ulteriore evoluzione istituzionale, non tolgono il grande valore delle fondazioni e soprattutto di quelle di origine bancaria, come enti privati di utilità e sviluppo sociale, valore che è strettamente legato alla loro autonomia, apoliticità, indipendenza. E’ per questo che è in corso una raccolta di firme a favore di un Manifesto per l’autonomia delle Fondazioni bancarie, nel quale si afferma: «C’è chi vorrebbe limitare la loro indipendenza, privarle delle loro risorse, addirittura trasformarle in enti pubblici serventi la politica. Noi vogliamo che le Fondazioni continuino a essere libere ed autonoma espressione delle collettività di riferimento e ad operare sempre meglio a sostegno di iniziative di sussidiarietà». Sono già oltre cinquanta le autorevoli firme raccolte a sostegno del manifesto e mi fa piacere vedere che esse comprendono numerosi «Bocconi boys». Ma, certamente, non vedremo tra esse la firma dei «Chicago boys». La mia, invece, ci sarà.
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Marco Vitale, economista d'impresa
(XII Rapporto Annuale Fondazioni)