Gli artisti che aboliscono l'arte
Marrakech, San Pietroburgo e Sydney. Il 15 marzo mentre decine di migliaia di manifestanti pacifisti marciavano attraverso Mosca contro l’azione militare russa in Ucraina, il collettivo Chto Delat (Che fare?) si ritirava da Manifesta 10accusando il curatore di «mettere l’arte al di sopra della politica». Secondo il gruppo di artisti russi, Kasper König dovrebbe cancellare l’edizione 2014 della biennale che si aprirà dal 28 giugno al 31 ottobre all’Ermitage di San Pietroburgo. «Siamo sull’orlo di una seconda Guerra Fredda, la nostra stessa vita è minacciata, dichiara Dmitry Vilensky, uno dei membri fondatori di Chto Delat. Il nostro obiettivo dovrebbe essere quello di trasformare qualsiasi progetto culturale in una manifestazione di dissenso contro la politica di violenza, repressione e menzogne del governo russo». Nonostante la pressione di Chto Delat, e di oltre 1.700 artisti di tutta Europa che hanno firmato una petizione chiedendo a König di posticipare la Biennale, gli organizzatori di Manifesta hanno confermato l’intenzione di andare avanti. L’anno scorso la Biennale ha ignorato le richieste di scegliere una sede diversa, per via delle leggi omofobe russe. In un recente comunicato stampa, il curatore si è detto preoccupato per «l’escalation della crisi», ribadendo però che «è più importante che mai proseguire nel nostro lavoro con coraggio e convinzione per il pubblico locale e internazionale». In tutto il resto della Russia, le biennali vengono usate come piattaforma per esprimere dissenso. Artisti, curatori e addetti ai lavori hanno sottoscritto una petizione contro la quarta Biennale internazionale di Mosca per l’arte giovane (26 giugno-10 agosto) chiedendo retribuzioni e condizioni lavorative migliori. Gli artisti hanno criticato il curatore David Elliott per aver scelto come tema della mostra il discorso «I Have a Dream» di Martin Luther King, definendo «precaria» la loro situazione economica e sociale. Affermano che gli artisti che partecipano alla Biennale ricevono solitamente un finanziamento ridotto all’osso, si sobbarcano i costi di produzione e trasporto e non dispongono di materiali adeguati. «Questo è uno sfruttamento del nostro lavoro. Uno dei nostri sogni è che il nostro lavoro venga pagato», hanno scritto i contestatori in una lettera aperta. Elliott ha ribattuto che le biennali non pagano mai le spese degli artisti, sostenendo di aver accettato un compenso «drasticamente ridotto» a causa delle difficoltà di budget e sottolineando che è il ministro della Cultura russa a tenere i cordoni della borsa.
L’insofferenza per le condizioni economiche e sociali non si limita alla Russia. Da Marrakech, dove la lobby marocchina anti israeliana ha obiettato alla partecipazione della videoartista Keren Cytter, residente a New York ma nata a Tel Aviv, alla tanto pubblicizzata polemica di Sydney, dove uno sponsor lega il suo nome alla gestione dei centri di detenzione per i rifugiati, le biennali sono terreno fertile per la protesta.
Lo storico dell’arte Bruce Altshuler identifica la miccia dei recenti movimenti di protesta nel «crescente scontento» causato dalla globalizzazione, soprattutto dopo lo scoppio della crisi economica nel 2008. Altshuler distingue tra le biennali degli anni Novanta (quando in tutto il mondo ne furono create più di 40), che erano viste come «progetti utopici, ottimisti e capaci di cambiare il mondo» e le biennali di oggi. «La fiducia è svanita e si sono fatte evidenti le disfunzioni di un mondo ormai interconnesso. È naturale che la protesta politica basata sulle nuove realtà economiche e sociali sarebbe stata diretta alle biennali, eventi molto visibili che coinvolgono l’élite mondiale», ha aggiunto. La politica sui centri di detenzione per gli immigrati del Governo australiano è stata messa sotto esame quando nove artisti hanno deciso di boicottare la Biennale di Sydney, aperta fino al 9 giugno. Il suo sponsor, la Transfield Holdings, ha una partecipazione nella Transfield Services che ha un contratto da 1,2 miliardi di dollari australiani (circa 8 miliardi di euro) per la gestione dei centri di detenzione di Nauru e Manus Island. Le proteste sono servite: la Biennale ha tagliato i ponti con Transfield, e Luca Belgiorno-Nettis, direttore di Transfield Holdings, si è dimesso da presidente della Biennale. Sette dei nove artisti che hanno protestato hanno deciso di riprendere parte alla mostra. Dopo l’apertura, gli organizzatori hanno rapidamente minimizzato la protesta.
Apartheid e turismo
Il direttore artistico della Biennale di Sydney Juliana Engberg ha dichiarato che, a differenza della Biennale di Berlino 2012 dove «l’arte doveva compiacere la politica» (c’erano alberi da Auschwitz e un accampamento del movimento Occupy), a Sydney «l’arte è il cuore, la guida». Il desiderio della Engberg di riportare l’arte al centro del dibattito è comprensibile, ma come sottolinea lo storico dell’arte Robert Storr, il matrimonio tra arte e politica non è nuovo, soprattutto quando si parla di biennali. Storr, curatore della Biennale di Venezia 2007, aspramente contestata, dove per la prima volta presenziavano i padiglioni turco e africano (l’India non accettò l’invito), spiega che la biennale italiana «è per sua stessa natura politica». Storr rimarca che lo status storico, geografico e amministrativo della Biennale di Venezia e la suddivisione in padiglioni nazionali testimoniano il suo carattere intrinsecamente politico: «Pretendere diversamente, ovvero preoccuparsi solo dell’arte per l’arte, sarebbe comunque una mossa politica, ma poco plausibile». Molte altre biennali sono nate in contesti politici particolari, con esiti diversi. Quella di Johannesburg, istituita nel 1995, un anno dopo la fine dell’apartheid in Sudafrica, è stata cancellata nel 1997, dopo appena due edizioni, per mancanza di fondi, in particolare dalla città. Il curatore nigeriano Okwui Enwezor organizzò l’edizione del 1997, che il consiglio comunale cercò, senza successo, di chiudere con un mese di anticipo. Un tentativo di rilancio nel 2000 non è andato a buon fine. La Biennale di Gwangju fu inaugurata nel 1995 in memoria del massacro nel 1980 dei manifestanti contro la dittatura sudcoreana, poi deposta nel 1987. A differenza di Johannesburg, la Corea del Sud finanzia la fiera con 12 milioni di dollari a edizione (8,6 milioni di euro). Come molte biennali create negli anni Novanta fuori dal tradizionale percorso dell’arte, anche quella di Gwangju aveva come obiettivi l’incremento del turismo, lo sviluppo delle infrastrutture e la promozione degli artisti locali. Ma, come sottolinea Bruce Altshuler, spesso in queste biennali sono stati messi a punto anche importanti programmi curatoriali: «Le mostre come quella di Gwangju spesso possono contare su ingenti risorse economiche, che non avrebbero ottenuto diversamente». Mentre di recente gli artisti hanno capitanato numerose proteste contro le biennali, Yongwoo Lee, presidente della Gwangju Biennale Foundation, spiega che anche i curatori e i direttori artistici che le organizzano «corrono dei rischi. Le biennali sono piattaforme per la discussione. Chi le organizza non esita a reagire strategicamente e politicamente alle disuguaglianze e alla repressione». Per Robert Storr è arrivato il momento che il mondo dell’arte si assuma le sue responsabilità: «La volontà del pubblico di sospendere il giudizio sulla corruzione e sulla menzogna non può durare oltre, afferma. I curatori, i burocrati della cultura, i mecenati e gli artisti non possono dire una cosa e fare l’esatto contrario ancora per molto tempo, perché prima o poi la demagogia e il doppio gioco si ritorcono contro chi li fa».
da Il Giornale dell'Arte numero 342, maggio 2014