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Un’opera d’arte vivente mi camminava accanto. Louise Nevelson

  • Pubblicato il: 13/05/2016 - 13:36
Rubrica: 
FONDAZIONI PER LA CULTURA
Articolo a cura di: 
Raffaella Bortino

«Non so se la definizione di scultrice mi si addica. Faccio dei collage. Ricostruisco il mondo smembrato in una nuova armonia». A distanza di 43 anni dalla prima esposizione di Louise Nevelson a Milano, la Fondazione Marconi presenta nella sua sede un nucleo di circa 80 opere, tra sculture e collages, datate a partire dal 1955 fino agli ultimi anni Ottanta.  Raffaella Bortino ci parla dell’artista dalla grande forza in risposta alla sofferenza e alla fragilità, scomparsa nel 1988. La frequentò a New York «Un’opera d’arte vivente mi camminava accanto».
 
 
 
 
Per me era una dea. Io ero giovane e la trovavo molto attraente, di una personalità magnetica. Non usciva mai per venire a trovarmi, voleva che fossi io ad andare a casa sua. E io andavo, la raggiungevo dentro alla sua scatola nera: pavimenti e muri neri, arredamenti, divani, tutto nero. Tranne gli innumerevoli e bellissimi argenti. Non dimenticherò mai le sue mug Tiffany, erano scintillanti. Quel luogo nero, piuttosto che un cimitero mi appariva come un contenitore creativo e generativo. Altro che lutto: avvertivo una prepotente voglia di vivere.
Era il 1978 e mi ero appena trasferita a New York per un incarico di international visitor presso la New York University. Conobbi Louise Nevelson grazie a Georges Fall, editore e scrittore francese appassionato di arte contemporanea. Lei era già l'artista affermata che conosciamo tutti, ma con me è stata anche una donna molto accogliente. Mi portava spesso a vedere il New York City Ballet al Metropolitan. Indossava sempre abiti vistosi, ciglia lunghissime, turbanti meravigliosi e, ai piedi, sandali francescani che avvolgeva con sciarpe e decorava con pietre preziose. Era un’opera d’arte vivente e mi camminava accanto.
Traspariva però anche una enorme fragilità. Quando le chiesi come mai mangiasse solo frutta, a capo chino mi confidò che era appena rientrata da un rihab, dove curava la sua dipendenza dall'alcol e che con la frutta intendeva continuare a disintossicarsi.
L’angoscia di Louise Nevelson aveva trovato nell’alcol un sollievo, indubbiamente, per un certo periodo. Una sofferenza che l'artista ha saputo veicolare puntualmente attraverso la sua opera plastica e, in qualche modo, l'ha riversata anche attraverso l'uso della parola - come testimoniano le sue interviste - oltre che, più esplicitamente, astenendosi dal parlare.
Proprio in quegli anni divenni amica di Laurie Wilson, psicanalista, storica dell’arte e arteterapeuta, docente alla New York University che studiava la personalità di Louise Nevelson. Laurie scrisse articoli intensi, intervistò lei e molte persone vicine a lei; e ancora oggi si interessa profondamente all'opera e alla vita di Louise Nevelson, tant'é che sta per pubblicarne una corposa monografia1. È per queste ragioni che sono stata felice di poter ascoltare le recenti riflessioni di Laurie Wilson su Louise Nevelson al convegno internazionale dal titolo “Corpi infranti e Figure sublimi. Arte contemporanea in un luogo di cura: riferimenti ed esperienze” - organizzato lo scorso 8 marzo da Fermata d'Autobus, la Onlus di cui sono fondatrice - in occasione della mostra "Abusi. Testimonianze da una comunità terapeutica", a Palazzo Barolo nella città di Torino.
Dagli scritti di Laurie comprendo ancora oggi molte spiegazioni che all'epoca potevo solo intuire. In particolare, di come l'uso personale del linguaggio, della parola come del silenzio da parte di Louise Nevelson sia da porre in relazione al trauma che ha subìto. Come se non dire le abbia permesso di non depositare i ricordi, di non stratificarli in un contenitore che ne conservi il dolore.
Sono noti i due momenti di mutismo da parte di Louise Nevelson: il primo, quando aveva circa tre anni e mezzo, a seguito della separazione dal padre (che era un commerciante di legnami e partì per gli Usa, precedendola), quindi dalla separazione dal nonno che morì prima che lei col resto della famiglia abbandonasse la casa natia; il secondo, negli ultimi mesi di vita durante i quali era consapevole che il cancro ai polmoni l'avrebbe portata alla morte (1988). E se non poteva più fare arte, non aveva più nulla da dire.
Laurie Wilson pone l’accento su un fenomeno che chiama “mutismo figurativo”, ovvero l’impossibilità per Louise Nevelson di tramutare la sofferenza nel linguaggio parlato, nel verbale. Nell’arco di soli cinque anni, tra il "43 e il "47, quando morirono entrambi i  genitori, Louise pare non abbia detto quasi niente ad alcuno, non ha verbalizzato i suoi lutti, non ha versato una lacrima, non ha assistito ai funerali né mai si è recata al cimitero per compiangere i suoi morti.
Dello stesso silenzio sembra cosparsa la sua memoria nei confronti della propria famiglia ebrea ortodossa, soprattutto in merito ai pericoli che deve aver affrontato con i pogrom e i cosacchi. Sappiamo con certezza che, negli anni della sua prima infanzia (1899 - 1905) trascorsa nei pressi di Kiev, tutta la sua gente visse situazioni di terrore, ma Louise Nevelson non ne fa menzione.
Laurie Wilson parla ancora di “silenzio selettivo” per intendere l'uso frequente della negazione in Louise Nevelson: "io non uso il legno, non uso il nero e non faccio scultura". Una difesa estatica, un meccanismo difensivo a lei molto caro.
Pur essendo una donna coinvolgente e carismatica, Louise Nevelson è nota per la sua attitudine a frammentare l'ordine del discorso. Riascoltare la sua voce registrata potrebbe indurre la sensazione che tratti argomenti incoerenti attraverso un profluvio di parole assemblate alla rinfusa, apparentemente prive di senso. Ma un interlocutore preparato ad ascoltare materiale inconscio evidentemente non avrebbe alcuna difficoltà di comprensione; così come un cultore della sua opera scultorea non faticherebbe ad intercettarne il senso e riconoscere, nel particolare linguaggio parlato di Louise Nevelson, una costruzione paratattica del periodo in tutto analoga al suo linguaggio plastico.
In effetti, a partire dagli anni quaranta e soprattutto dal decennio successivo, l'uso reiterato del legno recuperato per strada ha caratterizzato il linguaggio di Louise Nevelson, contrassegnandolo. Un materiale di scarto, portatore di vissuti e di una dimensione temporale autonoma, restituito a nuova vita grazie a configurazioni spaziali sempre più complesse. Assemblages di forme eterogenee e contrapposizioni ritmiche incessanti di pieni e vuoti assumono nelle sue sculture una struttura prettamente architettonica. La scelta risolutiva di adottare una pittura monocroma di colore nero per equilibrare le superfici ha impresso una sordina alla nuda e cruda realisticità dei frammenti di legno, reintegrandoli, classicamente, a favore di un linguaggio sempre più astratto, libero e squisitamente poetico.
"Paesaggi da tavola", come lei aveva definito alcuni suoi lavori. Mentre io penso alla sua casa nera guardando e transitando dentro l'opera ambientale Mrs. N's Palace (1964-77) al Met di New York.
Raffaella Bortino
 
 

Per saperne di più sulla mostra di Louise Nevelson-Fondazione Giorgio Marconi.
13 maggio – 22 luglio Via Tadino 15 Milano

Risale al maggio 1973 la prima esposizione dell’artista americana che proprio lo Studio Marconi le dedicò a Milano in un momento in cui era ancora poco nota al pubblico europeo. Dopo aver visto alcune sue opere in una mostra a Parigi, Giorgio Marconi ebbe occasione di conoscerla personalmente nel 1971, tramite la Pace Gallery di New York, e andò a trovarla nel suo studio-abitazione. Era un assemblage di opere fatte con avanzi delle ‘cose’ dell’uomo, cassette di Coca-Cola, gambe di tavoli, ritagli di falegnameria, doghe di barili ecc. ecc. Passai una mattinata piena: si parlò di opere, spazi, mostre, viaggi a Milano e un’infinità di argomenti, comprese chiacchiere varie sulla vita.. (Giorgio Marconi, Autobiografia di una galleria, Skira 2004). Iniziò così un’assidua collaborazione che sarebbe durata qualche anno e avrebbe dato vita a diverse mostre, organizzate in Italia e all’estero. Affascinata da Marcel Duchamp e da altri capifila del Dada e del Surrealismo – “Il Surrealismo era nell’arte che respiravo” – affermava ricordando gli anni del suo apprendistato, l’artista subì l’influenza dell’esperienza cubista di Picasso, dell’arte nativa del Nord e Centro America e, in particolar modo, dopo essere stata assistente di Diego Rivera e Frida Khalo, della pittura murale.
Il suo è un linguaggio scultoreo che aderisce immediatamente al muro, mutuando i suoi segni astratti dalla pittura. Monumentalità, monocromia e dislocazione dei piani su una scarsa profondità sono le caratteristiche peculiari dei suoi assemblaggi o “environments”.Agli oggetti di recupero che compongono le sue sculture astratte, l’artista attribuiva una nuova vita “spirituale”, diversa da quella per la quale erano stati creati, sottoponendoli a un rituale preparatorio quasi a volerli decontaminare dal mondo esterno.
Protagonista del rinnovamento della scultura nel XX secolo e delle sue trasformazioni, Louise Nevelson diceva parlando di sé e del suo lavoro: “Adoro mettere insieme le cose”. Non si può tuttavia confinare il suo repertorio creativo nella sola categoria dell’assemblaggio. Figura emblematica dell’arte nel Novecento, Louise Nevelson, si è distinta nel panorama artistico internazionale per la sua ricerca di un linguaggio universale. Non so se la definizione di scultrice mi si addica. Faccio dei collage. Ricostruisco il mondo smembrato in una nuova armonia.
L’armonia che si respira ad esempio in alcune delle opere in mostra, come nel monumentale Homage to the Universe, (1968, 900 x 90 cm), autentico esito di una cerimonia scolpita in cui ogni elemento conserva qualcosa della sua vita precedente; inDawn’s Host (1959) e nella serie End of the Day che documentano la predilezione della Nevelson per l’inizio e la fine del giorno, l’alba e il crepuscolo; oltre che nella selezione di collages, realizzati in varie dimensioni e su supporti lignei o cartacei, a dimostrazione della continua attenzione dell’artista per l’immediatezza d’esecuzione, l’equilibrio della composizione, i piani prospettici e i rapporti cromatici. Per l’occasione verrà pubblicato un volume dedicato ai collages di Louise Nevelson, edito da Skira e con un saggio di Bruno Corà. La mostra prosegue allo Studio Marconi ’65 con una selezione di collages, multipli e grafiche.
 
 
 
Raffaella Bortino è sociologa, arteterapeuta e psicoterapeuta.
Dopo una importante esperienza lavorativa presso la Comunità Areba di New York diretta dal medico psichiatra Daniel Casriel, torna in Italia e fonda la Comunità "Il Porto" e la  Comunità "Fermata d'Autobus".
 
 
 

1 Laurie Wilson, Light and Shadow, Thames & Hudson Inc., New York (in corso di pubblicazione).
Cfr. https://www.researchgate.net/publication/35717028_Louise_Nevelson_Iconog...
https://www.researchgate.net/publication/51159978_Light_and_Shadow_in_th...