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In tema di Manifesti su “cultura e ricerca”. Il Sole 24 Ore a difesa delle Humanities

  • Pubblicato il: 24/02/2012 - 19:23
Autore/i: 
Rubrica: 
OPINIONI E CONVERSAZIONI
Articolo a cura di: 
Michele Dantini
August Sander

Sulla prima pagina del Supplemento domenicale del Sole 24Ore appare un Manifesto in cinque punti «per una costituente che riattivi il circolo virtuoso tra conoscenza, ricerca, arte, tutela e occupazione». Roberto Napoletano, direttore del quotidiano, scrive: «il Manifesto… è un pò figlio di un incontro casuale con Armando Torno… di un paio di settimane fa a Milano, largo Cairoli…»: ne sono dunque noti (almeno i principali) autori. Rilevanza e attualità del tema sono evidenti, e sollecitano riflessioni. La collocazione del Manifesto risulta di particolare interesse per chi sia interessato a un’archeologia politica del processo di riforme degli istituti di alta formazione, e si interroghi sulle politiche educative di Confindustria, mai in primo piano come adesso. Una determinata opacità del testo, oscillante tra convenzionale deferenza per le competenze umanistiche; indifferenza o fatale estraneità al tema dichiarato desta perplessità e impone analisi circostanziate. Si prevede di riservare altro alle discipline storiche e sociali che non sia un ruolo ancillare e diminuito? Introduciamo, anticipando conclusioni.
 
1_ Il principio della “complementarietà” o sussidiarietà (su cui molto ha scritto l’ex ministro del lavoro Maurizio Sacconi) è stato più volte richiamato dall’attuale ministro per i Beni culturali, Lorenzo Ornaghi, e appare sinora il criterio prioritario, se non esclusivo, dell’azione politico-culturale di quest’ultimo. Non è dunque irrilevante che il Manifesto si chiuda richiamandosi proprio al principio della “complementarietà”. Appare collocarsi politicamente, malgrado wishful thinking e confuse enunciazioni, nel contesto delle politiche educative (in larga parte antiumanistiche, antiintellettuali, neoclericali) che hanno sorretto i recenti processi di riforma universitaria (e che dialogano oggi con istanze tecno-economicistiche supportate (anche) dai partiti del centrosinistra); e a fianco di politiche neoliberiste di “valorizzazione” del patrimonio storico-artistico e archeologico che riducono di fatto quest’ultimo a merce, dequalificando le competenze specifiche, distaccando ricerca e conservazione, memoria e innovazione.
 
2_ Il Manifesto pecca di genericità quanto a indicazioni a) politiche, b) storiografiche, c) istituzionali
a_i) la metafora della catastrofe ricorre e sorregge argomentazioni cruciali. Ci si attenderebbero indicazioni trasparenti, chiare e documentate sulle responsabilità pubbliche: chi ha ridotto il paese in «macerie» comparabili a quelle del dopoguerra? Un testo che solleva l’istanza del merito come prioritaria in senso economico, civile e politico non dovrebbe esitare a pronunciarsi esplicitamente su chi ha male operato, diradando smarrimento e reticenza. Invece. «Chi pensa alla crescita senza ricerca, senza cultura, senza innovazione, ipotizza per loro [i giovani] un futuro da consumatori disoccupati, e inasprisce uno scontro generazionale senza vie d’uscita».
Chi lo pensa? Giulio Tremonti? Fabrizio Cicchitto? O magari Mariastella Gelmini e Roberto Calderoli? Vorremmo saperlo. Si agisca sul piano giornalistico il principio di responsabilità così nobilmente enunciato: si diano indicazioni nominative e circostanziate agli elettori.
a_ii) Al punto 2, Una costituente per la cultura, si afferma prima che «il discorso deve farsi strettamente economico»; poi, a poche righe di distanza, che «per ‘sviluppo’ [si deve intendere] non una nozione meramente economicistica, incentrata sull’aumento del Pil». Come si conciliano le due affermazioni? La trattazione «strettamente economica» con la critica del Pil? Ecomicismo e decrescita? Forse, per le giovani generazioni, prevediamo un modello di sviluppo del tipo: «sottoccupazione + intrattenimento edificante» o «disoccupazione + parco a tema (archeologico o storico-artistico)»? E’ questo il senso dell’appello alla «cultura» e alla «ricerca»? L’educazione al «bello» come dispositivo consolatorio (e en passant poliziesco) per gli esclusi dai processi decisionali e dai flussi di ricchezza?
 
b) Sul piano storiografico il testo manca di ogni accuratezza e precisione. Non si potrebbe pensare a niente di più sciatto della ricostruzione postbellica proposta. Sul supplemento culturale del Sole 24 Ore scrivono eccellenti storici: non si poteva chiedere loro consulenza? E attestare così de facto il rispetto per l’eccellenza nelle Humanities? «Anche la crisi del nostro dopoguerra», leggiamo, «a ben vedere fu affrontata investendo in cultura». In realtà la sensibilità della Repubblica per il tema «conoscenza» è stata storicamente deficitaria: lo raccontano intellettuali, accademici, uomini delle istituzioni come Giulio Carlo Argan, Ranuccio Bianchi Bandinelli, Cesare Brandi e innumerevoli altri. Come valutare poi l’affermazione per cui «le nostre città, durante quella stagione, sono state protagoniste della crescita, hanno costruito ‘cittadini’»? Che cosa vuol dire? In quale senso (culturale, politico, architettonico, paesaggistico, infrastrutturale, antropologico, biodiverso, economico, industriale) le città «costruiscono» i cittadini? Pensavamo che la ricostruzione postbellica avesse portato gravi guasti urbanistici al tessuto delle città, già devastate dalle bombe; e che il dibattito architettonico tra restauratori e modernisti avesse spesso condotto a compromessi davvero deludenti, come nel caso del centro di Firenze. Conoscono qualcosa, gli estensori del Manifesto, del tema (presto decaduto a luogo comune nel dopoguerra) «orgoglio della modestia»? O forse si è inteso richiamare, con il passaggio citato, l’abusato topos della mutualità come tratto distintivo della società (se non dell’impresa) italiana? E’ un topos caro a Sacconi e diffuso tra gli ideologi di CL. Ma le obiezioni che si possono portare sono sfortunatamente formidabili: perché italiani sono pure corruzione priva di sanzione sociale, evasione, affiliazione, clientela, territorialità, mafia. Per quanto possiamo mobilitarci in suo soccorso, siamo costretti a concludere che la frase citata non ha senso: colpisce trovarla in un testo sentenziosamente intitolato Niente cultura, niente sviluppo di cui sono autori il direttore del quotidiano di Confindustria e l’ex responsabile delle pagine culturali del Sole 24Ore, attuale editorialista del Corriere della Sera, l’ultracattolico Torno. Sono questi i campioni della ricerca, i custodi dell’alta cultura, dell’indagine critica e dell’argomentazione impeccabile? Perché si occupano di noi?
 
c) L’affrettata sciatteria del testo induce a cercare il senso tra le righe. Qual è il messaggio? Di che cosa si parla veramente quando si dice che «occorre una vera rivoluzione copernicana nel rapporto tra sviluppo e cultura»? Malgrado l’enfasi compassionevole, a noi pare che il ruolo riservato alle discipline storiche e sociali sia minoritario, o per essere più precisi propedeutico; e che la loro irrilevanza sia per così dire agita dagli estensori, tanto distolti dall’osservanza di requisiti di rigore e limpidezza argomentativi. Allora chiediamo: la «costituente per la cultura» porrà il problema del professionismo umanistico? Se sì, in qual modo e con quali prospettive? «La cultura e la ricerca innescano l’innovazione, e dunque creano occupazione, producono progresso e sviluppo». Bene. Ma quale cultura? Tecnica, umanistica, d’impresa, sociale? E’ possibile essere meno generici? O magari più avvertiti del fatto che si lancia un appello dal giornale di Confindustria, organizzazione il cui responsabile educazione, Claudio Gentili, afferma che gli studenti dei corsi di laurea in studi umanistici acquisiscono «deboli capacità cosiddette decisionali (incertezza di fronte a un menù di scelte) e deboli capacità cosiddette diagnostiche (per esempio nella ricerca di informazioni online)» (**)? E ancora: le retoriche del «petrolio d’Italia» sono o no alle nostre spalle? Perché nella meritoria attenzione al patrimonio esibita da Napoletano e Torno non è chiaro quali politiche di «valorizzazione» si invochino. «Valorizzazione» come finanziamento dei centri di ricerca; processi qualificati, regolari e trasparenti di reclutamento|selezione; e incentivi retributivi, di carriera e editoriali (magari alla traduzione in lingua inglese di studi pubblicati in italiano); o mero commercio dell’aura storico-artistica e archeologica in chiave neocoloniale e neofolklorica? In breve: dovremo formare archeologi magnogreci o camerieri? Tassisti o storici dell’arte trecentesca?
Il tono alato del Manifesto si infortuna rovinosamente in prossimità di analisi e risposte specifiche, e non in un’unica occasione: potremmo perfino dire che insipienza e strumentalità si accompagnano stabilmente. «La dicotomia tra cultura umanistica e scientifica si è rivelata infondata», leggiamo. «Studi cognitivi dimostrano che i ragazzi impegnati in attività creative e artistiche sono anche i più dotati in ambito scientifico». Il riconoscimento è lodevole, anche se l’argomento può apparire puerile, condiscendente o fiabesco. Quali conseguenze ne traiamo sul piano del finanziamento degli indirizzi di ricerca? Finanziamo corsi di laurea e dottorati in analisi testuale, restauro dell’arte contemporanea e iconografia o simpaticamente creiamo un’ora di ricreazione aggiuntiva in Humanities (come qualcuno già suggerisce) nei dipartimenti di economia aziendale e ingegneria? «E’ importante che l’azione pubblica contribuisca a radicare a tutti i livelli educativi, dalle elementari all’università, lo studio dell’arte e della storia per rendere i giovani i custodi del nostro patrimonio, e per poter fare in modo che essi ne traggano alimento per la creatività del futuro. Per studio dell’arte si intende l’acquisizione di pratiche creative e non solo lo studio della storia dell’arte». Ammettiamolo: il passaggio è straordinariamente ambiguo. Lo «studio dell’arte» include, agli occhi dei promotori della «costituente», l’apprendimento di tecniche digitali di manipolazione di immagine, sessioni di skating e laboratori di make up? Piero della Francesca, Nike e L’Oreal? Tutto può contribuire all’«acquisizione di pratiche creative»: persino la stesura di Manifesti.
 
Il testo diviene solenne quando si propone di interloquire con i decisori. «Strategia e scelte operative», si afferma, «devono essere condivise dai ministri dei [sic] Beni Culturali, dello Sviluppo, del Welfare, della Istruzione e ricerca, degli Esteri e dal Presidente del Consiglio. Inoltre il ministero dei [sic] Beni Culturali e del paesaggio dovrebbe agire in stretta coordinazione con il ministero dell’Ambiente e del Turismo». Stabilire chi decide che cosa parrebbe non irrilevante: l’ordinamento gerarchico in tema di politiche culturali non è un dettaglio. Il Manifesto tuttavia in merito tace. La correlazione tra il Ministero delle Belle Arti e quello dell’Ambiente e Turismo desta particolare timore: la prospettiva «copernicano-rivoluzionaria» del Manifesto rimane dunque quella di Mario Resca? E quale è il compito del Ministro della pubblica istruzione, oggi con delega all’Innovazione? Istituire centri di ricerca o decidere che un insegnante è più costoso di un tablet? Nel novembre 2008 il Direttore Generale per la valorizzazione del patrimonio culturale offrì un suggerimento che siamo certi il ministro competente non tarderà a onorare. «Roman ruins such as Herculaneum, Pompeii and Rome’s Forum would prove a spectacular backdrop to product launches», confidò Resca all’allibito intervistatore britannico di The Daily Telegraph (***). «I don’t want to ‘McDonaldise’ Italy’s culture», rassicurò, «but we want multinational companies to choose Italy to launch products like the iPod».
 
 
(*) Sulla prima pagina del Supplemento domenicale del Sole24Ore appare oggi un Manifesto in cinque punti “per una costituente che riattivi il circolo virtuoso tra conoscenza, ricerca, arte, tutela e occupazione”. Il Manifesto è disponibile anche online @ http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2012-02-18/niente-cultura-niente-sviluppo-141457.shtml?uuid=AaCqMotE.
(**) Sulle affermazione di Claudio Gentili e in generali le politiche educative di Confindustria cfr. Michele Dantini, Nostra Signora Innovazione, in: Il Manifesto, 14.1.2012, pp. 10-11, online @ http://micheledantini.micheledantini.com/2012/01/15/innovazione-nelle-scienze-storiche-e-sociali-come-quando-a-quali-condizioni/
(***) L’intervista a Mario Resca è online @ http://www.telegraph.co.uk/news/worldnews/europe/italy/3515335/McDonalds-boss-in-charge-of-Italys-museums.html
 
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Tratto dal blog di Michele Dantini
http://micheledantini.micheledantini.com/2012/02/20/in-tema-di-manifesti-su-cultura-e-ricerca-il-sole-24ore-difende-le-humanities/
20 febbraio 2012
 
 
 
Saggista e critico d’arte, Michele Dantini è professore associato di storia dell’arte contemporanea presso l’università del Piemonte orientale e visiting professor presso università nazionali e internazionali. Laureatosi e perfezionatosi presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, The Courtauld Institute, Londra, Eberhard Karls Universität, Tubinga, è interessato a narrazioni di luogo e pratiche di mobilità|residenza nell’arte contemporanea.