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Un’arca tra informale e pop

  • Pubblicato il: 01/02/2013 - 19:16
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Stefania Crobe
Frank Stella (b. 1936) Miscuglio di grigio (Gray Scramble)

Nello spazio Arca di Vercelli l’antico adotta il contemporaneo.
Prima chiesa gotica, la prima pietra fu posta nel 1266, poi cavallerizza, carbonaia, mercato ortofrutticolo e infine spazio espositivo dedicato al contemporaneo.
E’ l’ambizioso progetto che ha visto il recupero dell’edificio della ex Chiesa di San Marco e il ripristino degli affreschi ciquecenteschi e nel 2007 la prima mostra - Peggy Guggenheim e l’immaginario surreale – che sancì il felice e duraturo connubio tra Vercelli e la Fondazione Gugghenheim (che gestisce la Collezione Peggy Guggenheim a Venezia, il Museo Solomon R Guggenheim a New York, il Guggenheim Museum Bilbao, il Deutsche Guggenheim a Berlino) portando in Piemonte i capolavori della magnate che fece da spola tra vecchio e nuovo mondo dando vita ad un’arte contemporanea internazionale.

Un sodalizio importante per la città di Vercelli, giunto al sesto appuntamento con il passaggio di oltre 200.000 visitatori, che sfata il tradizionale provincialismo attribuito alle città periferiche rispetto alla centralità del capoluogo e che costituisce un’eccellenza per l’intera Regione.
Ultima fatica la grande esposizione che sarà ospitata nello spazio Arca dal 9 febbraio al 12 maggio 2013: «Gli anni Sessanta nelle Collezioni Guggenheim. Oltre l’Informale, verso la Pop Art».
Un progetto corale, sostenuto in primis dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Vercelli, presentato ieri al Circolo ei Lettori di Torino alla presenza delle istituzioni politiche, il sindaco di Vercelli Andrea Corsaro e Pier Giorgio Fossale, Assessore alla per l'Economia della Conoscenza, paradigmatico nome che testimonia l’orientamento innovativo delle politiche culturali del vercellese, la Regione Piemonte con Michele Coppola, che ha confermato la sua attenzione, la Collezione Peggy Guggenheim di Venezia con il suo direttore Philip Reylands, il curatore Luca Massimo Barbera e infine Giovanna Barni, presidente di CoopCulture, la società che svilupperà gli apparati didattici.

La mostra indaga uno dei decenni più interessanti della storia dell’arte contemporanea il cui epicentro, dopo la celebre Biennale del ’64 che vede l’assegnazione del Gran Premio per la Pittura a Robert Rauschenberg e il trionfo della Pop Art, lascia definitivamente l’Europa per spostarsi oltreoceano.
L’apertura, tra anni ‘50 e ’60, ad un’estetica internazionale, il passaggio da uno sguardo europeo ad una declinazione a «stelle e strisce» dell’arte sancisce la fine definitiva dell’egemonia francese che dai cafè si sposta «on the road».
Arrivano a Vercelli 50 capolavori - dalle Collezioni Guggenheim di Venezia e New York - degli artisti che gravitavano intorno al salotto di Peggy Guggenheim, che dal 1948 risiede a Venezia e che rappresenta il passaggio di testimone da un’Europa che tentava di rialzarsi dall’orrore della guerra e un’America che già inseguiva un sogno.
Ad aprire la mostra i traghettatori di questo passaggio - Dubuffet, Antoni Tapies, Burri, Twombly - che attraverso il superamento dell’informale aprono le porte a nuove sperimentazioni che, se da un lato porteranno ad una riduzione espressiva, pittorica e spaziale con l’impiego di monocromi ad esempio, manifestata da autori come Fontana, Enrico Castellani, Stella, dall’altra evolveranno verso la figurazione iconica e mediatica, in una parola pop, di autori come Jasper Johns, Rauschenberg, Roy Lichtenstein e Warhol, in mostra con la celebre serie Fiori (Flowers) del 1964.

Così «nello spazio dell’Arca – afferma il curatore – ogni quadro è emblematico di un approfondimento intorno a sé, intorno all’autore e intorno al movimento che rappresentano» dando vita ad una narrazione che da una società «corrosa e corrosiva» diventa popular.
Se, come aveva detto Klee durante la prima guerra mondiale, «più il mondo diveniva spaventoso, più l’arte diventava astratta», con la società consumista, il sound roccabilly, il boom economico, la democratizzazione nei market e la brillantina, l’arte si aliena, diventa icona, si ripete ma, nell’«era della sua riproducibilità tecnica», non è mai uguale a sé stessa.

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