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Un metodo più che un esito

  • Pubblicato il: 06/09/2013 - 00:56
Rubrica: 
SPECIALI
Articolo a cura di: 
Alessandra Gariboldi e Neve Mazzoleni

Per la serie «waiting for ArtLab 2013. Speciale «Innovazione sociale e cultura», vi proponiamo la conversazione con Flaviano Zandonai, sociologo, ricercatore di Euricse (European Research Institute on Cooperative and Social Enterprises), Segretario di Iris Network, la rete degli istituti di ricerca sull’impresa sociale e collaboratore di Vita Magazine.

Come definisci innovazione sociale?
L’innovazione sociale per me è un metodo più che un esito. È il modo nuovo in cui soggetti diversi (e la diversità è condizione fondamentale), sanno coordinarsi per elaborare nuovi schemi di azione comune che rispondono in maniera diversa a bisogni nuovi o in maniera nuova a bisogni già noti.
L’innovazione è fatta anche di impatti naturalmente, guardando quindi a quanto viene generato e soprattutto a come vengono cambiate le politiche e i modelli di intervento dei soggetti coinvolti e delle istituzioni che governano il territorio. E’ la cornice che deve essere cambiata insomma, non solo la disposizione delle componenti interne.
Se cambiano gli schemi di azione attraverso cui si produce e si regola la produzione (economica, sociale, culturale), allora l’innovazione è totale. Se invece ciò non accade, allora siamo di fronte a un caso di innovazione incrementale, o di ottimizzazione dell’esistente. Però questo ultimo approccio non è più sufficiente, laddove la situazione richiede di rivedere paradigmi, trovare nuove soluzioni, per l’urgenza dei problemi attuali.
Mi piace inoltre osservare il carattere ciclico dell’innovazione: trent’anni fa il non profit ha attraversato una importante stagione di innovazione, quando ha creato uno schema imprenditoriale per produrre beni e servizi, soprattutto in campo socio assistenziale, educativo, ecc. passando da una funzione di advocacy, cioè di rappresentanza, di tutela dei diritti, a una funzione di carattere produttivo. La funzione produttiva poi ha generato un modello d’impresa con tanto di forma giuridica – la cooperazione sociale e poi l’impresa sociale - con conseguenze sia positive (economia, occupazione, benessere) che negative (l’eccessiva dipendenza dalle pubbliche amministrazioni).
La sfida di oggi è capire quali siano i nuovi driver dell’innovazione e come essi interagiscono con quelli più consolidati. Ad esempio credo che l’ICT, pur non amando necessariamente l’interpretazione di innovazione come tecnologia, sia motore di innovazione, non tanto o non solo nella sue tecnologie, quanto per la sua cultura e i suoi metodi (il peer to peer, lo share, e gli altri strumenti di condivisione e co-creazione del sapere, la sua euristica fast and frugal). È un meccanismo potente che, almeno fin qui, l’economia for profit è stata più rapida a cavalcare. Un ruolo chiave in tal senso è svolto dai nuovi imprenditori, che vale la pena conoscere più da vicino, attraverso story telling, già disponibile (anche se talvolta troppo enfatico). Posso citare, ad esempio, l’ottimo lavoro di Ivana Pais, ricercatrice dell’Università Cattolica, che si sta occupando delle comunità professionali digitali.

Bastano le start up innovative, per portare avanti l’innovazione sociale in Italia?
Le start up sono un fenomeno interessante, dinamico, che si è già dotato di una sua politica. Lavoro da tempo per creare occasioni di fertilizzazione incrociata tra start up innovative e imprese nonprofit «offline» perché sono convinto che siamo in un altro ciclo storico, e ogni cosa va ricalibrata. Solo a queste condizioni l’innovazione va a sistema, altrimenti rimane una cosa marginale, bella da raccontare, ma che rischia di essere fagocitata dentro uno schema di produzione di valore che è quello capitalistico. Dal blog di una collega americana ho colto un’osservazione giusta: le principali innovazioni vengono acquisite da società di venture capital non appena hanno successo. Effettivamente il non profit genera innovazione, shared economy e quant’altro, ma i profitti generati vanno infine a pochi investitori…
In tempi non sospetti, nell’ambito di workshop di Iris network, abbiamo cominciato a invitare soggetti diversi (ad es. la rete The HUB, incubatori come Avanzi, start-up innovative) dal nostro solito pubblico di riferimento (cooperative sociali soprattutto). È stato difficile farli interagire, per una certa reciproca visione riduzionista. Dopo qualche anno qualcosa comincia a muoversi: ad esempio THE HUB-Rovereto ha lanciato un bando con business angel per finanziare attività di welfare innovativo al quale hanno applicato anche cooperative sociali. Un tangibile segno di cambiamento!

Conosci altri casi interessanti di innovazione sociale?
Mi interessa la riattivazione di beni immobili per finalità sociali, i cosiddetti community asset. Ammiro molto il lavoro della start up «impossible living», che attraverso il sistema della condivisione in rete, sta realizzando una mappatura dei beni immobili abbandonati, per dare loro visibilità e nuovo futuro. Credo che, da questo punto di vista, sia importante attivare meccanismi di interazione tra comunità on e off line, favorendo lo scambio tra operatori che, in modi diversi, fanno comunque lo stesso mestiere: costruiscono comunità agendo sulla leva dei bisogni, degli interessi e soprattutto delle risorse comuni.
Altro cortocircuito di innovazione sociale che indago si colloca all’incrocio tra welfare e produzione culturale. Per capire davvero cosa succede bisogna guardare dentro i progetti e farli parlare. Ci abbiamo provato anche con Fondazione Fitzcarraldo ma c’è ancora molta strada da fare, coinvolgendo soprattutto gli «addetti ai lavori»: operatori sociali e della cultura.

Quale posto per la cultura e il patrimonio nei processi di innovazione sociale?
Le cooperative sociali cominciano a capire che la cultura può essere un potente motore di cambiamento perché aiuta a risintonizzarsi sulle dinamiche socioeconomiche dei territori. Mi viene in mente il caso della Compagnia Della Fortezza a Volterra, dove si lavora sul recupero sociale attraverso la produzione culturale teatrale, sempre più aperta al territorio. Con lo spettacolo «Mercuzio non vuole morire», la Compagnia ha lavorato moltissimo per coinvolgere tutti i cittadini, i residenti, i turisti. Un altro esempio è Olinda a Milano, che attraverso il reinserimento dei pazienti all’ex Paolo Pini, ha promosso un’offerta culturale per tutta la città.
Ci sono due aspetti da considerare sul tema innovazione sociale e cultura: il primo è l’impatto con il pubblico, che in molti casi può e deve essere coinvolto nella produzione ma soprattutto fa da riscontro rispetto al raggiungimento di un impatto che cambia le regole del gioco. Il secondo aspetto riguarda il valore delle reti: costruire una rete tematica intorno a una questione forte, con identità definita e in grado di essere compresa, è un metodo più efficace per introdurre nuovi modelli di governance dei territori come ad esempio il Distretto Culturale Evoluto. Network tematici su specifici bisogni del territorio attivano molto di più.

Hai suggerimenti per esplorazioni e approfondimenti?
Per capire davvero cosa succede ha senso partire da casi e progetti concreti, perché producono una conoscenza in qualche modo attivabile attraverso esperienze realizzate. Posso citarti un soggetto nazionale come Avanzi. Altra figura di riferimento è Bertram Niessen, project manager del bando «Che fare», che sta conducendo una riflessione sulle realtà che hanno applicato al bando. Il Distretto Culturale Evoluto di Monza e Brianza lavora su temi di innovazione culturale: Paolo Cottino di KCity è il mio riferimento per quanto riguarda le politiche e i progetti di rigenerazione che fanno leva anche sulla cultura e l’impresa sociale. Consiglio anche una lettura un po’ eretica rispetto ai sacri testi del nonprofit, ma molto stimolante. E’ «societing reloaded» di Alex Giordano e Adam Ardvisson.

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