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Beni culturali: questioni aperte

  • Pubblicato il: 07/05/2013 - 11:34
Autore/i: 
Rubrica: 
OPINIONI E CONVERSAZIONI
Articolo a cura di: 
Redazione

Che cosa significa valorizzare il patrimonio culturale oggi?
Valorizzare il patrimonio significa molto semplicemente permettere che quest’ultimo incroci lo sguardo consapevole delle persone e che possa iniziare un dialogo «tra viventi» come dice Cacciari. Questo significa che da una parte il patrimonio va attrezzato, allestito per la «mise en offre», la «mise en culture»  e infine la «mise en turisme», - secondo la nota triade transalpina; ovvero conservato e reso accessibile nell’offerta di un territorio; interpretato e corredato di elementi culturali che lo integrino in un panorama culturale, posizionato all’interno delle filiere di offerta turistica e coordinato con i servizi che sostengono la permanenza e il turismo in un luogo. Dall’altro lato, occorre operare sullo sguardo delle persone per favorire questo dialogo, perché sia riconosciuto al patrimonio un valore, culturale prima che economico; se i residenti non riescono ad attribuire valori immateriali al patrimonio, non ne sapranno nemmeno gestire la traduzione in valori materiali e monetari, operazione tutt’altro che semplice e automatica e bisognosa  invece di molteplici saperi e di grandi capacità. La mancata attribuzione di valore, o la scarsa attenzione, da parte della popolazione residente è uno degli ostacoli più forti alla valorizzazione del patrimonio.
Si deve scommettere sulle nuove generazioni ovviamente, su un’accresciuta sensibilità per la cultura e per l’ambiente, ma per farlo occorre rendere evidente qual è il valore del patrimonio per il futuro. Se il patrimonio è solo passato, testimonianza storica, fattore di distinzione culturale è ovvio che solo una nicchia di persone vi attribuirà un qualche valore. Se il patrimonio diventa l’evidenza dispiegata nella pietra e nello sguardo della diversità dei modi di vita e delle culture, il supporto per le alternative attuali nel nutrire modelli di comportamento di uso della città e dell’ambiente, la componente di un paesaggio la cui ricchezza di stratigrafia è continuamente fungibile e interpretabile, se il patrimonio diviene disponibile all’uso e alla reinterpretazione progettuale per un’interazione costante con l’attualità, allora sarà possibile pensare a una valorizzazione diffusa del patrimonio.
Nel considerare il patrimonio occorre evitare la trappola nella quale troppo spesso si cade: tutto ciò che è locale, idiosincratico, identitario e ha a che fare con le radici culturali e sociali, comporterebbe un torcicollo verso il passato, una nostalgia fuori corso, un rimpianto conservatore. Tutto ciò che è innovazione, tecnologia, futuro, invece, comporterebbe balzi in avanti, fenomeni globalizzanti necessari e indiscutibili e abbandono di radici e identità[1] come cascami antiquati, esoscheletri pesanti e imbarazzanti per le nuove sfide. Questa trappola è tanto rozza, quanto efficace, diffusa, invitante e pervasiva. Il patrimonio va pensato non solo come risorsa sempre attuale e presente (anche in senso proprio)[2] ma come possibile generatore di futuro e futuri. Come le Mangrovie lanciano le loro radici aeree distante dai lori tronchi per colonizzare un’altra parte di palude, così valorizzare il patrimonio significa aiutarlo a piantare le proprie radici nel futuro. E’ in quel mondo che le giovani generazioni troveranno le loro.
L’urgenza sta nel proporre questo cambio di ottica, soprattutto attraverso la scuola e l’istruzione: la convinzione di Malraux che bastasse permettere l’incontro di ciascuno con la cultura e con il patrimonio perché ne scaturisse la scintilla di un possibile rapporto ha rivelato la sua consistenza, ma anche i suo limiti. Un’opera di avvicinamento e di decodifica dei significati e del senso che il patrimonio ha per il futuro si rivela sempre più urgente in termini culturali.

Si parla di cooperazione tra pubblico e privato nella gestione del patrimonio. Quali possono essere le strade di cooperazione?
Perché il tema è quello del paesaggio come bene comune. Dai tempi del Codice di Bellosguardo, la capacità di costruire con modalità «spontaneamente culturali» un paesaggio ricco, coerente e sostenibile è andata in frantumi con una cesura irrimediabile costituita dalla Seconda Guerra Mondiale, a favore di pratiche di rapina, di urgenza e di accumulazione economica incompatibili con una gestione sensata e sostenibile delle risorse paesistiche. Né a oggi si può sperare in un ritorno spontaneo all’età dell’oro: occorre ricostruire da parte del pubblico cornici normative entro le quali operare che diano coerenza a livello paesistico e tentino con tutti i mezzi (non solo con i vincoli – necessari, ma altrettanto drammaticamente insufficienti - ma con la cultura, l’istruzione, la partecipazione, ecc.) di costruire una sensibilità a livello sociale e le condizioni perché i privati possano operare. Per nostra fortuna, nonostante le distruzioni, il patrimonio italiano ha dimensioni ancora così consistenti da escludere l’ipotesi di poterlo semplicemente conservare e museificare. L’unico modo di conservarlo è ri-immetterlo nella quotidianità del circuito economico, accettandone le conseguenze: necessaria modificazione, ulteriore stratificazione contemporanea, cambiamento parziale del «senso» del manufatto. Queste tre cose si chiamano «essere in vita», e la produzione di nuova cultura sta nel confrontare i nuovi sensi con la preesistenza, nel lasciar leggere le stratificazioni, ma anche nell’adeguare funzionalmente, culturalmente, ed economicamente il patrimonio alle condizioni della contemporaneità. Senza ricette; ogni caso è un problema a sé e ogni volta occorre una valutazione di grande profondità per capire uso, destinazioni e interventi compatibili. E compatibili non vuol dire né al di fuori delle critiche, né di solo restauro. Si pone qui il problema di una rivoluzione culturale a proposito del patrimonio; o il modo di trattare adeguatamente il patrimonio diviene cultura diffusa e condivisa, o nessun rispetto, nessuna conservazione, nessuna tutela imposta per decreto riuscirà a fermare interessi economici in rotta di collisione o semplicemente disattenti e orientati altrove. Il dopoguerra in Italia è testimone dell’insularità dei casi di successo di conservazione, tutela e valorizzazione –anche quando meritoriamente abbondanti - e del sacco diffuso del paesaggio culturale.

Quali sono i vincoli nell’attuare iniziative private o no profit attorno al patrimonio culturale?
Per molti motivi, ne indico tre:
a) perché prevale un concetto di patrimonio come reliquia. Ne consegue la perdita come sacrilegio, l’impossibilità di costruire per noi contemporanei altro patrimonio (retaggio dell’autorictas dell’antico sul contemporaneo)– a meno di miracoli e unzioni divine – un obbligo insensato, ipocrita e profondamente stupido di conservazione a priori, di trasferimento del valore dalla relazione tra le persone e le cose alle sole cose, in modo acritico, proprio di molte derive superstiziose e integraliste. Per differenza, quando Benjamin parla di trasferimento critico di valore da persone a cose, parla di dimensione auratica.
b) Perché in un’Italia industrialmente giovane e che ha saltato l’epoca della rivoluzione industriale per modernizzarsi nel dopoguerra, l’impresa e gli imprenditori, ancora oggi, sono sospetti alla cultura politica del Paese, al più sono considerati un male necessario e persino i partiti riformisti di sinistra non ha ancora fatto ancora pienamente i conti – in termini teorici e profondi con l’impresa e la costruzione del valore.  Ne consegue che far impresa con i beni culturali è quasi una doppia bestemmia; l’impresa alla lunga è strumento di dominio e in più la cultura non si mercifica. Quindi è morale che il compito sia riservato al pubblico che s’incarichi di conservare e musealizzare il tutto. Quasi musealizzare fosse un bene (si ricordi cosa evocava il termine museo attorno al’68), quasi la cultura fosse un presidio pubblico e non un bene comune dove i privati non possono che essere attivi in ogni senso, dalla produzione alla conservazione. Purtroppo l’individuazione di un dominio quasi esclusivamente pubblico per la cultura è preconcetto fortemente condiviso nel mondo degli operatori culturali  in genere, non solo tra coloro che sono addetti alla conservazione
c) Perché in Italia non esiste una cultura della compatibilità tra patrimonio e intervento che assuma forme praticabili e democratiche di negoziazione. O il vincolo è assoluto - nessuno può avvicinarsi e intervenire – e in tal caso ci sono speranze di trasmettere il bene alle prossime generazioni – o se si può intervenire, finisce il più delle volte che il bene viene distrutto, alterato irrimediabilmente, avvilito, tolto di mezzo come un ingombro o confinato in un angolo nascosto.  La possibilità che su tutto il patrimonio si possa intervenire, in ogni caso, ma sempre e comunque a certe condizioni e non ad altre, non risulta gestibile e praticabile nel sistema vincolistico e iperlegislativo italiano, perché la qualità degli interventi e la sensibilità per il patrimonio non è il risultato di una norma e non si ottiene per decreto. E’ cultura e pratica culturale continuamente negoziata. E da noi la pratica storica si è sclerotizzata in conservazione contro saccheggio. Si tenga presente, a fianco dei molti meriti accumulati dalle Soprintendenze nel difendere il patrimonio, che, tuttavia, la Soprintendenza nel nostro ordinamento statuale è l’unico potere assoluto senza alcun contropotere o camera di compensazione. Ciò che viene deciso da un Soprintendente, non solo nella conservazione, ma anche nella decisione di non conservare, non può essere discusso o impugnato (uno dei non frequenti retaggi autoritari delle leggi Bottai, peraltro assai illuminate nonostante l’appartenenza fascista).  Se non si esce dal doppio vincolo della conservazione totale senza possibilità alcuna d’intervento o al contrario dell’inevitabile processo distruttivo che qualsiasi intervento autorizzato, per quanto modesto, riesce a trascinare con sé, non si potrà operare in maniera diffusa sul patrimonio per valorizzarlo. Lo stesso si può dire a proposito del paesaggio: tutela assoluta nei parchi, mano libera nel territorio. Una gradualità dei vincoli e delle opportunità, dagli ambiti più restrittivi per le aree di maggior pregio e fragilità, via via verso interventi che comportano impatti anche importanti ma necessari alla vita sociale, tuttavia, corredati con valutazioni, caso per caso, delle condizioni e delle modalità d’intervento più opportuni per mitigarne gli effetti negativi e garantirne la sostenibilità, non costituirebbe forse un orizzonte maggiormente desiderabile e culturalmente più evoluto?

Quali sono le competenze di cui abbiamo maggior bisogno per il nostro patrimonio?
Competenze culturali, di regia-gestione e poli-tecniche. Intervenire sul patrimonio è problema complesso: un intervento può essere adeguato o troppo invasivo o degradante a seconda del modus operandi. E’ questione di grado, di dettagli, di modalità d’intervento, non di filosofia o di linee guida e/o d’intenzione: qui si giocano le competenze tecniche nel giudicare le compatibilità, l’ammissibilità degli interventi, le loro invasività.  Ma queste metodiche profondamente operative[3] vanno rese coerenti con gli obiettivi e con le funzioni; e qui si giocano componenti di regia che sappiano operare in entrambi i campi e a scavalco di essi, da una parte, piegando le tecniche alle singolarità del caso, anche per rispondere efficacemente agli obiettivi e, dall’altra, imponendo una rimodulazione degli obiettivi e delle funzioni per non arrivare ad interventi invasivi, pesanti, lesivi dei manufatti esistenti.  Infine, le competenze culturali, perché tutto ciò deve acquisire senso in un paesaggio fisico e in un paesaggio immaginario che rappresentano il doppio campo di vita del patrimonio. Si restaura se si sa il perché (a differenza di innumerevoli casi di pessime pratiche) e il come l’oggetto restaurato possa essere una sorgente per infinite nuove storie da raccontare, la cui urgenza ha a che fare con la visione del futuro di una dato territorio.  Infine la gestione: per grandissima parte non potrà che essere privata, e non è affatto scontata una sostenibilità sul lungo periodo. L’individuazione di sperimentazioni di casi innovativi per una cultura della gestione diffusa, soprattutto del patrimonio disperso, è di cruciale importanza, per orientare, per mostrare rotte percorribili a singoli privati e a imprenditori, molto più spaventati dalla complessità del confronto con i beni culturali, che non rapaci e pronti ad approfittare delle opportunità positive.

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[1] Non s’intenda qui identità come qualcosa di fisso ed ereditato, ma come un cantiere in costruzione che si nutre del rapporto tra l’io e l’alter. Lo annotiamo perché non potendo affrontare la questione per esteso vogliamo almeno escludere derive pericolose nell’uso del termine di identità, ad esempio come arma di discriminazione verso l’altro chiunque esso sia…

[2] “Allora, che cos’è passato, in questo mobile? Heidegger risponde “il mondo” di cui faceva parte: così questa cosa sussiste ancor oggi, e con ciò è presente e non può che essere presente; ma in quanto oggetto appartenente a un mondo passato, questa cosa presente è passata”.Jean-François Lyotard, La phénoménologie, Presses Universitaires de France, trad it. La fenomenologia, Mimesis Edizioni, Milano-Udine, 2008, pag. 85-86

[3] Per quanto ne dicano alcuni teorici del restauro, si tratta di discipline dallo statuto debole, se non debolissimo e contraddittorio, che confinano con le buone pratiche; precetti, ricette, metodi infallibili non sono applicabili. L’atteggiamento culturalmente critico e profonde competenze artigianali e professionali non sono evitabili.